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Cosimo Rubino
L'ora di educazione fisica come volontà e rappresentazione
06 set 2023
06 set 2023
Ricordo sofferto di un rito scolastico.
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Cosimo Rubino
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I prati nelle aiuole, eredi sabaudi di quelli antichi che danno il nome al quartiere, non sono né troppo alti né troppo bassi, non secchi ma neanche madidi; le palme si stagliano con un’attitudine più extraterrestre che esotica; la luce, quella dell’orario raffinato della stagione raffinata, quella che tormenta i residenti per la sempiterna maledizione di non poter essere turisti e vederla una sola volta per poi rimpiangerla tutta la vita, esalta il nitore latteo del tempio valdese, alieno pure quello per definizione; tutt’intorno la melodia inconfondibile di bambini che giocano fa venire voglia di essere padri, se proprio non si può più essere figli. Ammesso che sia vero (non lo è) il famoso adagio di Schopenhauer per cui la vita è un pendolo fra noia e dolore, questo quadretto, quando scendo le scale del Palazzaccio in cui lavoro, ha tutta l’aria di uno di quei brevi e fugaci attimi in cui l’angolo descritto dal pendolo è uguale a zero. Un pensiero che mi eccita e mi agita fa ripartire il moto del pendolo: i bambini giocano a palla e, se c’è una palla, c’è la possibilità che questa palla venga verso di me. Cosa penserebbero di un giovane adulto in completo elegante che scendendo le scale dello spaventoso Palazzo di Giustizia – che sia un avvocato? persino un giudice, forse? – restituisse loro il pallone con il piatto della sua scarpa in pelle e un’umile, certosina eppure celestiale pulizia tecnica? Diventerei certamente il loro eroe, un vero e proprio mito vivente, un modello a cui aspirare. Il bambino con la chioma à la Valderrama e la maglia nera e fucsia di Dybala tornerebbe a casa chiedendo ai genitori un manuale di filosofia del diritto per iniziare i suoi studi giuridici.

***

La travolgente speranza di restituire un pallone vagante a dei bambini che giocano per strada è un sentimento che ho scoperto essere molto diffuso e con cui scommetto che molti lettori saranno in grado di identificarsi. Non escludo ci sia su questo tema della letteratura anche più specifica del «Se fossi a un matrimonio vestito di bianco e piombasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci» di Maradona, ma nelle mie ricerche ho trovato soltanto, curiosamente, diversi articoli sulla decisione con cui proprio la Cassazione, con sentenza n. 1786 del 2017 chiarisce che bucare un pallone a dei bambini non costituisce reato. Tralascio commenti che rischierebbero di farmi perdere il lavoro. Ad ogni modo, ho capito che nel mio caso questo sentimento ha radici ben distinte nel trauma dell’ora di educazione fisica al liceo.Andiamo con ordine. I primi cigolii nel mio rapporto con l’ora di educazione fisica a scuola arrivarono ai tempi delle elementari. Più precisamente in quinta elementare, quando la scuola intraprese un progetto volto a recuperare nelle nuove generazioni l’amore per quella fantastica danza popolare che è la pizzica. Capite bene che, per un bambino di 9 anni, mandare giù il divieto di toccare la palla con i piedi in favore di sport meno pericolosi e divertenti (o come pensavamo noi allora: da femmine) come la pallavolo dimostri già una non scontata attitudine al compromesso; ma accettare un manifesto di egemonia culturale femminile come la danza durante l’ora più mascolina dell’orario avrebbe richiesto la vocazione per la santità – e io non ce l’avevo. Fu un primo laboratorio di formazione politica e sindacale, in cui esercitai la mia vispolemica con compagni, insegnanti e genitori, senza ottenere alcun risultato concreto. L’esperienza si chiuse con una puntuale febbre psicosomatica nel giorno del saggio di fine anno e un certo sottile piacere, tuttora tangibile alla vista dei VHS di quella giornata, nel vedere la mia partner di danza esibirsi da solista.

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Arrivarono le scuole medie: probabilmente i peggiori anni della vita di una persona, ma l’età dell’oro dell’educazione fisica. Il professore era una colonna della scuola, aveva insegnato anche alla generazione dei nostri genitori, e veniva da una formazione illuminata per cui lo sport non può prescindere da una dimensione competitiva. I 30 metri venivano cronometrati, i salti in alto e in lungo misurati, e i migliori di noi cooptati per il gruppo sportivo del pomeriggio, rampa di lancio verso le gare studentesche. C’era poi spazio per una serie di giochi semplicemente divertenti, che servivano a farti svegliare con il sorriso nei giorni in cui era prevista l’ora di educazione fisica. Ne riporto tre per darvi la misura della gioia di cui parlo o se non altro per dare delle buone idee al baraccone di Piqué. Re incontrastato di questa categoria: Sua Maestà il calcio da seduti. Trattare i ragazzini come esseri umani con capacità di ragionamento può essere fruttuoso e il PdC, Partito del Calcio, che aveva mantenuto i suoi quadri dai tempi delle elementari, si era trovato comprensivo di fronte alle istanze di contenimento dei rischi di efferatezze, negoziando con soddisfazione con il prof. per questa variante più sicura, molto bizzarra e per qualche motivo accolta con favore anche da una buona rappresentanza femminile (non mi soffermo sulle caratteristiche regolamentari e fenomenologiche perché servirebbe un pezzo a parte). Subito dietro al calcio da seduti nella mia classifica di gradimento: un gioco di cui non ricordo il nome, ma che meriterebbe di chiamarsi pallacorda ben più dell’antico gioco della pallacorda. Il professore, dopo aver disposto la classe in una circonferenza, si poneva al centro e faceva ruotare a velocità crescente una corda lunga quanto il raggio del cerchio, con una palla legata alla sua estremità. L’obiettivo del gioco era saltare con il giusto tempismo, evitando di essere colpiti dalla palla, pena l’eliminazione. Ancora oggi il ricordo delle finalissime, con l’intera classe che tifa e il professore che alza sempre di più la palla. Ancora ho le palpitazioni. Infine: la vecchia cara palla prigioniera, resa incredibilmente di moda dall’exploit del Dodgeball, uno strambo sport americano che aveva guadagnato popolarità tra i pre-adolescenti di fine anni 2000 grazie a un film con Ben Stiller e un programma condotto da Pierluigi Pardo e trasmesso da GXT. I tempi della pizzica erano lontani, il rapporto con l’ora di educazione fisica non era mai stato così appagante.

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I primi due anni di liceo furono caratterizzati dall’instabilità. Si riportano per onor di cronaca la smodata, marziale, incomprensibile fissa per le capriole del primo professore e le alterne fortune nei cuori della classe di vari supplenti freak. Al triennio, questo vuoto di potere alla cattedra di educazione fisica fu colmato da una donna forte. Fisico tonico e compatto, capelli biondi, viso incartapecorito che tradiva un’età ignota tra i 50 e i 60, la nostra nuova professoressa arrivava accompagnata da una fama allarmante. Non ricordo molto dei primi tempi, se non che, forse a causa di alcuni interventi di manutenzione alla palestra della scuola, o forse per genuino sadismo, introdusse un concetto a noi totalmente sconosciuto: le lezioni di teoria. Era iniziato il nostro percorso di privazione. Le uniche due ore settimanali di sfogo fisico previste nell’orario scolastico e prescritte da 2500 anni di civiltà si trasformarono in pedanti lezioni di anatomia. Oltre al danno lampante, la beffa insopportabile era il compiacimento con cui buona parte delle ragazze della classe, oltre a qualche apostata sotto copertura, imparava la posizione esatta dello sternocleidomastideo pur di non fare attività fisica. Ma la professoressa non era faziosa, era un joker, e il loro turno sarebbe arrivato. Dopo un tempo indefinito e varie soluzioni diplomatiche naufragate, ci fece finalmente tornare in palestra, ma soltanto per perpetrare una tortura più sofisticata. Cercando di mediare tra una marea di ricordi senza data, la nostra ora di educazione fisica era ripartita all’incirca come segue.Con qualche comprensibile minuto di ritardo la professoressa si affacciava sull’uscio dell’aula e annunciava in tono solenne: «Oggi basket!» (o qualsiasi altra fosse l’ossessione d’attualità in quel momento).In totale disordine la classe scendeva i due piani di scale e raggiungeva lo spogliatoio. Negli spogliatoi si era sviluppata una forma di resistenza passiva che prevedeva l’impiego di un tempo direttamente proporzionale al livello di vessazione atteso nelle fasi successive. Anche il grado di violenza contro cose e persone doveva avere qualche tipo di funzione sovversiva, come ogni forma di radicalizzazione. Spesso negli anni successivi mi sono chiesto se dovessi sentirmi in colpa per aver partecipato, se non fisicamente di sicuro moralmente, ad atti che adesso non esiterei a definire di bullismo. Nessuno si è mai fatto male, il peggiore di noi non sarebbe neanche mai stato in grado di fare del male a qualcuno, e anche i più vessati godevano del sincero affetto di tutti al di fuori dello spogliatoio. Nonostante ciò, non riesco ad assolvermi del tutto per aver vissuto alcuni dei momenti più divertenti della mia vita grazie a un contesto che probabilmente era insopportabile per qualcun altro. Di certo le rare volte che i prodotti sonori (o addirittura visivi, come nel caso di un Harlem Shake incautamente pubblicato su YouTube) delle performance nello spogliatoio erano giunti alla palestra o addirittura alle classi al piano di sopra, eravamo stati puniti con altre lezioni di teoria. Il mio compagno di banco, non so più all’interno di quale cornice letteraria, era solito usare come pulpito una delle panche, da cui, stando in piedi, teneva appassionati discorsi in veste di leader di una comunità di naufraghi decisa a organizzarsi per non soccombere. Durante questi sermoni persino il suo marcato accento sembrava assurgere a una funzione ispirata. Aveva un dono per la retorica, riusciva con maestria e naturalezza a trascinare questa piccola banda di scampati nella sua allucinazione, per poi, immancabilmente, al culmine del pathos, concludere: «E se tutto dovesse andare male: ci mangeremo Giampaolo!». Tripudio.Entrati finalmente in palestra ci riunivamo intorno alla piccola cattedra della professoressa. Dal suo campidoglio iniziava a perpetrare il martirio. Non sono mai stato una persona paziente, ma ricordo il tempo passato intorno a quella cattedra come il più frustrante della mia vita. Eravamo una molla compressa e costretta ad ascoltare i suoi vaneggiamenti anziché scaricare la propria energia. Parlava di qualsiasi cosa, dalla sempreverde anatomia alle notizie di attualità, ma le esperienze più scoraggianti erano di sicuro i racconti sulla sua famiglia e, ancor peggio, sulla sua nascente carriera da giornalista. È in questa fase di putrefazione fisica e intellettuale intorno alla cattedra che è nato il mio trauma della restituzione della palla altrui. L’esistenza stessa di un centro fisico di potere in un luogo che nella mia visione distorta era intrinsecamente anarchico mi sembrava discutibile. La rete da pallavolo segnava il limes che divideva il nostro territorio da quello di un’altra classe, che, con un altro professore, svolgeva la sua ora di educazione fisica, e non mi sembra di ricordare alcuna cattedra nella loro metà campo. Ciò che è certo è che nella loro metà campo viaggiavano in abbondanza quegli straordinari, sferici simulacri di libertà comunemente chiamati palloni. Con l’angoscia tipica dell’invidia del pene freudiana, il nostro unico stimolo non poteva che essere guardare l’altra classe mentre faceva esattamente quello che ci veniva negato. Tutte le nostre energie erano rivolte alla speranza che una palla finisse accidentalmente nella nostra metà campo. I più sofferenti per l’astinenza si staccavano di qualche metro dal gruppo della cattedra per prendere vantaggio, ma nelle rare volte in cui il miracolo accadeva, la molla scattava per tutti e la competizione per guadagnarsi il contatto con l’oggetto del desiderio era serrata. In un secondo momento, quando il nostro stato di disperazione aveva superato lo spettro della cupidigia per entrare in quello mistico della comunanza, è invece capitato che si mettessero in atto degli schemi codificati lunghi diversi secondi per permettere alla maggior parte di compagni possibili di toccare il pallone prima della gloriosa e dolorosa riconsegna.Alcune volte capitava che l’intera ora si consumasse intorno alla cattedra. Più frequentemente, invece, a un certo punto la tortura cambiava pelle, onde evitare l’assuefazione dei torturati. Sempre stando ferma alla cattedra, continuando a scartabellare fra le sue cose con l’aiuto della prigioniera di turno (una ragazza disposta ad essere assoggettata pur di non indossare abiti sportivi), ordinava a un colonnello considerato affidabile di organizzare lo stretching ponendosi di fronte alla classe e suggerendo i movimenti da imitare. Indipendentemente dalla volontà del suddetto colonnello, entrava qui nuovamente in scena il mio compagno di banco, che lo sostituiva in modo coattivo e proponeva il suo stretching, le cosiddette “flessioni tailandesi”, consistenti in una rivisitazione delle celebri torsioni irochesi di Mr. Burns.

Le modifiche apportate alla ginnastica che il dispotico miliardario giallo propone agli operai della sua fabbrica, in particolare il tono salmodiante dell’uno ahi-ahi-ahi, due ahi-ahi-ahi (che suona simile all’ha-ya-yah di Burns, ma lo connota di una sfumatura di dolore), lo rendevano un mantra che il nostro guru ci trasmetteva per permetterci di raggiungere l’astrazione. Solo un’altra forma di resistenza.Anche la fase dello stretching poteva essere interminabile, ma anch’essa a volte terminava. In quest’eventualità si aprivano diversi scenari che colpivano con intensità diversa le varie anime della classe a seconda delle rispettive fragilità. L’obiettivo implicito era chiaramente di non fare sconti a nessuno. Le fattispecie più comuni erano due. La prima: in alcuni periodi dell’anno, su impulso degli obblighi formativi, la professoressa doveva ideare delle prove su cui valutarci. Assicuratasi di aver eliminato ogni elemento ludico o competitivo dalla prova, allestiva, sotto forma di esercizi alla spalliera, l’inferno di quegli stessi apostati che erano stati la sua claque ai tempi delle lezioni di teoria. La seconda e più penosa: nel nome di non so quale cervellotica concezione didattica dello sport, pensava di migliorare la nostra tecnica di base nel basket e nella pallavolo facendoci praticare i gesti tecnici senza palla né avversario. Era il culmine del nostro percorso di privazione. Con le stesse modalità dello stretching e delle flessioni tailandesi, un incaricato, o a volte anche la professoressa in persona, mimava il bagher, il palleggio, la schiacciata, o ancora il tiro a canestro, la stoppata, lo scivolamento difensivo. Il plotone, a specchio, imitava. Era un'assurda imitazione dei celebri allenamenti di Arrigo Sacchi, e mi dispiace per lui ma l’idea di migliorare un gesto tecnico senza il contatto con la palla mi sembra semplicemente ridicola. Anche arrivando a credere per assurdo che questo metodo a metà tra il Tai Chi e il Gioca Jouer potesse in qualche modo funzionare, dove ci avrebbe portato, senza la possibilità di giocare una vera partita? Da nessuna parte se non in classe, più scoraggiati di prima, per l’ora di matematica o di filosofia.

***

Quasi tutte le mattine, quando a passo svelto attraverso piazza Cavour nel tentativo di entrare in ufficio in orario, incrocio una delle classi di un liceo dei dintorni che svolge la sua ora di educazione fisica all’aperto. Non riesco mai a individuare il professore e tanto mi basta per sognare di cambiarmi in fretta e unirmi a loro. Quando mi rendo conto che sarebbe inopportuno inizio a sperare che per lo meno una palla finisca dalle mie parti.

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