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Matteo Trevisani
Per il bene del pugilato
24 lug 2017
24 lug 2017
Stasera Giovanni De Carolis affronta sul ring Viktor Polyakov: un evento storico per il pugilato italiano.
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Matteo Trevisani
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All’improvviso, durante l’intervista, una luce diversa negli occhi di de Carolis mi ha fatto pensare che chi avevo di fronte non fosse davvero lui. Mi spiego meglio. Alla terza intervista che gli facevo,

,

, mi è venuto da chiedermi se quell’uomo gentile e calmo che aspettava di parlare con me per poi fare l’allenamento tecnico di rifinitura, non fosse in realtà un trickster, cioè uno di quei dèi presenti nelle tradizioni di tutto il mondo che sono lì per ingannarti, che incarnano l’idea di un eroe mai del tutto malvagio e mai del tutto buono, e che fanno di tutto per arricchire il proseguimento delle storie di cui fanno parte.

 

Seth in Egitto, Loki in Scandinavia, Anansi in Africa ed Hermes in Grecia sono diversi tipologie di trickster: esseri al di là del bene e del male che agiscono per conto di una sola specifica condotta morale: la loro. Non c’era qualcosa di torbido e sconosciuto dietro gli occhi di De Carolis, dietro quel sorriso sereno, quei muscoli riposati, pronti per il match di lunedì?

 

Ho incontrato Giovanni de Carolis, ex campione del mondo, pochi giorni prima di un nuovo incontro, il combattimento che andrà in scena stasera valido per il titolo internazionale WBA: una sorta di semifinale, un passaggio obbligato che, se tutto va come deve andare, lo porterà ad avere di nuovo la chance per il titolo mondiale.

 

Siamo nella sua palestra storica, quella dove tutto è iniziato, la Team Boxe alla Montagnola, zona Roma sud. Quando entro i maestri di Giovanni, Italo e Gigi, stanno allenando il gruppo dei ragazzi delle 15.00. Ci salutiamo e io penso all’ultima volta che ci siamo visti, sull’aereo al ritorno da Berlino, lui con la cintura di campione tra i bagagli imbarcati, probabilmente, io con la gola arrossata dalle urla della sera prima e gli occhi ancora lucidi.

 


Quando Giovanni è riuscito a difendere la cintura, in Germania, era lo scorso 16 luglio. Zeug, l’avversario, si presentava sul ring con il record di 18-0 e già in tasca il contratto per una eventuale rivincita.


 

Giovanni è tranquillo, perfettamente calmo. Prendiamo un caffè alla macchinetta della palestra, mi spiega che questi sono i giorni che preferisce: «Posso allenarmi un po’ meno, vedo che gli standard sono sempre alti, e questo è un bene. Faccio soprattutto tecnica in vista dell’incontro, prepariamo il piano per lunedì. È la parte dell’allenamento che preferisco».

 

Sarà una serata storica per il pugilato italiano, Giovanni lo sa, voleva questo incontro in casa, delle difficoltà di portare la boxe di alto livello in Italia ne parliamo dalla prima volta che l’ho conosciuto. Dopo sei anni, finalmente, un match di caratura internazionale si terrà al Centrale del Tennis di Roma, un’arena che accoglierà i cinquemila spettatori che sono riusciti a trovare un biglietto, dato che si va per il tutto esaurito. Una conquista che è qualcosa da cui ripartire.
Per una volta il match sta avendo la copertura mediatica che meriterebbe: si sta cercando di creare uno spettacolo attorno a quei due uomini e anche se siamo lontani dai fasti sportivi e economici della boxe all’estero, pare che qualcosa si stia muovendo anche in Italia. «È una cosa che aspettavamo», dice Giovanni, «Qualcosa per cui abbiamo lavorato tanto. Mi sono reso conto che per arrivare a quei livelli devi circondarti di persone che hanno sì interesse, ma anche una vera professionalità». La boxe e il suo apparato, quello che c’è intorno, devono crescere di pari passo: «Dobbiamo dare l’esempio, noi siamo i primi, e a poco a poco riusciremo a dare al pugilato di nuovo l’attenzione che merita».

 

Per Giovanni che ha conquistato, difeso e poi perso il titolo sempre all’estero, combattere a casa, a Roma, è qualcosa di speciale. Qualcosa che aiuterà la boxe anche al di là dell’incontro in se? «L’importante ora è continuare così. Nella mia palestra la boxe può essere veicolata in molti modi, non solo per l’agonismo. Molte persone la fanno solo perché fa stare bene, e li capisco».

 

Il suo avversario è Viktor Polyakov, un pugile polacco, roccioso, classe 1981 e con una storia piena di buchi. Comincia la sua carriera da professionista negli Stati Uniti, dove vince dieci incontri di fila, poi, all’improvviso, nel 2012 basta. Qualche anno di buio, nessuno sa perché. Giovanni, che pure ha studiato e ha cercato nel passato del pugile polacco, non si dà una spiegazione, probabilmente questioni di salute. Torna nel 2017, dove conquista una vittoria, un pareggio e una sconfitta.

 

«È comunque un pugile da trattare con rispetto. Viene dalla scuola dell’est, la sua non sarà una boxe bella, ma di sicuro funziona. Non ti sta attaccato, è leggermente più basso di me a ha una buona scelta di tempo. Insomma bisognerà stare attenti. L’ultimo pugile che ha sconfitto, è un pugile polacco molto quotato, Dariusz Sek».
Gli chiedo se ha paura. «Paura mai, rispetto sempre».

 

È arrivato il momento di parlare di come si è arrivati qui. Del perché si sta combattendo per un titolo internazionale e non per un mondiale, e se il fatto di poterlo fare a Roma non nasconda in realtà un risvolto negativo. Dobbiamo parlare della sconfitta di Potsdam di novembre scorso.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Lfcmz2mLdU8&feature=youtu.be&t=39m44s



 

Giovanni si rabbuia per un secondo mentre pensa a quell’incontro: «Guarda, la cosa che mi ha fatto arrabbiare di più è che io non c’ero. Come se non ci fossi stato io sul ring. Erano successe delle cose in famiglia, non ero sereno, ma avevo pensato che sarei stato in grado di lasciare quello che era successo fuori da quei tre gradini. Invece non è stato così. Fino al settimo round ero anche in vantaggio, poi l’incontro ha preso una specie di inerzia tutta sua e all’improvviso c’è stato il buio, un black out mentale mentale, psicologico. Mi ha fatto malissimo perdere. Se avessi vinto avrei potuto finalmente difendere il titolo in casa, e mi sarebbe andato bene perdere contro uno più forte di me. Ma Zeuge non è più forte di me, questo lo so».

 

Ho capito che se in una conversazione uno dei due smette di parlare l’altro si sente in dovere di continuare, così aspetto che ricominci. «Sono stati mesi duri, che hanno messo in discussione tutto. Poi sono andato in Australia, a fare un po’ di sparring ed è stato lì che ho sentito di nuovo la scintilla, quel brivido che mi diceva che avrei potuto riprovarci». Ma la chance mondiale ormai era perduta. «Certo, mi sarei dovuto rimboccare le maniche, conquistarmi di nuovo, dal basso, la possibilità di staccare un altro biglietto per il titolo. Ma non volevo un match comodo. Questa possibilità passa dall’incontro di lunedì sera».

 

Mentre parliamo un ragazzo biondo molto giovane ci interrompe. Ha un taglio sul sopracciglio destro disinfettato con un unguento rosso, le mani fasciate con bende tricolori, i muscoli delle braccia tesi. Chiede a Giovanni del prossimo esercizio, parlano di come deve continuare la preparazione. Per un attimo io non ci sono più. «Ecco, quello è uno dei miei ragazzi», mi dice quando ha finito Giovanni. Da qualche tempo allena le giovani promesse del futuro: «Mi danno grandissime soddisfazioni. Già martedì dopo l’incontro, tornerò in palestra, alcuni ragazzi hanno bisogno di me. Ci sarà da lavorare».

 

L’ultima domanda, e non poteva non essere così, riguarda l’incontro che ha scosso i fan e gli atleti di due sport diversi: pugilato e Mixed Martial Arts: Mayweather contro Conor.

 

«È un incontro già scritto, siamo d’accordo. Ma sai, quello che mi dispiace di più è che mediaticamente parlando tutta questa roba è già andata oltre, non puoi promuovere lo sport solo in questo modo. Credo sia addirittura il contrario di quello che stiamo cercando di fare noi: la cultura sportiva, il rispetto per l’avversario. È solo trash talk ormai, e io lo capisco, anche se non lo faccio, capisco che ci possa stare, ma davvero? Solo quello? Comunque non credo che Conor abbia possibilità, come se Mayweahter lo affrontasse in una gabbia da MMA, non avrebbe nessuna chance». Anche quei due sono dèi, mi dico. Hanno le loro liturgie, i loro fedeli, una leggenda da perseguire. Ma sono annichiliti dalla loro stessa presunzione, appiattiti da quello che dicono di sé stessi. Un dio non scrive da solo la sua storia, e in teologia non si danno mai risposte. Per questo la figura di de Carolis mi sembra perfino più interessante, perché densa di corto circuiti, di bruschi annebbiamenti e di scelte radicali.

 

Mentre ci salutiamo, e gli faccio gli auguri per lunedì sera, gli chiedo se invece ha qualche idolo, qualche pugile da cui prendere ispirazione. «Non ho nessun idolo, cerco di imparare da tutti i campioni mondiali, perché tutti hanno qualcosa da insegnarmi. Mi piace molto Golovkin, per esempio, profilo basso, non parla mai, mai sopra le righe. Solo tanto lavoro. Ma poi anche Alvarez, Kovalev, Ward…».

 

Andandomene mi rendo conto che l’impressione che avevo avuto all’inizio è svanita: non c’è nessuno distanza tra quello che è e quello che manifesta. Davanti a me c’è davvero una persona che anteporrebbe il bene del pugilato e della comunità che lo pratica rispetto al suo e la maschera che pensavo si fosse messo – anche per proteggersi, mi dico – cade del tutto. Una persona che si può permettere di percorrere la giusta via e di battersi per le giuste cause, anche se fosse per egoismo, non importa.

 

 

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