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Daniele V. Morrone
Pablo Aimar: per amore del calcio
10 apr 2020
10 apr 2020
Giocare come quando si era bambini.
(di)
Daniele V. Morrone
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Dopo lo stage, invece, viene convocato in Nazionale nonostante non abbia un club professionistico alle spalle. Gli osservatori del River Plate gli fanno un provino e, ovviamente, rimangono folgorati.

 



 

Ci vuole un anno intero e l’intervento di Daniel Passerella, ex leggenda del calcio argentino e in quel momento allenatore del River, per convincerli che avranno un occhio di riguardo per il figlio. Non vogliono snaturarne il calcio e anzi prevedono già a breve la promozione in prima squadra.

 



 



 

Viene immediatamente adottato nel River del “

” (palato fine), la visione del calcio voluta dai suoi tifosi fin dagli inizi del ‘900 che spingere la squadra a puntare non soltanto a vincere, ma a farlo con uno stile che premi la tecnica e la fantasia, l’idea di giocare in modo sempre elegante e quindi piacevole per gli occhi.

 



 

Pekerman lo convoca con l’under 20 per il Mondiale di categoria nel 1997 (poi vinto dall’Argentina). Sono giocatori che formeranno l’ossatura della futura nazionale argentina di inizio 2000 e con cui stringerà una forte amicizia: Walter Samuel, Esteban Cambiasso, Lionel Scaloni, Diego Placente, Leandro Cufré, Leo Franco e soprattutto Juan Román Riquelme. Da poco in prima squadra degli eterni rivali del Boca Juniors e che teoricamente gioca nel suo stesso ruolo sulla trequarti, entrambi sono degli

. Invece di entrare in competizione nei giorni del Mondiale sviluppano un amicizia nata dal rispetto reciproco. A unirli il talento immenso, ma soprattutto la concezione profonda del gioco del calcio.

 

Pekerman fa parte di quella corrente di allenatori argentini che mette la tecnica davanti a tutto. Un seguace di Menotti, che si contrappone a quello dell’equilibrio tattico prima di tutto di Bilardo. Il talento contro la maglia sempre sudata. L’Argentina ha vinto i Mondiali cavalcando entrambe le correnti e forse per questo vive in una tensione continua tra le queste due visioni del calcio.

 



 



 



 

 


 

 

In quest’azione contro l’Inghilterra c’è Samuel che arriva fino sulla metà campo dopo una palla rubata, la scarica per Aimar che si era avvicinato in aiuto, il 10 protegge palla e la fa filtrare per Riquelme, pronto subito a verticalizzare per l’attaccante.


 



 

 



 



 



 

Il calcio da strada lo ha formato e a quello si rifà in campo: il tunnel è il suo gesto preferito, ma è nel primo controllo che fa sbrodolare i commentatori dell’epoca. A tratti sembra quasi cercare sempre l’avversario vicino per poterlo fare superandolo con un solo gesto. Nessuno osa ancora fare il nome di Maradona, con Pablo preferiscono usare Cruyff, meno sacro.

 

Quando Marcelo Gallardo si trasferisce al Monaco, la numero 10, con tutto quello che significa, si libera. L’allenatore Ramón Díaz chiede a Pablo se se la sente, a 19 anni, di prendersela. Il giocatore la prende come una sfida e accetta: nonostante le offerte dall’Europa che già gli arrivano, prima di lasciare l’Argentina deve affermarsi come stella designata del River. E poi se Riquelme non si è ancora trasferito non può farlo neanche lui.

 



 



Quando gli chiedono se nel famoso gol di pallonetto contro il Boca nel 1999 voleva metterla al centro risponde che ovviamente non voleva crossare. Dall’altra parte del cross ci sarebbe stato Saviola e nessuno penserebbe di metterla per la testa di Saviola.


 





 



 

Arriva a gennaio e viene catapultato in un gruppo ancora ossessionato dalla sconfitta in Champions League nell’anno precedente. Una delle migliori squadre della Liga, in un periodo storico in cui c’è molta distribuzione di talento, con 4 grandi: il Real Madrid che ha appena acquistato Figo iniziando l’era dei Galacticos, il Barcellona di Rivaldo, il Deportivo la Coruña di Djalminha e appunto il Valencia di Mendieta.

 



 



 


 

 



 



 



 



 

Lui è un ottimo studente, ma non nasconde una nota amara, perché oltre a sentire tutto il peso creativo capisce che sta giocando un calcio non suo: «Forse devo essere più razionale e anche se mi diverto di meno perché tocco meno palloni, questo può aiutare la manovra della squadra. In Argentina toccavo tantissimi palloni, qua devi abituarti a giocare di prima. Non so dove tornavo a casa più contento dopo le partite, penso in Argentina».

 



Con un talento fuori scala gli riescono in modo apparentemente semplice cose di grande complessità. Non ha paura di sbagliare tentando giocate complicate anche perché questo gli chiede Benitez per provare a sorprendere le difese avversarie.

 


 





 



 



 





 



 

A proposito di paragoni. Questi sono gli anni in cui anche un giovane Leo Messi, appena arrivato dall’Argentina, finisce per sognare un giorno di essere come Pablito Aimar. Andando a pescare dall’archivio di quando Messi nel 2002 era ancora nelle giovanili, effettivamente Aimar è il giocatore di cui parla quando gli chiedono



 

Messi ha raccontato più avanti che a inizio carriera ha chiesto solo a due giocatori la maglia: a Zidane dopo il suo primo Clásico e ad Aimar dopo il suo primo Valencia-Barcellona. Ma la storia del rapporto tra i due è tanto importante per Messi quanto per Aimar, soprattutto con l’andare avanti della carriera di Messi, che già a 19 anni era chiaro sarebbe stata leggendaria: «Con Lionel ci siamo scambiati la maglia 3 o 4 volte. Una volta che me l’ha chiesta gli ho detto “Tu che la chiedi a me? Così sembra il mondo alla rovescia”». E ormai da un decennio non c’è intervista ad Aimar in cui non compaiano le parole di apprezzamento di Messi: «Mi chiedono spesso delle parole di Leo su di me. Ovviamente credo che Leo non assomigli a nessun altro, ci ha saltato tutti da Maradona in poi, includendo il nome che volete mettere in mezzo. Chiaro che per me sia un onore che si sia identificato con me o che abbia visto qualcosa qualcosa che lo ispirasse nel mio gioco mentre ero al Valencia e lui nella Masia» anche se forse la risposta che restituisce meglio l’idea di come si sia sentito Aimar in questi anni è un’altra: «All’inizio il fatto che Messi mi elogiasse e dicesse che mi seguiva da quando giocavo nel River mi faceva sentire un po’ non all’altezza».

 

Il Valencia finirà soltanto quinto, ma la stagione successiva è quella dell’apoteosi della squadra di Rafa Benitez. Nonostante una serie di fastidiosi infortuni che per la prima volta gli tolgono continuità, attorno ad Aimar il livello si è alzato di nuovo: la coppia di centrali Ayala-Marchena è la base di partenza per un Valencia che subisce soltanto 27 reti e chiede come la miglior difesa del torneo.

 





 



 



 

Quattro anni più tardi, al Mondiale di Germania 2006, la generazione cresciuta da Pekerman si trova nel teorico picco della carriera, e la federazione sceglie proprio lui come commissario tecnico. Sin dalle qualificazioni l’Argentina viene rimessa in campo col rombo a centrocampo caro al tecnico che aveva scoperto Aimar. Nel Mondiale, però, Aimar entra dalla panchina come cambio a centrocampo, nel rombo Riquelme è il trequartista e accanto ha giocatori d’equilibrio come Mascherano, Maxi Rodríguez e Lucho González o Cambiasso. Niente più 8 e 10 dall’inizio come a livello giovanile, e non c’è spazio neanche davanti perché la coppia d’attacco è formata da una combinazione di Crespo, Saviola, Tevez e un giovanissimo ma già famoso Messi.

 

Trova comunque i suoi minuti nel girone e agli ottavi, contro il Messico. Il Mondiale sembra svilupparsi in maniera promettente per l’Argentina, ma nei quarti contro la Germania accade il fattaccio che segna la carriera di Pekerman: con la squadra in vantaggio e con due cambi ancora a disposizione, al 72’ decide che è meglio mantenere il vantaggio togliendo Riquelme e inserendo Cambiasso a centrocampo. Una mossa difensiva, che oltre che togliere il regista della squadra spinge i compagni ad abbassare il baricentro.

 



 

Nonostante si dica che la federazione voglia comunque continuare, per Pekerman la delusione è troppa e lo spinge alle dimissioni.

 



 



 



 

Proprio nell’estate della delusione del Mondiale 2006, la carriera di Aimar al Valencia si conclude. Tutto in realtà inizia con la stagione 2004/05, quella che inizia come il giocatore più forte della squadra campione in carica.

 



 



 



 



 


 

 

«La sensazione che dà segnare un gol non è paragonabile, non la si ritrova in altre situazioni. Non parlo che sia migliore o peggiore di altre cose, è che non ci sono paragoni».


 

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