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Matteo Trevisani
Difendersi a Berlino
19 lug 2016
19 lug 2016
Giovanni De Carolis ha difeso il titolo di campione del mondo dei supermedi a Berlino, noi siamo stati a vederlo.
(di)
Matteo Trevisani
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Quando il match è finito e i due pugili si sono messi a girare ansiosi per il ring in attesa del verdetto ho capito perché avevo preso un aereo ed ero finito a Berlino ad assistere alla difesa del titolo. Il pubblico si è alzato in piedi, da qualche tribuna si sentiva urlare il nome del tedesco, mentre quelli che come me avevano seguito de Carolis dall’Italia gridavano il suo nome con le mani a cono davanti alla bocca, che deve essere un gesto antico, tipo quello di bere da una fontana con le mani a coppa o ripararsi dal sole per vedere meglio. Hanno la voce roca di chi l’ha urlato a ogni round, le magliette bianche fatte in occasione della vincita del titolo mondiale. Mi sono detto che quel momento di stasi non sarei riuscito a capirlo, dietro uno schermo.

 

Appena finito l’incontro Giovanni ha alzato i guantoni al cielo, non così convinto di aver vinto quanto per mostrare sicurezza ai giudici, all’avversario e a se stesso. In realtà io ero preoccupato, il match visto dal vivo mi sembrava in parità ed ero teso per i warning che l’arbitro aveva dato a de Carolis mostrandogli la fronte. Lo sanno tutti che in Germania per vincere devi stravincere e la difesa del titolo mondiale contro un ottimo pugile, giovane e berlinese come Tyson Zeuge, sarebbe stata di nuovo un’impresa. Poi il momento è arrivato, il presentatore ha letto in tedesco i risultati dei giudici e nessuno degli italiani ha capito niente, fino a quando l’arbitro non ha alzato le mani dell’italiano. La prima difesa del titolo era finita in parità: de Carolis poteva riportarsi a casa la cintura.

 

Qualche ora più tardi, raccontando al ragazzo che mi ospitava tutto quello che era successo mi è stato chiaro che l’incontro finale era stato solo l’ultimo capitolo, quasi collaterale di una serie di impressioni sulla boxe all’estero e su tutto quello che le gira intorno, impressioni che parlano di strapotere, di contratti di rivincita ipocriti, della strana vertigine che ti danno diecimila persone accalcate a scrutare i peccati mortali di due esseri umani che si picchiano con regole precise, di un carrozzone pop molto americano che contribuiva alla creazione di uno spettacolo godibile da tutti, e ho capito il senso dell’espressione “spazio per le famiglie” quando ogni volta da noi si parla della costruzione di un nuovo stadio, perché è chiaro, non è solo una questione di sport.

 

 



 

Sono arrivato a Berlino con la stampa di un’email vaghissima che parlava in modo sardonico di un mio accredito (“of course you can come to see the match”), un taccuino nuovo e una bronchite asmatica di tutto rispetto. Era la prima volta che seguivo un incontro di boxe come giornalista, avevo paura che a un certo punto un tedesco qualsiasi vestito di nero mi guardasse negli occhi e nell’anima e capisse che millantavo. In effetti tutta la mia preparazione sul giornalismo sportivo oscillava tra Hunter. T. Thompson e David Foster Wallace. Ma come in ogni storia di iniziazione che si rispetti anche io ho avuto le mie guide spirituali con il compito di introdurmi nel magico mondo del giornalismo degli sport da combattimento: Marko, giornalista polacco che per tutta la giornata ha bevuto quantità imbarazzanti di Monster energy drink e che indossava una maglietta verde di un evento MMA del 2013; e Uwe, fotografo sessantenne tedesco che mi ha ripetuto in continuazione che la cosa migliore della serata sarebbe stato il buffet della sala stampa e che ha tradotto in tedesco la mail alla signora bionda del botteghino stretta in un vestito che sembrava di latex.

 

Alle cinque del pomeriggio ero dentro la Max Schmeling Halle, un’arena sportiva gigante senza finestre che si sviluppa interamente sottoterra: le luci sono neon blu e bianchi, anche se nel corso della giornata i laser daranno prova di virtuosismi estetici che per tutto il tempo mi avrebbero ricordato gli eventi Smackdown e Raw della mia adolescenza. De Carolis avrebbe combattuto verso le undici di sera, avevo tutto il tempo per guardare gli altri incontri e farmi un’idea di quello che volesse dire il pugilato in Germania.

 

La prima cosa che ho notato è che qui la boxe è una cosa seria, soprattutto a livello mediatico. Due maxischermi sono montati sopra l’entrata, l’impianto audio è potentissimo, a ogni scala c’è un ragazzo che controlla il pass e ti mostra il tuo posto. I primi pugili cominciano a combattere che l’arena è praticamente vuota, sono incontri di professionisti che non mettono in palio nessuna cintura e che si risolvono con KO tecnici in un paio di round scarsi. Il pubblico che è arrivato presto applaude svogliatamente i vincitori che per tornare negli spogliatoi fanno il giro largo. È sabato pomeriggio, Berlino è inaspettatamente calda, il grosso del pubblico arriverà per gli ultimi tre o quattro incontri. Sopra le gradinate si vende cibo tedesco e birra tedesca. Quella che se ho capito bene doveva essere la sala stampa dà su una palestra dove si sta svolgendo una gara di ballo, richiudo subito la porta credendo di aver sbagliato stanza e me ne vado un po’ confuso.

 

Per un paio d’ore riempio il taccuino con i nomi dei pugili minori non sapendo bene che farci, faccio speculazioni filosofiche tra me e me sulla differenza che intercorre nel guardare gli incontri dagli schermi o guardare i pugili perdendo qualche diottria, provo a riprodurre su carta le erre troppo marcate del presentatore con una voce che ricorda quello di EA sports e cerco su Shazam le canzoni che vengono sparate a tutto volume nelle pause fra un match e l’altro: Justin Bieber, Adele, Red Hot Chili Peppers, Meghan Trainor. A poco a poco l’arena si riempie e il pubblico è più disomogeneo di quanto pensassi: coppie giovani, bambini coi padri, signore di mezza età con le amiche, gruppetti di adolescenti: mi pareva chiaro che lo spettacolo che si sarebbe dato di lì a poco non fosse esattamente la motivazione precipua di quello che le persone si aspettavano, è più quello che c’era intorno, l’idea che si possa fare parte di qualcosa anche senza esperirla coscientemente. Pochissimi parlano di boxe, soltanto Uwe ogni tanto mentre fuma mi chiede qualcosa su de Carolis e io gli dico che sì, oggi secondo me ha diverse chance, perché fisicamente sta meglio di Zeuge e perché ha un decennio di esperienza in più. Lui è d’accordo, ma mi dice anche che dovrei seguirlo meglio, il ragazzo tedesco, che farà strada.

 

Quando rientriamo l’atmosfera è già cambiata, hanno acceso le luci del palco da dove entreranno i pugili dell’evento clou. Ci siamo quasi, il pubblico riempie quasi tutte le poltrone dell’arena, rumoreggia. Lo strapotere della boxe tedesca si evince anche da questo, e non solo dalle classifiche delle organizzazioni pugilistiche mondiali, l’atmosfera è quella delle grandi occasioni ma le persone sono tranquille, rimangono impassibili. La tribuna dell’arena che sta alla mia destra pensa che sia divertente gridare OLÈ ogni volta che la ragazza bionda mostra il cartello del round al loro lato del quadrato. I pugili tedeschi che combattono nel corso della serata sono quasi sempre vincitori.

 

Il momento più emozionante sarà quando il presentatore chiamerà un minuto di silenzio in ricordo di Ali. Il suo viso verrà proiettato sui maxi schermi e la campana del ring suonerà qualche rintocco lento, distanziato l’uno dall’altro e alla fine il pubblico applaudirà a lungo. Marko, con la bocca impastata in un bratwurst mi dice che in quel posto ci aveva combattuto e vinto la figlia, Laila Ali, nel dicembre del 2005.

 

Il match prima di Zeuge–De Carolis è quello tra Arthur Abraham e Tim Robin Linhaug. Il primo è il pugile armeno-tedesco già campione WBO e IBF, che nel 2013 ha battuto de Carolis e che probabilmente sarà il prossimo sfidante per il titolo, un eroe di casa. Il pubblico scandisce il suo nome completo, su un tavolo vendono piccoli guantoni portachiave con la sua firma sopra. Da come lo incitano capisco che molti sono venuti solo per questo match e Abraham non li delude, vince per KO tecnico all’ottavo round.

 

Dopo le interviste di rito il ring viene pulito, la tenuta delle corde controllata di nuovo. Lo speaker annuncia il prossimo incontro, è il momento di Zeuge vs de Carolis.

 

https://www.youtube.com/watch?v=HHfx-V6EEGo

 

 



 

Sono seduto esattamente dietro l’angolo rosso, quello italiano, sugli spalti del primo anello. Se anche riuscissi a evitare la sicurezza e arrivare a bordo ring non troverei spazio per sedermi. Entra prima Tyron Zeuge, in mezzo a un gioco di luci blu e gialle, agita i guantoni in aria. La traccia audio riprende un cuore con qualche evidente problema di brachicardia. Giovanni De Carolis entra con un cappellino in testa, gli allenatori tengono le cinture in alto come se fossero insegne legionarie che sembrano dire: ecco quello che siamo, ecco quello che mettiamo in palio. Mi rendo conto che c’è una qualche specie di epica, in queste liturgie, nelle foto di rito con i muscoli tesi, con le bandiere delle Nazioni l’una vicina all’altra. Il match inizia e il mio sguardo fa la spola tra i maxi schermi e il ring, con la paura di perdermi qualche colpo.

 

I due pugili sono ordinati, non si scompongono e il primo round è essenzialmente di studio. È vero, Zeuge mi piace, anche se le sue serie di colpi mi sembrano prevedibili, decise in anticipo. Zeuge esce bene dalle corde e De Carolis tiene il centro del ring: mi sembra però che allarghi troppo il suo gancio, all’inizio non riesce a prendere la distanza. Il tedesco è veloce, l’italiano è potente. L’arbitro richiama spesso de Carolis, che non riesce a mettere a segno colpi decisivi. Un ragazzo di qualche fila avanti a me a metà incontro si sbraccia, grida “Buttalo giù. Buttalo giù”. Il pubblico tedesco a un certo punto intona un improbabile “Tyson Bumaye”. C’è la paura che con un match in trasferta valutato in parità il verdetto dei giudici si sbilanci per il padrone di casa. Ma negli ultimi round è il tedesco quello più stanco, lega spesso de Carolis per evitare lo scambio, ma l’italiano entra lo stesso. Rivedendo il match è chiaro che Giovanni verso la fine fosse avanti di qualche punto, ma dal vivo la mia impressione era meno solida. Sempre riguardandolo mi viene da pensare che effettivamente nell’ultima ripresa il tedesco potrebbe tranquillamente finire a tappeto, tanto sembra stremato. Alla fine il tedesco si infortuna a una spalla e si appoggia a de Carolis, che ora lo domina. Quando la campana suona i pugili si abbracciano.

 

Il verdetto di parità viene accolto con un urlo dilatato, in ritardo. Un ragazzo della Team Boxe Roma scavalca le sedie per arrivare sul ring, la sicurezza cerca di placcarlo invano.

 

Giovanni fa i complimenti all’avversario al microfono, dice che il match è stato molto più duro che contro Feigenbutz. Quando scende dal ring torna negli spogliatoi tra le grida dei suoi. Zeuge ha poco da recriminare, torna a casa con un pareggio, che è meglio di una sconfitta. De Carolis ha compiuto una nuova impresa, ma non sarà l’ultima: costretto da un contratto assurdo con la Sauerland, dovrà tornare di nuovo in Germania a difendere il titolo. Roma e l’Italia purtroppo non hanno la forza economica per organizzare eventi del genere.

 

Esco dall’arena e l’aria fredda di Berlino di metà luglio è una specie di balsamo. Mentre torno a casa ripenso a tutto quello che ho visto. Da lontano vedo Marko che mi fa un cenno con la mano, viene verso di me, mi dice che ci vedremo alla prossima e io gli dico che un giorno mi piacerebbe incontrarlo a Roma. Magari per allora il contesto italiano sarà di nuovo all’altezza della nostra tradizione, e di quelli come Giovanni che la portano avanti ancora oggi.

 

 

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