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Marco D'Ottavi

Breve storia delle piste da bob abbandonate

Tre esempi dopo l'abbandono del progetto di Cortina.

Il 16 ottobre Giovanni Malagò, presidente del CONI, nonché membro CIO e presidente della Fondazione Milano-Cortina, si è presentato sul palco della 141° Sessione del Comitato Olimpico Internazionale e ha confermato qualcosa che in molti sospettavano: «Il Governo ci ha informati che sta valutando l’opzione migliore e più sostenibile, ovvero non realizzare lo Sliding Center [la pista da bob, slittino e skeleton, nda] e spostare le gare in una sede già esistente e funzionante. Di conseguenza Milano Cortina 2026 deve individuare un’altra sede fuori dall’Italia».

 

La notizia ha avuto una grande eco prima di tutto per un motivo geografico: se ben 36 medaglie, quelle messe in palio dalle gare di bob, skeleton e slittino, vengono assegnate all’estero (si parla di Austria o Svizzera) sono davvero Olimpiadi “italiane”? Dopo la necessità di accodarsi alla Turchia per poter organizzare gli Europei del 2032, questo della pista irrealizzabile in Italia è stato un altro piccolo colpo basso al nostro nazionalismo con cui dobbiamo fare i conti, soprattutto per Cortina stessa, visto che era una delle poche discipline previste sul proprio territorio che comunque compone metà del nome dell’evento.

 

Senza neanche essere costruita, la pista da bob di Cortina è diventata un simbolo del fallimento di un certo modo di fare le cose all’italiana, ma anche delle difficoltà sempre più crescenti di organizzare un grande evento sportivo. Nel rapporto tra complessità ed effettiva utilità, una pista da bob rappresenta una specie di mostro finale: alti costi di realizzazione e di gestione per una struttura che non ha appeal turistico e uno sportivo difficile da definire. Inoltre è anche impossibile da riconvertire: se una pista di pattinaggio può diventare un luogo per eventi e concerti, come capitato con l’Oval Lingotto di Torino, cosa fare di un mezzo tubo ghiacciato lungo almeno un chilometro e mezzo e con 15 curve? Certo non ci puoi fare l’Aerospace & defense meetings (o forse sì, pensateci non sarebbe male).  

 

Armin Zöggeler, leggenda dello sport italiano e attuale direttore tecnico delle nazionali di slittino, ne ha fatto una questione di futuribilità di questi sport: «Se non abbiamo una pista in futuro è difficile immaginare di tenere il passo della concorrenza. Quali sono le prospettive per lo slittino italiano? Le medaglie noi le vogliamo, anche la Federazione e anche il CONI. Tutti vogliamo le medaglie, ma non vogliamo una pista. È una follia. […] Sarà ancora più complicato avvicinare nuovi giovani a queste discipline, siamo obbligati ad andare all’estero e a testare il materiale all’estero. È un grande danno per l’Italia». 

 

La sua è un’obiezione estremamente sensata, ma anche poco pragmatica. Dove deve tracciare una linea l’Italia nei suoi investimenti sullo sport? Al momento i praticanti di questi tre sport, messi insieme, arrivano a malapena al centinaio, difficilmente una nuova pista porterebbe questo numero a salire nell’ordine delle decine di migliaia. Anche prima di essere accantonata, la pista di Cortina aveva creato dibattiti e contestazioni, sia sul piano strutturale che ambientale. L’idea iniziale era di ristrutturare la vecchia pista di Cortina dedicata a Eugenio Monti, leggenda italiana del bob che Gianni Brera aveva soprannominato “Il rosso volante”, una possibilità che avrebbe ridotto i costi e l’impatto ambientale, ma presto ci si è accorti che sarebbe stato impossibile. Allora la pista, che dal 2008 è abbandonata, è stata smantellata per fare spazio a quella nuova, che però non verrà costruita. Nell’equazione, quindi, Milano-Cortina ci ha portato a -1 piste da bob, per quanto ironico possa sembrare. 

 

È l’ultimo capitolo di una strana storia, quella delle piste da bob. Oggi di attive (dove cioè è possibile organizzare competizioni) ce ne sono 17, quelle dismesse sono 15, quasi la metà del totale. Queste piste abbandonate si trovano ovunque, dal Giappone al Canada, dalla Russia alla Norvegia. Hanno tutte storie simili, spese enormi fatte in momenti di entusiasmo prima di affrontare la dura realtà e diventare cattedrali nella neve. Io ho scelto di raccontarne tre: due sono le piste italiane di cui si è tornato a parlare in questi giorni, la terza è probabilmente la più famosa pista da bob della storia. 

 

Pista olimpica Eugenio Monti

Il bob arriva a Cortina d’Ampezzo agli inizi del ‘900. Sarà un caso che uno sport che – idealmente – promette di lanciarsi sul ghiaccio con il corrispettivo di una macchina da corsa sia arrivato nella città del lusso invernale per eccellenza? Non lo sappiamo, non sappiamo neanche se Cortina nel 1905 fosse già come un film dei Vanzina (probabilmente no). In quegli anni ci si diletta lungo la strada tra Pocol e Cortina, poi nel 1923 nei pressi del villaggio di Ronco viene costruito un vero tracciato, che cinque anni dopo ospita i campionati mondiali universitari. Nel 1936 c’è un primo ammodernamento, ma è nel 1949, dopo l’assegnazione delle Olimpiadi del 1956 a Cortina, che il CONI la infiocchetta. Sono gli anni del piano Marshall e non si bada a spese. La pista di Cortina è considerata la migliore al mondo, insieme a St. Moritz e Garmisch. Quando nel 1956 arrivano i migliori bobisti del mondo per le Olimpiadi è un successo di pubblico e stile. Durante le gare l’AGIP provvede a riscaldare con raggi infrarossi le tribune degli spettatori, l’Italia vince un’oro e due argenti nel bob, è la miglior Nazionale nella disciplina. 

 

Quattro anni dopo, nel 1960 qui vengono disputati i Mondiali che sono una specie di mini-Olimpiadi, visto che sostituiscono proprio le gare olimpiche dopo la rinuncia di Squaw Valley a costruire una pista solo per l’occasione. Nel 1966 durante una gara muore il bobbista della Germania dell’Ovest Toni Pensperger. Questa tragedia ferma la pista per 15 anni, per lavori di adeguamento. Quando torna a ospitare i Mondiali, nel 1981, a morire è lo statunitense James Morgan. La sua morte viene trasmessa in diretta dalle televisioni di tutto il mondo. 

 

Una settimana dopo, per quanto strano possa sembrare, sulla pista da bob di Cortina si svolgono le riprese di una delle scene più famose del film della saga di James Bond, Solo per i tuoi occhi. Roger Moore fugge in sci da un manipolo di cattivi e finisce proprio sulla pista da bob. Alle sue spalle un cattivo in moto, davanti una squadra di bob. Durante le riprese lungo la pista muore lo stuntman Paolo Rigon. Insomma, non una pista fortunata.

 

Come fosse uno specchio del paese, dopo gli anni ‘80 la pista è lentamente caduta in declino. Con l’assegnazione a Cortina nel 2007 dei Mondiali di bob del 2011 si pensava potesse esserci una rinascita, ma a causa di problemi finanziari la città veneta è costretta a rinunciare alla rassegna. Negli stessi mesi la pista avrebbe dovuto essere omologata per lo skeleton (quello in cui gli atleti si sdraiano a pancia in giù), ma erano saltati i lavori sempre per problemi economici. L’anno dopo, nel 2008, il comune decide di chiuderla: i costi di manutenzione e gestione sono diventati troppo alti.

 

Da quel momento, per gli abitanti di Cortina, la pista era diventata un posto per andare a passeggiare, vista anche la sua collocazione tra migliaia di alberi. In parte era diventato un monumento al tempo che passa. Da qualche mese non c’è più.

 

Cesana Pariol

Il nome della pista Cesana Pariol è rispuntato negli ultimi giorni dopo un silenzio di anni. Sembra infatti che, per mantenere l’italianità delle gare di bob, slittino e skeleton, potrebbe essere usata questa pista in provincia di Torino. C’è un problema però: è abbandonata dal 2011. Considerando che è stata ultimata nel 2005, il suo ciclo di vita è stato di sei anni, meno del pc portatile da cui sto scrivendo (e che ogni tanto si spegne da solo).



La sua realizzazione fu decisa dopo l’assegnazione delle Olimpiadi invernali del 2006 a Torino, nonostante ne fosse disponibile una già bella e pronta ad appena un’ora di distanza a La Plagne, nella Savoia francese. A impuntarsi sull’idea di una pista da bob italiana furono l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini e il sottosegretario Mario Pescante. Il progetto iniziale prevedeva di farla a Beaulard, ma si scoprì che lì il terreno era franoso, allora spostarono tutto poco più in là, a Jouvenceaux, ma la montagna era piena di amianto e non poteva essere toccata. Allora toccò a Sansicario, una frazione del comune di Cesana Torinese. 

 

«Se penso che mi sono fatto convincere, mi viene il magone» dirà anni dopo Roberto Serra, il sindaco. Era stato lui a convincere il suo paese che sarebbe stata una buona idea: «Salirono tutti qui per rassicuraci: Frattini, Pescante, Ghigo, Chiamparino, perfino Alberto di Monaco. Accettammo. Sbagliammo». Cesana doveva diventare una specie di “Coverciano della neve”, visto che nei dintorni venne costruito anche l’anello per il biathlon e delle piste per sciare. Ovviamente non è successo.

 

Per realizzarla servono 110 milioni di euro, gli scavi portarono alla luce resti di archeologici di epoca romana. Classic Italia. Durante le prime gare, organizzate per omologare la pista, ci furono diversi infortuni: Wolfgang Linger si ruppe la caviglia, Anne Abernathy la clavicola, ma il peggio capitò a Renato Mizoguchi che finì in coma (da cui poi per fortuna si riprese). Proprio il suo infortunio convinse l’organizzazione a intervenire, modificando le curve 16, 17 e 18 per aumentare la sicurezza del tracciato. 

 

Le Olimpiadi, almeno, furono un successo: Armin Zöggeler vinse l’oro, diventando il primo italiano a salire su un podio olimpico quattro volte consecutive. Nel bob, tanto per cambiare, vinse tutti gli ori la Germania (noi prendemmo un inaspettato bronzo nel doppio femminile). 

 


La pista diventa una specie di amuleto per gli atleti italiani, un tracciato dove possono allenarsi e sono imbattibili. Nel 2011, ai mondiali di slittino, Zöggeler si ripete, confermando il suo dominio sulla specialità. È però il canto del cigno di Cesana Parol: la gestione delle 50 tonnellate di ammoniaca necessarie per tenere la pista ghiacciate è troppo costosa e problematica e la Parcolimpico, la società che ha in gestione la struttura, decide che devono essere recuperate e impiegate in altre lavorazioni industriali, così da ridurre le spese. 

 

La pista finisce così in un limbo: teoricamente nuova e funzionale, praticamente inutilizzabile perché senza ghiaccio, la condizione necessaria per renderla più di uno strano serpente di cemento inserito in un ambiente bucolico. Rimane attivo il pistino di spinta, dove gli atleti possono allenarsi per quella che è la primissima parte di una gara, ma per il resto è un fantasma. Passano gli anni e si parla, ciclicamente, di sbloccare i fondi necessari per riportarla agli antichi splendori, ma non succede nulla. Nei giorni scorsi il TG regionale del Piemonte è andato a controllarne lo stato, che sembra migliore di quello che ci si poteva aspettare da una pista abbandonata da 12 anni. 

 

Pista olimpica di bob e slittino del Trebević

Nel 1977 il Comitato Olimpico Internazionale assegna le Olimpiadi invernali del 1984 a Sarajevo. Saranno le prime a svolgersi in un paese di lingua slava, le prime invernali in un paese comunista. Sarajevo in quegli anni è il fiore all’occhiello del comunismo di Tito, una città culturalmente viva e cosmopolita. Inoltre è incastonata tra le Alpi Dinariche, che non guasta quando devi organizzare le Olimpiadi invernali.



Non esiste una pista di bob, ma non c’è problema: in poco più di un anno se ne costruisce una sull’amato Monte Trebević, una pista progettata per avere un impatto ambientale minimo e la possibilità di essere usata anche per allenamenti o per principianti che non possono lanciarsi a 130 chilometri sul ghiaccio dentro una cosa che sembra un missile. Un progetto costoso e all’avanguardia. 

 

I Giochi sono un successo internazionale e le gare di slittino e bob si svolgono davanti a circa 30mila spettatori. A dominare nel bob è la Germania Est, che vince i due ori e i due argenti a disposizione. Nello slittino singolare maschile l’oro è dell’italiano Paul Hildgartner, una delle due medaglie della nostra spedizione. 

 


Dopo le Olimpiadi la pista sopravvive come può sopravvivere una pista di bob e slittino: ospitando qualche gara di Coppa del Mondo. Nel 1992, però, smette di essere un impianto sportivo e diventa uno scenario di guerra. L’esercito serbo occupa il monte Trebevic per interrompere i collegamenti tra la città e il mondo esterno: è l’assedio di Sarajevo. L’assedio dura dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, il più lungo della storia moderna. La pista da bob, con la sua posizione privilegiata sopra la città, diventa per l’esercito serbo un luogo ideale dove piazzare la sua artiglieria con cui colpire Sarajevo. 

 

Finita la guerra, la pista da bob diventa un simbolo della tragedia. Da fiore all’occhiello di una città viva e vitale a scheletro del conflitto etnico. Proprio dalle parti della pista passa infatti l’attuale confine tra la Republika Srpska (cioè la parte serba della Bosnia) e la Federacija Bosne i Hercegovine (la sua parte croato-bosgnacca). La pista, danneggiata dall’artiglieria dell’esercito serbo e dai colpi di risposta di quello bosniaco, rimane abbandonata a se stessa, e in questa zona di confine tra due popoli che convivono malvolentieri. Col tempo diventa una tela per writer, che trovano uno spazio perfetto per esprimere la loro arte in un cimitero di cemento e curve.  

 

 

Nel 2014 è iniziato un ambizioso progetto di ricostruzione, ma finora pochissimo è stato fatto, anche per le difficoltà pratiche a far collaborare due realtà ancora distanti. Nei mesi scorsi sembrava potessero finalmente partire i lavori, perché la pista avrebbe potuto ospitare le gare per la candidatura di Barcellona e Saragozza 2030, che però è già caduta in disgrazia (non una grande idea organizzare delle Olimpiadi invernali a Barcellona nell’era della crisi climatica). Intanto la pista è diventata un luogo di turismo storico, naturale e artistico. Da Sarajevo ci si arriva con una decina di minuti di macchina o con la funivia, riaperta nel 2018. Si può camminare lungo una parte della pista ed è un’esperienza suggestiva.

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.