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I playoff della rinascita di Goran Dragic
23 set 2020
23 set 2020
I Miami Heat volevano cederlo e ora non possono più fare a meno dello sloveno.
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A vent’anni da oggi, ci ricorderemo probabilmente degli anni ’10 come l’epoca delle grandi point guard, o quantomeno come l’epoca dei grandi creatori di gioco con la palla in mano. Da portatori di palla “tradizionali” come Steph Curry, Chris Paul, Damian Lillard o Russell Westbrook a creatori di gioco sovradimensionati come LeBron James, James Harden, Luka Doncic o Kawhi Leonard, il successo di una squadra va di pari passo con il talento di chi ha il pallone tra le mani per la maggior parte del tempo.

Pur essendo arrivato alla sua dodicesima stagione in NBA, Goran Dragic non ha mai avuto per davvero una squadra interamente tra le mani. Che fosse per l’inesperienza dei suoi primi anni a Phoenix a bottega da Steve Nash o la concorrenza vissuta sia a Houston insieme a Kyle Lowry, o di nuovo ai Suns con Eric Bledsoe (e, per un brevissimo periodo prima dell’addio, anche con Isaiah Thomas), nessuno si è mai davvero fidato nel dargli incondizionatamente le redini della squadra come ad esempio fatto immediatamente con il suo connazionale Doncic una volta sbarcato in NBA.

Anche a Miami Dragic non era arrivato con la responsabilità di gestire l’attacco in prima persona. Nel febbraio del 2015 c’erano ancora in campo sia Dwyane Wade che Chris Bosh e gli Heat erano convinti che l’arrivo di Dragic — per il quale sacrificarono due prime scelte al Draft, una nel 2017 e una non protetta nel 2021 — li avrebbe resi una contender nella Eastern Conference dei Cleveland Cavaliers di LeBron James, Kyrie Irving e Kevin Love. Invece i problemi di salute di Bosh e un livello di talento inadeguato per competere ai massimi livelli hanno portato gli Heat al massimo a giocarsi il secondo turno nel 2015-16 (perdendo 4-3 contro i Toronto Raptors) e l’anno successivo a mancare di poco i playoff nonostante una rimonta pazzesca.

Nel settembre del 2017 Dragic si è tolto la soddisfazione di una vita guidando la Slovenia alla medaglia d’oro a Eurobasket e nella stagione successiva è stato nominato per l’All-Star Game per la prima volta in carriera, dopo anni in cui la sua mancata convocazione aveva cominciato a diventare quasi ridicola (nel 2013-14 finì nel terzo quintetto All-NBA, ma non nella partita delle stelle). Miami però ha continuato a non incidere in post-season (eliminati 4-1 dai Philadelphia 76ers al primo turno nel 2018) e lo scorso anno Dragic ha vissuto la peggior stagione della carriera, complici i problemi a un ginocchio che lo hanno limitato a sole 36 partite giocate e un’operazione chirurgica.

Con un solo anno di contratto rimasto a 19.2 milioni di dollari, i Miami Heat si sarebbero liberati volentieri di Dragic, arrivando a tanto così dal cederlo ai Dallas Mavericks nello scambio che avrebbe portato Jimmy Butler in Florida e Josh Richardson a Philadelphia. Non è mai stato spiegato per davvero perché Dragic non sia andato in Texas a fare compagnia a Doncic: lo scambio sembrava in fase talmente avanzata che Tim Cato di The Athletic aveva dato per fatto l’affare, mentre successivamente il proprietario dei Mavs Mark Cuban ha parlato genericamente di una “mancata comunicazione” tra le parti.

Negli ultimi giorni Michael Lee sempre di The Athletic ha scritto che i Mavericks non avevano alcun interesse a prendere Dragic, già ultra-trentenne, reduce da un’operazione al ginocchio e molto probabilmente con gli anni migliori della sua carriera alle spalle. E il fatto che anche gli Heat fin dall’inizio dell’anno avessero deciso di farlo partire dalla panchina alle spalle di un rookie undrafted come Kendrick Nunn sembrava suggerire che l’intenzione della franchigia fosse sempre quella di scaricarlo al miglior offerente prima della deadline. Invece Dragic non solo è rimasto, ma nella bolla di Orlando — a 34 anni compiuti — è addirittura esploso.

L’ascesa di Dragic nella bolla

Che avere un All-Star come Dragic in uscita dalla panchina fosse un lusso per una squadra (teoricamente) di seconda fascia della Eastern Conference era chiaro a tutti. Così come era chiaro che fosse lui il titolare di fatto degli Heat, visto che nei quarti periodi anche prima della sospensione della stagione era lui a giocare di più rispetto a Nunn (8.9 minuti di media contro 6.2). Il lento recupero del rookie dalle complicazioni dovute al COVID-19 e la decisione di Erik Spoelstra di “gettare la maschera” alla ripresa della stagione, ad esempio schierando stabilmente Bam Adebayo da centro e facendo sul serio da subito, hanno riaperto le porte del quintetto base a Dragic, che da lì in poi è sembrato rinascere a nuova vita.

In un sistema che si fonda sul movimento di uomini e palla come quello degli Heat, un playmaker con le caratteristiche di Dragic è indispensabile. I San Antonio Spurs definivano il lavoro di Tony Parker nel loro attacco come quello di “instigator” - l’istigatore - colui che inizia l’azione; Dragic ha sostanzialmente lo stesso ruolo nell’attacco a metà campo anche per gli Heat, che riservano parte delle loro chiamate offensive ai giochi a due tra lo sloveno e Bam Adebayo, i quali già nel corso della regular season avevano tenuto in piedi gli Heat nei minuti della second unit. Ora la loro connessione è base fondante di ciò che Miami vuole fare soprattutto per mettere in difficoltà i lunghi avversari, che vengono presi in mezzo dal loro vortice di blocchi, passaggi consegnati e inversione dei ruoli tra passatore e tagliante.

Nel terzo quarto di gara-2, vinto dagli Heat 37-17, Adebayo ha fatto quello che ha voluto in situazioni come queste, mandando in crisi l’intera difesa dei Celtics.

Dragic ha una capacità speciale nel trovare i tempi e i modi giusti per creare dal pick and roll, e quando è in giornata è capace di essere pericoloso in prima persona. Se gli Heat sono riusciti a vincere le prime due partite della serie contro Boston, portandosi a un record di 10-1 nei playoff della bolla prima della sconfitta di gara-3 contro i Celtics, è anche perché lo sloveno ha torturato ripetutamente Daniel Theis, rendendogli la vita un inferno.

In situazioni classiche di pick and roll, Theis nelle prime due partite non ha avuto una possibilità di trovare la giusta misura contro Dragic, venendo battuto ripetutamente e sonoramente.

I 54 punti realizzati dal playmaker degli Heat nelle prime due partite (29 in gara-1 e 25 in gara-2, tra cui i due canestri decisivi nel finale) hanno portato coach Stevens ad adattare la marcatura su di lui, piazzandogli quasi esclusivamente Marcus Smart sulle tracce e togliendogli la possibilità di attaccare Theis, che ha giocato solo 24 minuti in gara-3 dopo i 35 e 32 dei primi due episodi della serie, anche sfruttando il ritorno in campo di Gordon Hayward.

Dopo aver segnato la prima tripla, Dragic non ha più trovato i suoi punti del campo preferiti da cui attaccare e non ha praticamente più messo piede in area, sbagliando anche tiri semplici come il secondo e chiudendo con 11 punti, 2/10 al tiro, 5 assist e 5 palle perse per un disastroso -29 di plus-minus. Ma già il fatto che i Celtics abbiano dovuto adattarsi su di lui dice molto della sua importanza per la serie.

L’importanza di cedere il pallone

Nonostante la brutta gara-3, Dragic è ancora il miglior realizzatore di una squadra di cui si parla soprattutto per la leadership di Jimmy Butler, per l’ascesa di Bam Adebayo, per la freschezza di Tyler Herro e per l’acume tattico di Erik Spoelstra, ma di cui è parte fondamentale segnando 21.3 punti di media con 4.3 rimbalzi e 4.7 assist, tirando con il 46.3% dal campo e il 38.3% da tre su quasi sette tentativi a partita. Proprio la sua capacità di segnare anche dall’arco e di muoversi con profitto lontano dal pallone è stata quasi controproducente per i riconoscimenti della sua carriera: essendo così efficace anche senza la palla tra le mani, spesso Dragic si è ritrovato a giocare e a fare spazio ad altri creatori di gioco ingombranti, dovendo cedere parte degli oneri e degli onori di essere il “lead ball-handler” perché tanto “sa giocare anche senza”.

Ma la sua intelligenza nel non volersi imporre e anzi, di promuovere e incoraggiare l’ascesa di giovani al suo fianco — come sta facendo ad esempio con Tyler Herro — è uno dei motivi che rende la sua carriera così strana e speciale, per quanto senza il credito che meriterebbe. La cavalcata di questi sorprendenti Heat, che sono a due vittorie dal tornare alle Finali NBA come nell’anno prima che arrivasse lui, va di pari passo con la sua carriera in Florida: nonostante nessuno davvero se lo filasse, Dragic ha continuato a giocare la sua pallacanestro sottovalutata e silenziosa, costruendo le giuste abitudini e aspettando che attorno a lui venisse creata una squadra che lui potesse esaltare senza dover per forza trascinarla, mettendo il suo talento a disposizione degli altri.

Non è un caso se tanti giocatori hanno giocato meglio con lui al fianco (avete più visto Dion Waiters toccare i livelli della stagione 2016-17?) e anche questi Heat raggiungono il loro apice offensivo quando Dragic è in giornata, sfruttando la sua competitività ed esperienza. Se Bam Adebayo è il re dell’On-Off Rating degli Heat (+11.4 su 100 possessi quando c’è, -8.8 quando non c’è), Dragic lo segue a ruota: con lui in campo il differenziale tra attacco e difesa su 100 possessi è di +7.2 (più alto di quello di Butler), mentre quando esce è l’unico insieme al lungo ad avere Net Rating negativo (-1.5).

In un sistema che richiede a tutti di saper fare tutto, Dragic è il miglior palleggiatore e trattatore del pallone a disposizione di coach Spoelstra, oltre ad avere l’intelligenza necessaria per sapere quando prendersi la responsabilità di creare qualcosa e quando invece conviene rimanere sul perimetro, lasciando spazio a Butler o Herro, gli altri due trattatori di palla chiamati a duettare con Adebayo. Ci vuole anche una certa predisposizione d’animo per vivere sempre sotto traccia, ma a 34 anni suonati questa potrebbe essere l’ultima occasione di vincere il titolo per un giocatore sottovalutato dell’ultimo decennio di NBA — che non è mai stato così vicino ad arrivare all’appuntamento finale per l’anello.

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