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Michele Pelacci
La Parigi-Roubaix femminile è stata un bel caos
10 apr 2023
10 apr 2023
Alison Jackson ha vinto una gara piena di colpi di scena.
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Michele Pelacci
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IMAGO / SW Pix
(foto) IMAGO / SW Pix
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È usanza, nelle corse di un giorno particolarmente infide, attaccare qualcosa di adesivo al tubo superiore della bicicletta o al manubrio, di solito un nastro di scotch con su scritto una frase motivazionale e un piccolo recap dei settori di pavé e delle eventuali salite da affrontare. Alla Roubaix femminile due nastrini si sono rivelati particolarmente descrittivi della corsa: nei pressi della pipa Georgie Howe ha attaccato un post-it arancione sul quale c’era scritto “accetta il caos”. Alison Jackson, invece, nella parte centrale del manubrio – quella su cui non si poggiano mai le mani, ma che vedi sempre davanti a te – ha due piccole strisce azzurre di quel tape che si usano i fisioterapisti, con una citazione di Top Gun Maverick: “Don’t think, just do”.

L’accostamento tra aerei da combattimento che fanno di tutto per tirarsi giù a vicenda e biciclette che corrono su strade di campagne pietrose al confine tra Francia e Belgio è estremo, quindi perfetto per la corsa più estrema del ciclismo professionistico. Non a caso Marianne Vos nel presentare la prima edizione la definì un «campo di battaglia»: l’essenza dura e intrattabile della Parigi-Roubaix riporta il vocabolario del ciclismo ai primi decenni del Novecento, quando si faceva grande uso di metafore e riferimenti bellici. Più che scontri a fuoco, tuttavia, le prime due Parigi-Roubaix femminili sono state leggere marce trionfali. Diverse tra loro, certo, ma uguali persino nella maglia della vincitrice, quella della Trek-Segafredo. Lizzie Deignan vinse attaccando ai -81, Elisa Longo Borghini ai -34: la prima stravolgendo la corsa fin da subito, la seconda andando via in progressione quando il gruppo era già ridotto. Entrambe hanno surfato sulle pietre in modo grandioso: due imprese, soprattutto quella di Deignan, che stanno tra le migliori performance di sempre in una Roubaix. Ma in uno sport come il ciclismo femminile, accusato di essere noioso e monotono nelle sue protagoniste, le prime due edizioni della Roubaix sembravano facili assist a chi sostiene tuttora che le femminili offrano pochi spunti a causa del presunto enorme divario tra la mezza dozzina di campionesse e le altre. Quest’ultima Parigi-Roubaix Femmes, invece, ha preso tutte queste chiacchiere e le ha sgonfiate come una camera d’aria. Al contrario delle precedenti, è stata una corsa incertissima fino al metro finale, difficilissima nelle interpretazioni, piena di colpi di scena, risvolti inaspettati, personaggi improbabili. È stata, insomma, tutto ciò che un’edizione for the ages della Roubaix dovrebbe essere. Innanzitutto, quella «montagna di merda» che è il percorso ogni anno più lungo del femminile. Dai 116,4 chilometri della prima edizione si è passati a 145,4, di cui gli ultimi 85 ricalcano esattamente il percorso maschile. È un peccato perché è escluso il tratto più celebre, la foresta di Arenberg, ma è un percorso ugualmente durissimo e selettivo. Va aggiunto, inoltre, che prima di questa Roubaix era sì possibile individuare una favorita, Lotte Kopecky (che aveva mostrato una gamba spaziale vincendo il Fiandre e arrivando seconda nel 2022), ma la sua squadra – la pur fortissima SD Worx – sarebbe stata priva di due assi come Marlen Reusser e Demi Vollering. Tra le favorite c’era ovviamente Marianne Vos, ma al solo quarto giorno di corsa quest’anno la cannibale non sembrava in gran forma, così come Elisa Longo Borghini, che ha avuto a che fare col covid a marzo. Al via non mancavano le campionesse (Balsamo, Brand, Wiebes, oltre le già citate), ma alcune squadre si sono presentate senza il miglior roster possibile: una Movistar senza Van Vleuten, Norsgaard e Lippert e una FDJ-Suez senza Cavalli e Guazzini sono due squadre in meno che possono fare la corsa. E infatti si avvantaggia molto presto una fuga molto numerosa: 18 atlete totali, tutte di squadre diverse, accumulano fino a sei minuti di vantaggio sul gruppo. Delle squadre che non hanno un’atleta là davanti solo Movistar e Jumbo-Visma potrebbero pensare di chiudere il gap: della formazione spagnola sono già state elencate le assenze, della squadra olandese sono presto elencate le vittorie di quest’anno: nessuna. Già ai -72 dall’arrivo, quando fora Marianne Vos, Labecki e Beekhuis devono spendersi per riportare la loro capitana in gruppo. I chilometri, intanto, scorrono veloci. All’ingresso del temibile settore di Auchy-lez-Orchies, quattro stellette di difficoltà su cinque, Lorena Wiebes allunga il gruppo principale e prepara il campo per l’attacco di Kopecky. Le due fuoriclasse della SD Worx fanno la differenza: Kopecky se ne va, inseguita da Brand e Chabbey. Dopo pochissimi colpi di pedale, però, desistono perché una caduta spezza il gruppo alle loro spalle. Sparpagliato e ancora impegnato nel contarsi, il gruppo principale affronta Mons-en-Pévèle con circa tre minuti e mezzo di ritardo da Daniek Hengeveld, che nel frattempo si è avvantaggiata sul resto delle fuggitive. Il colpo di scena avviene qualche centinaio di metri dopo l’ingresso del gruppo nel settore di Pont-Thibault à Ennevelin. Il distacco è sceso molto negli ultimi dieci chilometri e in testa Elisa Longo Borghini sta guidando una ventina di atlete. È nella parte centrale della carreggiata quando le ruote perdono aderenza e il fango la fa volare per terra.

Romy Kasper è l’unica a rimanere in piedi; le altre cadono, devono tirare i freni, finiscono nei prati o tutte queste cose. Lotte Kopecky si rialza molto acciaccata: definirà questo momento «il peggiore possibile per cadere». Da sola, Kasper sa di non poter andare da nessuna parte e deve farsi riprendere. Intanto i chilometri passano. Dopo tre ore di corsa le energie scarseggiano. Si fratturano i gruppi dietro tra i -30 e i -20, poi tornano assieme, qualcuna dalla fuga perde contatto e te la ritrovi nel gruppo successivo, davanti non si danno per vinte e ci provano: attacca ad esempio Katia Ragusa, veneta di Schio, 25 anni e zero vittorie in carriera. È una fase pazza della corsa, in cui il caos prende il sopravvento. Quando le fuggitive – circa una dozzina – entrano nell’ultimo settore difficile, il Carrefour de l’Arbre, mancano 17 chilometri e hanno poco meno di un minuto di vantaggio. Si fa la conta, davanti. Chi c’è? Chi manca? Laura Tomasi della UAE è caduta verso la fine del Carrefour de l’Arbre ed è un peccato perché era forse la più veloce di tutte. C’è ancora Marion Borras della St. Michel, una ciclista che secondo il database di PCS non ha mai neanche terminato una gara sopra i 132 chilometri. Ci sono le esordienti Amber Pate e Marthe Truyen, c’è ancora Katia Ragusa che l’anno scorso è arrivata 88ª. C’è anche Julia Borgström, svedese. La più esperta è Alison Jackson, che con Marta Lach è quella che ci crede di più. Queste due, assieme a Femke Markus, sono probabilmente le più quotate in caso – ora lo si comincia a pensare, ma figurati se succede davvero – nel caso arrivi la fuga. Vedrai che danno un’accelerata e le vanno a riprendere. Dietro, però, chi è rimasta? Pochissime atlete, il più delle quali senza compagne di squadra oppure con una compagna di squadra nel gruppo davanti. Compagne di squadra sono Chabbey e Towers (Canyon-SRAM), ma la seconda è stata in fuga tutto il giorno; Martins e Schweinberger (Fenix-Deceunick), ma nessuna ha le gambe; Longo Borghini e Brand (Trek-Segafredo), ma se Elisa dà tutto per Lucinda riportando dentro anche Kopecky e Consonni magari Brand allo sprint non finisce neanche sul podio. Il finale è estremamente tattico e palpitante. Mancano una decina di chilometri e il distacco è di 30 secondi. Cala ancora. Ai -8 è di nove secondi. Nel gruppo inseguitore ci sono altre due compagne di squadra di cui non abbiamo ancora parlato: sono Chiara Consonni e Marta Bastianelli della UAE. Non si sono spese granché, nemmeno dopo la caduta di Tomasi là davanti. Sono entrambe veloci, Consonni in grande forma: Bastianelli ha «dato tutto quello che aveva» per la compagna, ha detto Davide Arzeni, direttore sportivo della UAE, dopo la corsa. Per qualche chilometro il distacco tra le fuggitive e il gruppo rimane di pochi secondi. Davvero poco: basterebbe un ultimo strattone per vanificare le fatiche di quelle davanti. Eppure dietro si guardano al punto che riesce a scattare Alice Towers, anche dopo tutti quei chilometri di fuga. Hengeveld spreme le ultime energie per la sua capitana nel Team DSM, Pfeiffer Georgi: da dietro le vedono, da alcuni minuti ormai, le vedono, eppure non le riprendono. Anche perché davanti c’è ancora vita. Alison Jackson ha iniziato a fare il diavolo: tira, dà cambi a tutte, si sbraccia per incitare le altre. Ha una lunga treccia di capelli castani che si muove ossessivamente per cercare collaborazione. È di gran lunga la più esperta tra le fuggitive e spinge un rapporto durissimo. Sa che è questo il momento della verità: se potesse, si affiancherebbe a ciascuna compagna di fuga e urlerebbe: «Ma ci credete? Mancano cinque chilometri, siamo in testa alla Parigi-Roubaix, andare anche solo sul podio sarebbe il più grande risultato della carriera di ciascuna di noi: possiamo dare tutto per entrare nel velodromo per prime?». È già arrivato quel momento, tuttavia, in cui le componenti della fuga diventano rivali: il branco di lupi in fuga si guarda ora con sospetto e l’una riconosce nell’altra una rivale, non più un’alleata. Pensa tutte queste cose Alison Jackson mentre accetta i cambi, i più convinti, di Marta Lach. La polacca della Ceratizit entra per prima nel velodromo: va fatto un giro completo della pista, ma ormai è chiaro che ce l’hanno fatta. Sono rimaste in sette: Lach, Jackson, Ragusa, Markus, Borras, Truyen ed Eugénie Duval. Quest’ultima, non ancora citata perché sempre nascosta, è il perfetto riassunto di questa fuga: 29 anni, zero vittorie in carriera, unico merito – e non è poco, anzi – quello di esserci fino in fondo. Alla penultima curva nel velodromo, un ennesimo colpo di scena: Femke Markus cade. La fuggitiva forse più veloce esce di scena. Lach tiene alta l’andatura, sul rettilineo parallelo al traguardo Borras esce all’esterno, Jackson e Ragusa le si accodano. Jackson è quella che riesce ad essere più brillante negli ultimi 100 metri: vince e non ci crede. È quella che ha lavorato di più, che ci ha creduto fino in fondo. Posa la bicicletta sul prato e inizia a ballare, scuote la testa e allarga le braccia come a dire no dai, non può essere vero.

Soprattutto, in ogni minuto nell’Inferno del nord Jackson ha sperato che almeno una volta le cose potessero girare per il verso giusto: una fuga nutrita ma assurda, più e più volte a un passo dall’essere ripresa, è arrivata nel velodromo più famoso del mondo e la più testarda ha vinto. Non ricordo corse in cui Alison Jackson era all’attacco, eppure sceglierei lei in qualunque fuga da una balena che apre la bocca per inghiottire pesciolini e plancton. In una parte di Vie di fuga in cui analizza la probabilità statistica di un drappello di corridori di arrivare all’arrivo, Gabriele Gargantini scrive che "è difficile dire con certezza, per esempio, se certe fughe hanno più possibilità di successo perché ne fa parte Thomas De Gendt o se, di converso, Thomas De Gendt ne fa parte proprio perché sono quelle con più possibilità di successo". Certamente questa fuga è arrivata perché Alison Jackson ne faceva parte. Nelle interviste post-gara, Jackson ha rivelato di essere piuttosto abituata alle pietre: «Sono cresciuta in una fattoria dell’Alberta rurale e una delle cose che dovevo fare da bambina era andare nei campi, raccogliere pietre e metterle in un camion». È solo una delle storie incredibili uscite da questa corsa: un’altra è quella di Zoe Bäckstedt, che ha corso la sua prima Roubaix con gli stessi pedali con cui il padre Magnus vinse la corsa maschile nel 2004. Marthe Truyen, terza all’arrivo, non aveva mai poggiato le ruote all’interno di un velodromo prima di questo weekend: altroché preparare l’arrivo per vincere. A Katia Ragusa che avrebbe potuto vincere la Parigi-Roubaix hanno dovuto ripeterglielo per chilometri dalla macchina nell’auricolare, ed è arrivata seconda. Come non siano riuscite a raggiungere quelle davanti, Lucinda Brand e Lotte Kopecky forse ancora non se lo spiegano. Questo mistero, in ultima istanza, ha rappresentato il grande fascino della Roubaix: un non-sapere che ha portato lo spettatore indietro nel tempo, ad un’epoca in cui le corse non si vedevano affatto, andavano immaginate e ricostruite come si poteva. E quando accade qualcosa di difficilmente spiegabile, quando un finale sembra scontato e invece se ne materializza un altro, quando nemmeno la regia televisiva riesce a capirci qualcosa, be’, quelle sono le giornate più belle.

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