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Dario Saltari
Il licenziamento di El Ghazi è un precedente pericoloso
06 nov 2023
06 nov 2023
La decisione del Mainz non può passare sotto silenzio.
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Dario Saltari
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IMAGO / Revierfoto
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Il 16 ottobre Anwar El Ghazi era un giocatore del Mainz da nemmeno un mese. Poche settimane prima aveva rescisso il suo contratto con il PSV dopo appena una stagione per ragioni che non sono state chiarite, dopo una carriera tutto sommato niente male. La crescita all’Ajax, poi il passaggio al Lille, infine il periodo in Premier League, prima all’Aston Villa e poi all’Everton. In quasi tutta la sua carriera, El Ghazi non è sembrato particolarmente interessato a utilizzare la sua immagine pubblica da calciatore per mandare messaggi di natura politica o sociale. Nel settembre del 2015, da olandese figlio di genitori marocchini, ha dovuto scegliere che Nazionale rappresentare e invece di farne una questione identitaria, come sarebbe legittimo in un Paese non proprio dolce con la propria comunità marocchina, ha preferito chiedere a Cristiano Ronaldo. «Mi ha chiesto come stessi in Olanda. Mi ha detto che se fosse stato nei miei panni avrebbe scelto l’Olanda, che avrei dovuto scegliere con la mia testa e che le persone avranno sempre un’opinione. Scegli l’Olanda e i marocchini diranno che non sono un vero marocchino, scegli il Marocco e allora gli olandesi diranno: “Hey, sei nato e cresciuto qui, che diavolo sta succedendo?”».

Solo un’altra volta, prima del 16 ottobre, El Ghazi aveva utilizzato il proprio profilo Instagram per dimostrare la propria solidarietà alla causa palestinese. Era l’11 maggio del 2021, El Ghazi era un giocatore dell’Aston Villa, e a Gerusalemme si era da poco riacceso il conflitto israelo-palestinese. La crisi era stata innescata il 6 maggio, quando la Corte Suprema israeliana aveva deciso per lo sfratto di sei famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, un ex villaggio palestinese che, come ha scritto Il Post, “non è un posto come un altro”. Uno dei molti motivi, quello che poi ha portato al riaccendersi del conflitto, è che Sheikh Jarrah secondo il diritto internazionale fa parte dei territori palestinesi e di conseguenza Israele teoricamente non potrebbe applicare le sue leggi lì. Seguiranno proteste e duri scontri tra manifestanti palestinesi e forze di polizia israeliane che provocheranno centinaia di feriti, ma anche razzi di Hamas dalla striscia di Gaza verso Israele (che uccideranno 14 civili), e la decisione dell’esercito israeliano di vendicarsi bombardando la striscia di Gaza. Le ostilità si concluderanno il 21 maggio, con 95 edifici rasi al suolo (di cui 40 scuole, quattro ospedali e un campo profughi), 256 morti solo nella Striscia di Gaza (di cui 66 bambini) e oltre 72mila palestinesi sfollati. In quell’occasione El Ghazi aveva pubblicato una scritta su sfondo nero, le lettere permeate dalla bandiera palestinese: “Non devi essere musulmano per prendere posizione su Gaza, ti basta essere umano”.

Il 16 ottobre, quindi, El Ghazi è probabilmente piuttosto scioccato dagli eventi se torna un'altra volta sul proprio profilo Instagram a dimostrare la sua solidarietà alla causa palestinese. Il suo post, però, è stato cancellato poco dopo la sua pubblicazione e incredibilmente non ne rimangono tracce su internet. Secondo la ricostruzione fatta da Raphael Honigstein su The Athletic, sappiamo solo che conteneva un’accusa ad Israele di star commettendo un “genocidio” a Gaza, e soprattutto lo slogan nazionalista palestinese: “From the river to the sea, Palestine will be free” (letteralmente: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”).

Il significato di questo slogan, che porterà alla sospensione di El Ghazi già il giorno successivo, è discusso. Il fiume è il Giordano e il mare il Mediterraneo: basta guardare una cartina geografica per capire che se si va “dal fiume al mare” si include tutto il territorio dell’attuale stato di Israele, compresa la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Lo slogan esiste già dagli anni ’60, quando viene adottato anche dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat. Quando quest’ultima abbandona la lotta armata e abbraccia visioni più riformiste e concilianti, però, passa di mano ad Hamas (che lo ha addirittura incluso nel suo statuto) e in generale a un’interpretazione più radicale della lotta di liberazione palestinese. È soprattutto per questa sua ultima evoluzione che, da un punto di vista israeliano, lo slogan è pericoloso. Il Comitato Ebraico Americano, una delle più antiche organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti, per esempio lo ha definito antisemita e un invito all’eliminazione dello stato di Israele.

Non tutti sono di questo avviso, però. Come ha spiegato Al Jazeera (testata del Qatar storicamente vicina alla questione palestinese) la sua interpretazione può essere più sfumata di così. Dato che i palestinesi risiedono effettivamente tra “il fiume e il mare”, e alla luce di una condizione che molte ONG internazionali definiscono di apartheid, molti lo intendono esclusivamente come uno slogan per la liberazione del popolo palestinese.

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Stiamo parlando del conflitto più antico e complicato del mondo, le cose inevitabilmente sono complesse. Eppure i governi europei hanno deciso di adottare pedissequamente il punto di vista israeliano, dividendo il bianco dal nero, spesso criminalizzando l’utilizzo di questo slogan. In Inghilterra, la FA ha fatto sapere che consulterà la polizia se dei giocatori lo utilizzeranno in relazione al conflitto tra Israele e Hamas. In Olanda, nonostante il tribunale d’appello di Amsterdam abbia decretato quest’estate che lo slogan non sia penalmente perseguibile, il Parlamento lo ha definito un “incitamento alla violenza”. In Germania, per ovvi motivi storici, la situazione è ancora più delicata. Durante la sua recente visita di stato, il premier tedesco Olaf Scholz ha ricordato che l’esistenza di Israele è la “ragione di stato” della Germania, dove lo slogan era già penalmente perseguibile ancora prima di quest’ultima recrudescenza del conflitto.

Il calcio tedesco, poi, ha un passato ebraico molto presente. Proprio il Mainz è stato fondato nel 1905 da un giovane calciatore ebreo, Eugen Salomon, che divenne il suo primo presidente ad appena 17 anni. Salomon venne esautorato dalle sue funzioni dai nazisti nel 1933, prima di provare a fuggire invano in Francia con la sua famiglia. Venne catturato nel 1942, deportato ad Auschwitz e infine ucciso. Oggi la strada che porta allo stadio del Mainz, la MEWA Arena, si chiama Eugen-Salomon-Strasse. Il passato del Mainz spiega la reazione veemente del club, che sospenderà El Ghazi già il giorno dopo il suo primo post su Instagram, e anche il favore con cui ha accolto questa decisione la sua tifoseria. Dentro lo stadio, gli ultras del Mainz hanno esposto uno striscione in “solidarietà con tutte le vittime dell’islamismo e dell’antisemitismo”, contro “il terrore antisemita di Hamas” e per la “pace per il popolo di Gaza”. «Abbiamo fatto la cosa giusta», ha dichiarato l’allenatore danese del Mainz, Bo Svensson, riguardo la sospensione di El Ghazi.

Nonostante tutto questo, la situazione sembrava rientrata. Il 27 ottobre il calciatore olandese pubblica su Twitter un messaggio in cui “condanna l’uccisione di civili in Palestina e in Israele” e in cui si dice “impegnato per una regione mediorientale pacificata”. Secondo la ricostruzione fatta da The Athletic, il Mainz aveva chiesto un video di scuse ma evidentemente se lo fa bastare. Il 30 ottobre pomeriggio, poco prima che scada il termine legale di due settimane per il suo licenziamento, pubblica un comunicato ufficiale con cui lo reintegra in squadra. “El Ghazi ha preso le distanze dal suo post su Instagram, che ha cancellato pochi minuti dopo, in diverse conversazioni con il club. Si è pentito di averlo pubblicato ed è contrito per il suo impatto negativo. El Ghazi ha esplicitamente preso le distanze dagli atti terroristici come quelli commessi da Hamas due settimane fa […] Inoltre ha dichiarato che non mette in discussione il diritto a esistere dello stato di Israele”. Nel comunicato si può leggere anche che il Mainz ha ricordato a El Ghazi il suo codice di valori, che include tra le altre cose “una responsabilità speciale verso lo stato di Israele e la popolazione ebraica”.

Sembra la pietra tombale su questa controversia e invece è la scintilla che la fa deflagrare. Due giorni dopo, El Ghazi pubblica un lungo messaggio su Instagram in cui ricorda, “a scanso di equivoci”, che quello pubblicato su Twitter il 27 ottobre è stata la sua ultima parola sulla questione e che “ogni altro comunicato, commento o scusa attribuita a me non sono fattivamente corrette e non sono state fatte o autorizzate da me”. Tra le altre, El Ghazi ricorda una cosa piuttosto semplice, a cui teoricamente la comunità internazionale dovrebbe aspirare, e che invece in queste discussioni passa ogni volta in secondo piano: “Non credo che esista persona o stato a cui non possa essere contestata la propria responsabilità, né che possano essere al di sopra del diritto internazionale”. Poche ore dopo la pubblicazione di questo messaggio, il Mainz ha deciso di licenziarlo.

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Ora, è possibile contestualizzare la decisione del Mainz, come ho fatto. È possibile anche capirla approfondendo la storia del club, inserendola nella storia più grande della Germania. È molto difficile però giustificarla, ancora di più se la vediamo riflessa nel silenzio degli altri calciatori, che evidentemente si ricordano del proprio potere sindacale solo quando un proprio collega viene accusato di molestie.

È difficile giustificarla innanzitutto da un punto di vista legale, perché, come ha spiegato lo specialista di diritto dello sport Paul Lambertz al quotidiano tedesco DW, «il datore di lavoro non può influenzare la libertà di opinione o le azioni del dipendente al di fuori delle ore di lavoro». Ma è ancora più difficile giustificarla da un punto di vista etico perché, oltre ogni complessità, ciò che rimane di questa vicenda è un’azienda che licenzia un suo dipendente per aver scritto su Instagram di essere “contro la guerra e la violenza, contro l’uccisione di civili innocenti, contro tutte le forme di discriminazioni, contro l’islamofobia, contro l’antisemitismo, contro il genocidio, l’apartheid, l’occupazione e l’oppressione”. Sarà difficile adesso, per qualsiasi giocatore che non esprimerà solidarietà a El Ghazi, inginocchiarsi prima del fischio d’inizio o indossare una fascia arcobaleno senza sentirsi un po’ in colpa. Sarà ancora più ipocrita per la UEFA e tutti i club europei coinvolti adottare campagne contro il razzismo o la discriminazione. Tutte queste iniziative "aziendali" suonano sempre un po' vuote, ma d'ora in poi, alla luce di ciò che è successo al calciatore olandese e al silenzio che ne è seguito, sembreranno caricaturali. Grottesche di fronte alle parole che El Ghazi ha lasciato sui propri profili social sabato, dopo il suo licenziamento: "La perdita del mio sostentamento è nulla in confronto all'inferno scatenato sugli innocenti a Gaza".

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Ovviamente c’è chi si aggrapperà con tutte le proprie forze a quello slogan palestinese, resistito su un post su Instagram di un calciatore del Mainz per talmente poco tempo da essere oggi introvabile (un miracolo, nel 2023). Ci si aggrapperà a un’interpretazione univoca e senza sfumature, ignorando il fatto che El Ghazi ha scritto letteralmente di essere contro l’antisemitismo, equiparando forzosamente gli attentati terroristici di Hamas dello scorso 7 ottobre e la grave recrudescenza antisemita che è seguita in Europa a anche la più minima opposizione alle politiche disumane dello stato di Israele.

Mentre noi dibattiamo della minaccia esistenziale che ha arrecato il post di El Ghazi al Paese con il miglior esercito del pianeta, la cui esistenza è riconosciuta dalla quasi totalità della comunità internazionale (compreso, dal 2020, anche il Marocco), e la cui occupazione di territori in aperta violazione del diritto internazionale è permessa dal sostegno della più grande superpotenza del mondo, nella striscia di Gaza il numero di morti civili ha raggiunto in meno di un mese quello che la guerra in Ucraina ha toccato dopo oltre 560 giorni. Circa novemila.

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