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Fabrizio Gabrielli
Clásico rosarino
24 lug 2015
24 lug 2015
Canaglie contro lebbrosi: presentazione del derby tra Rosario Central e Newell's Old Boys che andrà in scena domenica.
(di)
Fabrizio Gabrielli
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Casomai ce ne fosse ancora bisogno, un’ulteriore riprova dell’irripetibilità del fenomeno Messi risiede nella capacità centripeta—la capacità che per Cortázar ha un buon tema, cioè di sapersi fare astro attorno al quale gravita un intero sistema solare—con la quale ha saputo rendere una città argentina, Rosario, e una delle sue squadre, il Newell’s Old Boys, famose

: oggi in Europa molti conoscono i colori e il nome del NOB per il solo fatto che Messi non ci abbia

giocato (o quantomeno non a sufficienza).

 

Ogni buona storia su Leo parte dal quartiere di Las Heras, dai campi d’allenamento del Newell’s, dall’iconicità dei suoi murales in rosso e nero. Il reportage di Joltter, youtuber calcistico, non fa eccezioni. Anche se poi le uniche immagini de La Pulga in maglia rossonera

, e il supporto di Messi alla causa rosarina passa attraverso le foto del figlio

e alcune vaghe promesse di una “voglia di tornare”.

 

Non che manchino ulteriori spunti oltre Messi per sapere di cosa parliamo quando parliamo di Newell’s Old Boys, epicentro di altri terremoti di

.

 

Al Newell’s si sono affermati Gabriel Omar Batistuta e Néstor Sensini. Anche una minima conoscenza della biografia di Diego Armando Maradona presuppone la nozione base del suo passaggio—con un’incisività inversamente proporzionale alla

—in maglia rossonera (infatti gli hanno dedicato una tribuna del

di Parque Independencia).

 

E poi al Newell’s hanno impilato i primi mattoni delle loro travolgenti carriere da tecnici il

Martino—poi balzato, con una mossa da scacco matto, alla migliore squadra del mondo prima e alla Selección

poi—e soprattutto Marcelo Bielsa (al quale, infatti, il

di Parque Independencia è stato addirittura

). Anche se il punto è sempre quello: Leo Messi.

 


Su Paladar Negro si sono divertiti a immaginare alcune copertine de El Gráfico, la storica rivista di calcio argentina, in cui i più famosi calciatori patri posano con i colori delle squadre che li hanno lanciati (anche se non è propriamente il termine esatto), come se non le avessero mai abbandonate per approdare in Europa. Il fascino vintage delle copertine li lascia a galleggiare in un limbo spazio-temporale impossibile e per questo stimolante in termini di storytelling: se Messi oggi giocasse con il Newell’s, sarebbe LEO MESSI? E il nome dei leprosos sarebbe famoso al pari di quello del River o del Boca?


 

Dover incastrare a questo punto una frase come «Ma a Rosario non c’è soltanto il Newell’s Old Boys» è una grande ingiustizia: il destino, con il Central, è stato ingeneroso.

 

Appassionarsi ai colori giallazzurri della seconda squadra di Rosario (la prima, da un punto di vista cronologico) richiede una conoscenza più approfondita dei miti fondativi, del contesto socio-economico rosarino, addirittura della letteratura (sportiva) argentina. Gli estimatori di Bielsa non sono gli stessi del

Fontanarrosa, anche se forse conoscono Osvaldo Soriano. Aldo Pedro Poy non è stato, per una serie di motivi che forse rifuggono la sua volontà, Gabriel Omar Batistuta. E di Bielsa ce n’è uno soltanto. E poi il

non è Messi.

 


Nel divertissement di Paladar Negro, Ángel Di María indossa ancora la maglia del congiunto Canalla, come è soprannominato il Central. Sull’avambraccio sinistro El Fideo porta tatuato qualcosa che suona come «Nascere a Perdriel è stato e sarà ciò che di meglio mi potesse capitare nella vita». Perdriel è il quartiere disagiato di Rosario, che sta a Di María come Fuerte Apache a Tévez. Peccato che a Paladar Negro abbiano pensato che in quel tempo mitico in cui sono ambientate le illustrazioni i calciatori non dovessero avere tatuaggi, appannaggio di pirati e circensi.


 

La sfida tra Newell’s e Central

, e magari un giorno non troppo lontano sarà, quella tra Messi e Di María. Nel frattempo, tuttavia, esistono una manciata di buoni motivi* per non prendere impegni alle 20 di domenica, cercare uno streaming abbastanza stabile e godersi il Clásico rosarino.

 



L’asse geografico dell’interesse per la Primera División argentina è ben saldo, e tradizionalmente complicato da spostare lontano da Buenos Aires, dal Monumental o dal

de La Boca. Eppure qualcosa si sta muovendo, anche nelle sale dei bottoni in cui si precorrono i tempi dei tifosi, e in qualche modo ci si dispone a influenzarli.

 

Il Rosario Central è la seconda squadra argentina, diciotto anni dopo il Boca, a essere griffata Nike. Il colosso americano ha avuto la lungimiranza e il tempismo di introdursi nella società

con l’occasione di una ricorrenza importante come il centoventicinquesimo anniversario della sua fondazione.

 


Il lancio del nuovo kit, scandito dall’hashtag #RosarioEsDeCentral, prevedeva foto a colori della maglia a contrasto con una litografia in bianco e nero molto agée che condensava tutti i simboli della città: l’obelisco del Monumento Alla Bandiera, i pescatori, gli operai e i binari della ferrovia, i fari del Gigante de Arroyito.


 

Ma soprattutto, Nike ha cavalcato l’onda lunga di una rivoluzione copernicana di tipo calcistico. Risalito in Primera nel 2013 dopo un anno di purgatorio nella serie cadetta, il Central in questi due anni è cresciuto molto sotto la guida di Miguel Ángel Russo, oggi allenatore del Vélez, fino a sfiorare la vittoria della Copa Argentina 2014, persa in finale ai rigori contro l’Huracán nel novembre di un anno fa (sarebbe stato bellissimo se i

avessero alzato la coppa nell’anniversario della morte di Roberto Fontanarrosa, lo scrittore che più ne ha saputo cantare i colori).

 

https://www.youtube.com/watch?v=1U7UwONIDZ0

La sequenza dolorosa, per i colori del Central, dei calci di rigore della finale.


 

Dopo quella cocente sconfitta, la scelta del tecnico su cui impostare il processo di ridefinizione (soprattutto della percezione) del Central è ricaduta su Eduardo Coudet: il

, appena quarantenne, ex calciatore, era nelle intenzioni societarie l’uomo perfetto per praticare un calcio offensivo, divertente, che sapesse valorizzare i giovani e potesse esercitare un fascino su alcuni ex compagni reduci da stagioni non proprio entusiasmanti in Europa, per incentivarli a tornare e tappare i buchi che la loro partenza aveva lasciato incolmabili.

 



Una tendenza diffusa, nel calcio argentino degli ultimi anni, è quella del

: da Verón a Cavenaghi, da Osvaldo a Tévez, molti calciatori tornano—non necessariamente per gli ultimi anni di carriera—in patria a concludere la loro parabola con la maglia che li ha lanciati: c’è come una specie di riconoscenza tacita, negli argentini, per le loro radici. Per alcuni, la maglia può essere sostituita dalla tuta d’allenamento.

 

Quando al Chacho hanno proposto di allenare il Central, racconta, «i miei amici mi dicevano che ero matto, che mi sarei bruciato». «Invece ho avuto la fortuna di potermi muovere per scegliere i calciatori che volevo, la dirigenza mi appoggiava... Mettere su la squadra è stato come giocare al Gran Direttore Tecnico: ti danno 10 pesos e tu cerchi giocatori fin quando finisci i soldi».

 

Con quei soldi, in realtà pochi, Coudet ha saputo organizzare una squadra che oggi, in Argentina, a livello di gioco è seconda forse soltanto al River di Gallardo, tenendo conto che questo River è probabilmente la squadra che gioca il miglior calcio in Sudamerica dai tempi de

di Jorge Sampaoli.

 

https://www.youtube.com/watch?v=XGd5PGsbVxI

Nei sedicesimi di finale della Copa Argentina in corso, il Central ha battuto il River per due a zero, e la rete di Jonás Aguirre, quella che chiude il match, è qualcosa di spaventoso.


 

Coudet ha costruito la sua armata su un’ossatura stabile, puntellata da elementi imprescindibili anche nella vecchia gestione tecnica di Russo. Una delle chiavi di volta del Chacho, non per nulla, è stata quella di puntare sull’identità, sul senso d’appartenenza. Davanti al portiere Caranta, un’istituzione del club, Coudet schiera una difesa che solo sulla carta è composta da quattro uomini. In partita, infatti, i laterali bassi Pablo Álvarez (ex Catania) e Pinola (tornato dopo dieci anni di Germania, al Norimberga) spingono molto sulle fasce, lasciando a Donatti e a Villagra il compito di difendere. In supporto ai due centrali spesso si abbassa, sistematicamente, Damián Musto. Il cambio di ruolo del mediano, che i tifosi dello Spezia ricorderanno con pochi rimpianti, è probabilmente una delle intuizioni migliori di Coudet: a differenza di come lo impiegava Russo, con Nery Domínguez in un’accoppiata da

pura, oggi Musto gioca “da cinque” come lo fa Mascherano: scalando spesso sulla linea dei difensori, erigendosi a prima diga e per questo sempre a rischio ammonizione—come il Mascherano di qualche tempo fa—quando le contingenze della partita gli richiedono un accorciamento degli spazi all’altezza del centrocampo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=KPDCh1o5ovo

Qua c’è una serie di giocate di Musto ai tempi del Quilmes e dell’Atlético Tucumán: il video è stato realizzato in limine al suo arrivo a La Spezia, e fa strano che quasi venga da chiedersi Mascherano chi?


 

Nery Domínguez è il

puro, il perno del centrocampo, davanti al quale si schiera il terzetto di trequartisti composto da Jonás Aguirre, che è quello con compiti più da interno, più difensivi; César

Delgado, passato per la Ligue 1 con il Lione dei tempi d’oro e la nuova stella, proveniente dalle giovanili, Franco Cervi, tutti a supporto del terminale offensivo, della punta di riferimento, che è Marco Ruben.

 

Sebbene Ruben possa sembrare il tipo di

capace di ricevere palla da lancio lungo, controllarla, fare come si dice a “sportellate” e scaricare per le mezzepunte, al contrario sono i tre trequartisti a favorirne la propulsione in zona gol grazie a un gioco palla-a-terra favorito dalla loro statura minuta, dal baricentro basso, dalla capacità di controllo e dribbling.

 

La differenza più grande tra una partita del Central di Russo e una del Central di Coudet è che il numero di lanci lunghi in profondità si è drammaticamente dimezzato.

 

https://www.youtube.com/watch?v=QQSsTlsgYQo

Nel gol contro il Temperley si può vedere bene cosa intendo per gioco palla-a-terra: Cervi si accentra, riceve palla da Nery Domínguez, legge bene l’inserimento di Ruben e lo serve con una verticalizzazione che avrebbe strappato un sorriso anche a Marcelo Bielsa, o comunque a chiunque ami la verticalità.


 

Molte incertezze sugli esiti di Coudet come allenatore risiedevano nel suo passato burrascoso da giocatore, sempre in competizione riottosa con gli avversari, i tecnici, la tifoseria. «Ma sono cambiato un sacco: ora sono più vecchio, e poi sono dall’altra parte della barricata. Bisogna che il Coudet giocatore lo

».

 

Quella combattività Coudet ha saputo trasmetterla alla squadra, che esercita una pressione alta per tutto il tempo della partita, sempre alla ricerca del possesso, sempre molto reattiva sulle seconde palle, anche se spesso la tenacia paga qualcosa in termini di stanchezza, tanto che il Central è stato raggiunto, in cinque delle sette occasioni in cui ha pareggiato, in rimonta.

 

La moneta con la quale gli sforzi dei

per reinterpretarsi sono stati ripagati è il

: da parte dei suoi tifosi, e degli avversari. Oltre, ovviamente, al lusinghiero sesto posto in classifica (a cinque punti dal Boca capolista), raggiunto con un percorso inaugurato con la vittoria contro il Racing campione in carica e macchiato solo dalla sconfitta nello scontro diretto con i Millonarios.

 



Ogni cambio di gerarchie tra due squadre presuppone un punto di convergenza situato a mezz’aria tra i processi di ascesa e discesa di ognuna.

 

Nel 2013 il NOB era semifinalista di Libertadores, si sarebbe laureato campione d’Argentina; era probabilmente la squadra che giocava il calcio migliore del Sudamerica. Sulla sua panchina sedeva Gerardo Martino. Il suo 4-1-4-1 si fondava su due assiomi imprescindibili: il passaggio come

, il movimento negli spazi vuoti come

.

 

I laterali attaccavano con aggressività, Mateo si schiacciava sulla linea difensiva così che Heinze e Vergini potessero allargarsi, e Bernardi, Tonso, Pablo Pérez e Maxi creavano le maglie di passaggi che innescavano Scocco negli ultimi venti metri. Il Newell’s di Martino si

per difendere e si

per attaccare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=vULa62OLQN0&feature=player_detailpage#t=164

Il plesso solare del gioco di Martino, “bielsista” ma più flessibile, era Lucas Bernardi: il suo ruolo in campo era quello del circocentro, il punto centrale della circonferenza inscritta in un triangolo: garantiva equilibrio e stabilità nel gioco fatto di sponde e lanci in profondità.


 

L’intelligenza tattica di Bernardi, che come calciatore ha forse trionfato meno di quanto avrebbe meritato, pur essendo arrivato a tanto così dalla Champions League ai tempi del Monaco (poi sconfitto in finale dal Porto di Mourinho), era evidente in maniera adamantina già dai tempi in cui calcava il campo: non a caso Bielsa, dopo aver accettato il trasferimento a Marsiglia, aveva pensato a lui come possibile “secondo”. Il giorno della sua

ha detto, del Newell’s:

 


Qua mi hanno insegnato a essere un uomo, a lottare, a litigare: è stata casa mia ben oltre il significato di casa mia.


 

Il lato oscuro dei dettami di Martino al NOB, paradossalmente, è stato il suo tracimare dalla prima squadra alle giovanili, così da fissare un’asticella di standard qualitativo che alla lunga si sarebbe rivelato insostenibile.

 

Ricevere un’eredità così pesante è stato dirimente in senso negativo per tutti gli allenatori che l’hanno succeduto: Raggio, Berti, Lunari, tutti alle prime esperienze e tutti ex calciatori del Newell’s (dimostrazione che il Tata-Paradigma non sempre può funzionare), per non parlare del Tolo Gallego, allenatore dell’ultimo semestre, hanno fallito nel tentativo di tenere fede all’identità che il Newell’s si era costruito.

 

Per questo, quando a giugno il tornado rivoluzionario ha investito l’altra metà di Rosario, e Néstor Sensini è stato nominato Direttore Generale del club, la scelta del nome dell’allenatore è sembrata a tutti scontata per quanto azzardata: Lucas Bernardi.

 

Il gioco che Bernardi ha messo in mostra al suo esordio contro il Racing reduce da quattordici partite senza sconfitte—resta impressionante come la Academia si sia ritagliata, quest’anno, il ruolo di crocevia delle rinascite rosarine—è stato, si direbbe, Martino

: un 4-3-3 con Ustari tra i pali, laterali propulsivi come Baez ed Escobar, Villalba a scalare tra i difensori centrali Fernández e López; e poi Dénis Rodríguez (cugino di Maxi), il giovanissimo Mancini (sostituto, per l’occasione, proprio di Maxi) e Tonso a supportare Scocco e Mauricio Tévez, la

rossonera.

 

https://www.youtube.com/watch?v=-_Rh6RAwXv4

La Bombonera. Boca-Newell’s. Golazo di Tévez. Non quello, quell’altro.


 

La partita contro il Racing è stata anche quella in cui il Newell’s ha indossato per la prima volta la nuova maglia. Forse è superfluo sottolinearlo, ma può servire a surrogare la tesi del cambio di interesse nei confronti del calcio rosarino: lo sponsor tecnico che ha sostituito Topper è Adidas.

 



Al di là dell’interesse per lo scontro tra due schemi di gioco simili ma differenti, predicati da due uomini dal passato calcistico contrastante eppure coerente con la sua prosecuzione sulla panchina, il Clásico rosarino ripone metà delle sue aspettative su alcuni degli uomini che scenderanno in campo.

 

La sfida tra i due centravanti Ruben e Scocco, capaci di riciclarsi in patria dopo esistenze calcistiche tanto infruttuose quanto esotiche, passa però in secondo piano di fronte al

tra i due elementi più talentuosi delle rispettive squadre, i più giovani e forse per questo i più appetibili per le squadre europee.

 

Franco Cervi è forse il

argentino meno

che giochi attualmente in Primera, nonostante la statura (bassa) e la spiccata propensione al dribbling lo rendano per certi versi ascrivibile al genere.

 

Cervi gioca sull’out sinistro, ma può giocare anche a destra, è praticamente all’esordio nella prima divisione (se si escludono i pochi scampoli che gli ha concesso Russo nel 2014) e che quest’anno potesse essere quello della sua consacrazione era subodorabile già dal gol da venticinque metri segnato alla prima partita da titolare contro il Racing:

 

https://www.youtube.com/watch?v=SMJICbO0nTY

Ok, l’assist possiamo assegnarlo a Saja, il portiere del Racing, anche se non pregiudica la gradevolezza del gesto.


 

In questi sei mesi è cresciuto in senso non solo lato: ha messo su una decina di chili, tanto che si stenta a riconoscerlo a distanza di una stagione, e si è fatto più resistente alle cariche avversarie, più capace di attutire i colpi. È

non nella maniera in cui lo è Messi, ma più in quella di Diego Buonanotte o Maxi Moralez.

 

Ha la

di puntare gli avversari, inanellando gabole e giochini, ma anche la costanza di farsi carico di una mole di lavoro sporco in fase di pressione senza palla, dimostrazione di una tenacia che si sposa bene con lo spirito del club. Certo, ha la pienezza di sé dei Dieci, questo sì: «La maglia numero 10? Era libera e ho chiesto di prenderla io, tutto qui».

 

https://www.youtube.com/watch?v=ScKUYKwAbho

Pisaditas e cannonate, nonché una reattività sulle seconde palle spaventosa, sono la soundtrack di Cervi.


 

A 21 anni, Cervi è già stato accostato a molti club europei, al Tottenham di Pochettino, ma anche all’Inter di Mancini: dopotutto ha anche un passaporto, oltre al cognome, italiano, anche se sembra improbabile che lascerà—come Mauricio Tévez, d’altronde—la città di Rosario prima della fine dell’estate. O almeno prima del Clásico.

 

Visto che non possiamo vivere nell’attesa, né nel rimpianto, del clásico delle stelle, quello per intenderci tra Di María e Messi, che magari un giorno ci sarà, oggi godiamoci quello

di Cervi e di Tévez, di Scocco e di Ruben, di Coudet e di Bernardi.

 

Altrimenti sarebbe come lasciarci interdire dalle foto della sonda New Horizon: rischieremmo di perdere di vista tutto il bello che c’è, il mare, le ragazze, il vino, su questa Terra.
* Molti altri spunti di interesse per questa sfida, per la storia (e la leggenda) che li circonda, li ho scritti tempo fa in un articolo abbastanza facile da trovare in Internet.

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