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Nicola Sbetti
Perché Israele non viene sospeso come la Russia?
24 mag 2024
24 mag 2024
Le istituzioni sportive internazionali per adesso hanno deciso di ignorare l'invasione di Gaza.
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Nicola Sbetti
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IMAGO / Sportfoto Rudel
(foto) IMAGO / Sportfoto Rudel
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A meno di colpi di scena difficilmente prevedibili adesso, ai prossimi Giochi olimpici, che si svolgeranno a Parigi dal 26 luglio all’11 agosto, Russia e Bielorussia non prenderanno parte alle gare, se non con alcuni selezionatissimi atleti individuali ai quali, solo in alcune discipline, è stato consentito di competere come neutrali, a condizione però che non facciano parte di corpi militari e non si siano espressi pubblicamente in favore dell’invasione. È stato l'effetto dell'esclusione della Russia decisa da gran parte degli organi sportivi dopo l'inizio delle operazioni militari per l'invasione dell'Ucraina, avvenuto ormai quasi due anni e mezzo fa. In molti, dopo il terrificante attacco alla striscia di Gaza dell'esercito israeliano a seguito del massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre del 2023, si sono chiesti perché una sanzione non sia stata inflitta anche a Israele, i cui atleti potranno gareggiare a Parigi senza alcuna limitazione.

Diversi commentatori hanno criticato aspramente il Comitato olimpico internazionale (CIO) per questa ragione. Per esempio Jules Boykoff ha parlato apertamente di "doppio standard", mentre Dave Zirin si è chiesto quanto a lungo il movimento olimpico potrà tollerare senza agire il massacro di atleti ed allenatori palestinesi e la distruzione delle infrastrutture sportive di Gaza (in questo pezzo, per esempio, Karim Zidan raccontava della sistematica distruzione degli stadi di calcio). Anche in Italia non sono mancati interventi analoghi, come quello di Luca Pisapia su Valori o di Antonella Bellutti su Domani.

È un argomento complicato, ovviamente, ma, adottando un punto di vista esclusivamente etico-morale, è impossibile non notare l'ipocrisia dietro la posizione del CIO. L'organizzazione presieduta da Thomas Bach ha infatti adottato un atteggiamento radicalmente diverso nei confronti dei comitati olimpici di Russia e Israele, i cui eserciti sono impegnati in un’occupazione territoriale che ha provocato la morte anche di numerosi atleti e dirigenti. La Associated Press ha certificato oltre 400 sportivi ucraini morti a causa dell’invasione russa e fonti turche hanno registrato non meno di 250 sportivi palestinesi uccisi a seguito di quella israeliana a Gaza. Certo, ci sono delle differenze tra i due interventi (dato che l'Ucraina è a tutti gli effetti uno stato sovrano, cosa che non si può dire invece pienamente della Palestina) ma di fronte a tali tragedie, le sottigliezze giuridiche e i possibili casus belli addotti dalle due forze occupanti non dovrebbero contare per le istituzioni sportive internazionali.

D'altra parte, anche adottando un criterio rigidamente giuridico, una sanzione nei confronti dello sport israeliano potrebbe essere pienamente giustificabile. Non solo l’invasione di Gaza ha portato alla distruzione di infrastrutture sportive, all’uccisione di atleti e dirigenti, e all’impossibilità per i sopravvissuti di allenarsi e svolgere competizioni, ma l’esercito israeliano ha anche trasformato in campi di prigionia a cielo aperto quegli stadi che non ha distrutto (come per esempio lo stadio Al-Yarmouk a Gaza City). Le organizzazioni sportive israeliane, com'è noto da tempo, schierano nei propri campionati squadre di territori palestinesi occupati illegalmente dai coloni contravvenendo agli statuti della FIFA. Non a caso, proprio con queste motivazioni, sono state lanciate petizioni affinché Israele venga escluso dallo sport internazionale.

Prigionieri palestinesi nello stadio Al-Yarmouk, da un video emerso lo scorso 26 dicembre.

Al di là di considerazioni di tipo etico o giuridico, quando devono prendere decisioni di questo tipo le istituzioni sportive internazionali ragionano in termini esclusivamente politici. È proprio per questo motivo che queste organizzazioni cercando di difendersi dalle ingerenze esterne dei Paesi che vi partecipano. Da una parte, utilizzando il rispetto dei propri statuti e regolamenti per difendersi. Dall'altra, dotandosi di un apparato ideologico "di difesa" basato sull’ipocrita ma essenziale principio di neutralità politica grazie a cui provano a garantirsi un minimo spazio di autonomia. È il vecchio principio per cui sport e politica non devono mischiarsi: tutti sanno che non è così, ma affermare questo principio serve allo sport proprio per non essere "divorato" dalla politica.

La situazione della Russia

È per questa ragione che il CIO cerca di stare il più possibile alla larga da qualsiasi conflitto. Oggi non ha nessuna intenzione di escludere Israele, così come un paio d'anni fa non avrebbe voluto escludere la Russia. Uno dei suoi principi cardini è infatti l’universalismo. Se il movimento olimpico perdesse anche solamente uno dei suoi membri verrebbe meno una parte della propria capacità di influenza e della propria legittimità, mentre aumenterebbe la possibilità di veder emergere competizioni concorrenti che potrebbero minare la sua posizione monopolistica. Questo scenario, che si era già concretizzato negli anni Venti e Trenta con le Spartakiadi organizzate dall’Unione Sovietica, e nel 1963 con i Giochi delle nuove forze emergenti di Jakarta supportato dalla Repubblica Popolare Cinese, rischia di verificarsi nuovamente.

La Russia, in funzione anti-olimpica, sta infatti investendo sui BRICS Games (dove BRICS sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), previsti a giugno a Kazan, e sui World Friendship Games, previsti a Mosca e a Ekaterinburg in settembre. Anche se ciò ha provocato una certa irritazione nei vertici del CIO, a Losanna continuano a tenere aperta una finestra di dialogo con la Russia, proprio perché l'obiettivo di lungo periodo è quello di reintegrarla e non perdere così l'universalismo insito nella propria missione. Lo dimostra il fatto che i membri russi del CIO siano ancora al loro posto e che, pur individualmente e senza i simboli nazionali, agli atleti russi che non fanno parte dei corpi militari e che non si sono espressi a favore della guerra sia stato comunque consentito di qualificarsi ai Giochi.

Certo, quando nel febbraio del 2022 la pressione per escludere Russia e Bielorussia rischiava di paralizzarlo, il sistema sportivo internazionale non ha esitato a sacrificare parzialmente la propria universalità. Ma nel farlo è riuscito comunque a trovare un appiglio che preservasse il principio di neutralità. Come? Specificando che la sanzione raccomandata contro Mosca e Minsk non fosse conseguenza di una condanna politica per l’invasione in atto quanto piuttosto per l’infrazione di un “regolamento sportivo”, ovvero la violazione della tregua olimpica. Le differenze con il caso di Israele

Sul piano formale, quindi, proprio la tregua olimpica rappresenta una prima differenza fra le posizioni di Mosca e di Gerusalemme. La tregua olimpica viene infatti lanciata una settimana prima dei Giochi Olimpici, sia estivi che invernali, e dura fino a una settimana dopo della fine dei Giochi Paralimpici, che si tengono poco dopo. L'invasione dell'Ucraina, partendo il 24 febbraio del 2022 - cioè quattro giorni dopo la fine delle Olimpiadi invernali di Pechino e nove prima dell'inizio dei Giochi Paralimpici - costituisce quindi una violazione della tregua olimpica, cosa che al momento a Israele non può essere rimproverata. Ovviamente è una spiegazione semplicistica: la tregua olimpica è stata solo un appiglio formale per legittimare una sanzione verso lo sport russo e bielorusso che sia coerente con il (tanto ipocrita quanto vitale) principio dell’apoliticità dello sport. Se guardiamo alla storia, infatti, i Paesi che l'hanno violata senza essere sanzionati sono numerosi, compresa la stessa Russia nel 2008 e nel 2014.

La seconda differenza, ben più importante dal punto di vista sostanziale, è rappresentata dal diverso peso sportivo della Palestina rispetto all’Ucraina. Quest’ultima è una media potenza a livello olimpico e una superpotenza a livello paralimpico, mentre sin qui il peso della Palestina nel mondo dello sport è stato marginale. La causa ucraina, infatti, è stata perorata da decine di atleti riconoscibili in tutto il mondo fra cui, solo per citare i più famosi, l’ex pallone d’oro Andriy Shevchenko, le stelle della Premier League Oleksandr Zinchenko e Mychajlo Mudryk, il campione del mondo dei pesi massimi di pugilato Oleksandr Usyk e campionesse del calibro di Elina Svitolina, nel tennis, e Olga Kharlan, nella scherma. Tutto questo ha un peso da un punto di vista mediatico e quindi in parte anche da un punto di vista politico.

Nonostante il governo Zelensky abbia deciso di esentare la gran parte dei propri atleti dal fronte e di continuare a porte chiuse le competizioni sportive, poi, l’Ucraina può mettere sul piatto della bilancia un martire olimpionico e, per quanto possa apparire cinico come ragionamento, non è poco. Si tratta di Oleksandr Pielieshenko, due titoli europei e una medaglia olimpica sfiorata a Rio 2016 nel sollevamento pesi, morto in combattimento lo scorso 5 maggio.

Anche questa seconda differenza, comunque, non riesce a spiegare del tutto il doppio standard che il movimento olimpico sta riservando fin qui alla Russia e alla Bielorussia, da un lato, e a Israele, dall’altro. L’elemento decisivo, infatti, è un altro: il diverso sostegno politico internazionale. Sembra una spiegazione ovvia e banale, ma in realtà non è così.

Al contrario di quanto successo a seguito dell'invasione russa dell'Ucraina - quando non solo gli atleti ucraini ma anche molti colleghi occidentali, supportati dalle proprie organizzazioni sportive nazionali e persino dai governi, in pochi giorni a suon di minacce o di effettivi boicottaggi avevano costretto il movimento olimpico a sanzionare Mosca e Minsk - la causa palestinese ha avuto un supporto quasi nullo. Certo, la solidarietà del mondo sportivo di fronte alla distruzione e ai massacri nella Striscia di Gaza non è mancata, ma è arrivata quasi esclusivamente dal basso, in particolare da tifosi ed atleti, senza però che ciò mettesse davvero a repentaglio (com’era invece accaduto alla Russia) l’attività sportiva israeliana in campo internazionale. Nonostante da mesi negli stadi si vedano bandiere palestinesi e striscioni in solidarietà alla popolazione di Gaza, e non manchino gli sportivi che pubblicamente hanno fatto dichiarazioni in questa stessa direzione, nel contesto sportivo occidentale questo supporto è stato spesso problematico e conflittuale. È stato emblematico in questo senso il caso del calciatore olandese Anwar El Ghazi, che ha pagato le proprie posizioni con il licenziamento da parte del Mainz.

Proprio El Ghazi ora sta organizzando a Londra per il primo giugno 2024 un’amichevole benefica i cui proventi andranno ad aiutare i bambini di Gaza. Molta eco ha avuto anche l’amichevole giocata il 15 maggio dalla nazionale femminile palestinese di calcio a Dublino contro i Bohemians e si potrebbero fare ancora molti altri esempi di solidarietà dal basso. Resta però il dato sostanziale che in questi mesi la causa palestinese ha avuto uno scarso supporto politico-diplomatico da parte dei governi e che questo isolamento si è riflesso anche nel mondo dello sport.

Se spostiamo il nostro focus dagli spalti e dai social verso i luoghi in cui vengono prese le decisioni, risulta lampante come i pochi sinceri alleati della causa palestinese non siano riusciti, e forse nemmeno hanno voluto, fare massa critica per cercare di sanzionare lo sport israeliano. In questo senso, l’unico episodio significativo riguarda l’hockey su ghiaccio, uno sport totalmente marginale per Israele e irrilevante per la Palestina. A inizio gennaio 2024 la federazione internazionale di hockey su ghiaccio ha infatti deciso di escludere Israele dai campionati mondiali maschili e femminili, motivando però la scelta esclusivamente con ragioni di sicurezza.

La doppia strategia palestinese

Non sono mancate, anche in altre discipline, prese di posizioni filo-palestinesi e anti-israeliane, ma sono sempre state caratterizzate da un approccio prudente e da numeri limitati. Fra queste il caso più interessante riguarda il calcio, lo sport di squadra globale per eccellenza, in cui peraltro nell’ultima Coppa d’Asia la Nazionale palestinese maschile ha ottenuto una storica qualificazione agli ottavi di finale.

Da questo punto di vista è stato importante quello che è successo in occasione del 74° congresso della FIFA che si è svolto a metà maggio a Bangkok dove, sulla scia di alcuni timidi passi fatti precedentemente dalla Federcalcio giordana e poi da altre federazioni arabe fra cui l’Algeria, l’Iraq, la Siria e lo Yemen, si è provato a sanzionare Israele. Sebbene il presidente della FIFA, Gianni Infantino, sia riuscito senza troppe difficoltà a dribblare il problema rimandando la questione a luglio (e ponendola a un gruppo di esperti legali indipendenti), il protagonista del congresso è stato Jibril Rajoub, il presidente della federazione palestinese, che in un appassionato discorso ha messo in luce la drammatica crisi senza precedenti che il popolo e i calciatori palestinesi stanno vivendo in questi mesi.

Definire Rajoub un uomo di sport è riduttivo. Come ha recentemente ricordato Francesco Belcastro, Senior Lecturer dell’Università di Derby in una puntata di Road to Paris, Rajoub è un ex generale, nonché uno dei principali membri di Fatah a lungo in corsa per la successione ad Abu Mazen. Arrivato alla guida delle istituzioni sportive palestinesi (oltre alla federcalcio presiede anche il Comitato olimpico), più per interesse politico che non per sincera passione, ne ha comunque colto il potenziale. Celebri rimangono il cartellino rosso a Israele sventolato nel 2015 in occasione del 65° congresso della FIFA, e i suoi sforzi per utilizzare lo sport come strumento per rafforzare il riconoscimento internazionale della Palestina. Proprio per questo suo attivismo politico è percepito come un outsider dai suoi colleghi dirigenti sportivi internazionali e, in diverse occasioni, è stato messo sotto inchiesta (e una volta sospeso) dalla FIFA per aver incitato all’odio e alla violenza. D'altra parte, è anche per questo che i vertici politici israeliani hanno avuto gioco facile a dipingerlo come un terrorista.

Il tweet del ministro degli esteri israeliano, Israel Katz, che parla di Rajoub come di "un terrorista in giacca e cravatta", raffigurandolo come un uomo in prigione che gioca a calcio.

La figura di Rajoub è particolarmente interessante perché ci permette di vedere l'atteggiamento ambivalente che i vertici sportivi palestinesi stanno avendo nelle ultime settimane nei confronti di Israele. Se in un’intervista di gennaio ad Al Jazeera, Rajoub accusava senza distinzioni sia la FIFA sia il CIO di doppio standard nei confronti di Russia e Israele ribadendo la necessità di squalificare Israele, nelle ultime settimane questo atteggiamento è totalmente cambiato.

Fondamentale si è rivelata la visita di Rajoub dello scorso 18 aprile al quartier generale del CIO a Losanna. Dopo l’incontro con il Presidente Thomas Bach, Rajoub ha dichiarato pubblicamente: «I nostri atleti sono pronti a rappresentare con orgoglio il Comitato olimpico palestinese a Parigi al fianco di tutti gli altri comitati olimpici del mondo». Questa frase, solo apparentemente di circostanza, ha invece un significato politico potentissimo. In maniera implicita ed elegante infatti Rajoub ha promesso che il Comitato olimpico palestinese durante i Giochi di Parigi non attuerà alcuna forma di boicottaggio o protesta contro la delegazione israeliana. Peraltro basta confrontare i profili social della federcalcio e del comitato olimpico palestinese per accorgersi immediatamente di come da alcune settimane nei primi sono ancora molto presenti critiche ad Israele e nei secondi domini invece una narrazione tendenzialmente coerente con lo spirito olimpico auspicato dal CIO.

Come si può spiegare una simile differenza di comportamento fra il Rajoub che alla FIFA chiede l’esclusione della Federcalcio israeliana e quello che al CIO assicura che gli atleti palestinesi gareggeranno senza problemi con quelli israeliani?

Per trovare una risposta soddisfacente dobbiamo considerare diversi aspetti. Come ha sottolineato Leo Goretti, analista dell’Istituto Affari Internazionali, non si può ignorare la diversa struttura istituzionale di FIFA e CIO. All’interno della prima ogni federazione nazionale ha un voto quindi è più facile formare dei blocchi e delle alleanze per sostenere interessi di parte. Nel CIO, invece, il sistema di cooptazione dà la possibilità agli attuali membri di scegliere i propri successori facendo sì che non tutti i Paesi abbiamo un proprio membro (questo perché i membri del CIO in linea teorica non sono rappresentanti di uno Stato ma dell'olimpismo in generale). Questa struttura rallenta l’emergere di istanze antisistema e garantisce una maggiore rappresentanza ai Paesi occidentali rispetto ad altre aree del mondo, più ostili a Israele rispetto ai primi. Di conseguenza tentare una prova di forza nel CIO sarebbe una strategia suicida anche solo per un fattore numerico.

Un altro aspetto da valutare è che, al contrario dell’imminente appuntamento olimpico, nel calcio i Mondiali sono ancora lontani due anni e potrebbe essere più facile ottenere supporto, seppur generico. Inoltre, rispetto a quanto avveniva fra atleti ucraini e russi, che gareggiavano entrambi nelle confederazioni europee, il rischio di incroci fra atleti israeliani e palestinesi è di gran lunga inferiore. Ciò è dovuto a precise ragioni storiche. Dopo la guerra dello Yom Kippur, infatti, a seguito della pressione esercitata dai Paesi arabi, tanto il Comitato olimpico israeliano quanto le singole federazioni sportive a partire da quella calcistica furono costrette ad uscire dalle confederazioni asiatiche e a cominciare un lungo pellegrinaggio che all’inizio degli anni Novanta li ha visti trovare una nuova casa nelle confederazioni europee. In questo modo quel pericolo di continui boicottaggi, proteste e tensioni che avrebbero rischiato di paralizzare lo sport internazionale a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, si è presentato in forma estremamente ridotta nel contesto dell’invasione israeliana di Gaza.

Non va sottovalutato il fatto poi che per la diplomazia palestinese essere presente alle Olimpiadi è molto importante. La Palestina, infatti, è un’entità politica sui generis, e di fatto non può essere davvero considerato uno stato. Su questo bisognerebbe fare un pezzo a parte, ma per farla breve basta pensare alla frammentazione del suo territorio, al doppio governo che lo amministra, al controllo di fatto che esercita Israele sui suoi confini o al fatto che non ha un esercito regolare. Le Nazioni Unite, poi, gli concedono una forma di riconoscimento ridotta, come membro osservatore permanente. Al contrario, il CIO riconosce il comitato olimpico palestinese fin dal 1993, da quando cioè l’allora presidente, Juan Antonio Samaranch, lo accolse nella famiglia olimpica sfruttando la finestra d’opportunità offerta dagli accordi di Oslo. Presentarsi in tempo di guerra con la più grande delegazione sportiva mai inviata alle Olimpiadi (si parla al momento di almeno 7 o 8 atleti) è un modo quindi per continuare a tenere accesa l’attenzione dei media internazionali sulle stragi e le distruzioni perpetuate a Gaza.

In questo contesto politico fatto di diplomazia e istituzioni come al solito spiccano le storie personali degli atleti. Quella di Mohammed Hamada, per esempio, potrebbe presto diventare un inno alla resistenza palestinese. Il giovane promettente sollevatore di pesi, già campione del mondo a livello giovanile, stava preparando la sua seconda partecipazione olimpica dopo quella di Tokyo quando è cominciata l’invasione israeliana di Gaza, dove viveva. Sfuggito indenne ai bombardamenti e rischiando in più occasioni la vita, ha prima cercato rifugio a Rafah, la città frontaliera con l’Egitto, dopodiché è riuscito ad uscire dalla Striscia. Ora, pur avendo perso 15 chili, ha ripreso ad allenarsi per cercare di centrare a giugno una qualificazione olimpica che rappresenterebbe un’impresa epica.

La posizione del CIO

Un altro fattore determinante, infine, è stato l’atteggiamento proattivo del CIO, che ha cercato di spegnere sul nascere il conflitto al suo interno. Ben consapevole del fatto che, proprio come il conflitto russo-ucraino, anche quello israelo-palestinese rappresenti un potenziale esplosivo per il sereno svolgimento delle Olimpiadi di Parigi, la diplomazia di Losanna ha giocato d’anticipo. Ovviamente al momento non è possibile conoscere nel dettaglio i termini esatti dell’accordo, tuttavia il CIO non solo ha fatto sapere che il Comitato olimpico palestinese continuerà a ricevere il suo sostegno (non solo simbolico ma anche finanziario, attraverso i progetti della solidarietà olimpica), ma che sosterrà anche il Palestinian Sports Revival Plan - un piano presentato a Bach da Rajoub per finanziare la ricostruzione delle infrastrutture distrutte dall’invasione israeliana.

In buona sostanza, il CIO ha garantito a Rajoub un’ampia rappresentanza a Parigi 2024 e un sostegno economico alla ricostruzione post-bellica in cambio della promessa di non politicizzare l’arena olimpica e di non mettere in discussione la partecipazione israeliana. Non si può escludere che l'accordo preveda anche altro. Un'ipotesi si può fare ad esempio sul nuotatore palestinese Yazan Al Bawwab, che è fra i candidati per entrare al CIO come parte della commissione atleti.

In ogni caso, al contrario della FIFA, che continua ad essere un terreno di scontro fra Palestina e Israele, il CIO, grazie a un’azione diplomatica preventiva, sembra essere riuscito a chiudere un fronte potenzialmente esplosivo. Rimane però un grande interrogativo: che succederà se il 19 luglio il conflitto a Gaza sarà ancora in corso? Il 19 luglio infatti scatta la tregua olimpica per Parigi 2024 e, al contrario di Russia e Siria, Israele è tra i firmatari del documento promosso dal CIO e dall’ONU con cui i Paesi si impegnano a rispettarla. Pur non essendo giuridicamente vincolante e pur essendo già stata violata in passato, il precedente della Russia assumerebbe in questo senso ancora più rilevanza, in relazione al caso di Israele.

Malgrado tutta la precedente preparazione diplomatica, insomma, la credibilità del CIO rischia di essere comunque compromessa e le accuse di doppio standard di trovare ulteriore legittimità. Per il movimento olimpico non sarebbe più possibile infatti rifugiarsi dietro alla retorica della neutralità politica e diventerebbe (tanto eticamente quanto giuridicamente) molto più difficile sanzionare quegli atleti che si rifiutassero di competere (o scambiare gli obbligatori saluti) con i colleghi israeliani.

Anche se le promesse di Rajoub a Bach vanno lette in un’ottica distensiva, sarebbe ingenuo illudersi che i Giochi di Parigi non diventino un ulteriore campo di battaglia di tutti i conflitti in corso nel mondo, compreso quello israelo-palestinese. Ancora una volta, in ballo, c'è la sopravvivenza stessa del movimento olimpico.

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