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Emanuele Atturo
Omaggio al genio di Josip Ilicic
14 set 2022
14 set 2022
Cosa rende artistico il suo calcio.
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Emanuele Atturo
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Foto di Marcio Machado / Getty Images
(foto) Foto di Marcio Machado / Getty Images
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Josip Ilicic è stato salutato dai suoi tifosi in una piccola cerimonia unica nel suo genere. Ilicic con la faccia imbolsita, vestito in borghese, aveva l’aria dell’ex giocatore, commemorato da una squadra in cui, in un passato che pare ormai remoto, aveva scritto pagine di storia. La società pubblica il video con in sottofondo un pianoforte struggente, mentre Ilicic saluta, fa il giro di campo e ha gli occhi lucidi. «Dentro di me c’era un battito enorme impossibile da dimenticare». A dire il vero non sembra nemmeno il saluto a un atleta, piuttosto a un artista e alla sua opera. Un regista che va a ritirare il Leone d’Oro alla carriera, ma di fronte al pubblico che lo ha amato e venerato più di chiunque altro. Gli striscioni salutano la sua arte: «Per quei tocchi emozionanti che ci hanno fatto venire i brividi. Grazie Ilicic!». Lo speaker dello stadio annuncia le sue 170 presenze, i suoi 60 gol, i suoi 44 assist, e sono numeri densi del personalissimo modo in cui Ilicic ha deciso di costruirli. Con uno uno stile assolutamente unico, che ha rifuggito la banalità ogni volta che ha potuto. Parliamo spesso di calciatori creativi, ma pochi giocatori quanto Ilicic hanno mostrato quanto è tangibile quella creatività. Certi suoi gol, certe sue giocate, erano la sua firma. Ripropongono un gesto tecnico universale - un pallonetto, un tiro a giro sono tutti i pallonetti e i tiri a giro che li hanno preceduti - ma lo declinano in un modo che li rendono esclusivi: suoi e solo suoi.Prendiamo per esempio uno dei primi gol della sua carriera, segnato con la maglia viola del Maribor. Ilicic converge verso il centro col solito movimento ciondolante. Mentre sterza perde il contatto con l’erba e pattina per qualche centimetro, si regge in piedi a malapena. Eppure quando recupera l’equilibrio la prima cosa che pensa è fare una finta. Il difensore si gira e arranca all’indietro nel modo goffo di chi per un attimo ha dimenticato chi è e dov’è. Ilicic a quel punto calcia, la gamba perfettamente rilassata, un pallone che sembra volare verso il cielo come una stella cadente e si abbassa appena sotto la traversa, la tocca batte per terra e poi sulla parte superiore della rete come un popcorn che rimbalza sul coperchio. Questa miracolosa bellezza che nasce dalla fragilità è stata la firma delicata di Ilicic su un campo da calcio.

È un gol segnato fra spalti mezzi vuoti. In quel periodo dice al suo procuratore, Amir Ruznic, che non ce la fa più a giocare in uno stadio con 300 persone: «dammi uno stadio affollato e ti farò vedere chi sono». Ruznic, che ha giocato nel Pescara con Allegri, manda qualche dvd a Milanello. La società ci pensa ma poi lascia perdere. Leggenda narra che Josip Ilicic sia stato comprato durante la fine del primo tempo di una partita. A Walter Sabatini erano bastati 45 minuti per innamorarsi di lui, in un preliminare d’Europa League tra Palermo e Maribor finito 3-0. Sabatini era partito per comprare Armin Bacinovic, e invece è tornato a casa con lui e Ilicic e 3 milioni di euro in meno. In Slovenia era considerato tutt’altro che un fenomeno. Un giocatore strano, svogliato, e tatticamente difficile da collocare. Pochi mesi prima la partita contro il Palermo annaspava nella seconda serie slovena, nell’Interblock Ljubljana, e pensava al ritiro. La squadra è fallita e la leggenda del calcio sloveno, e ds del Maribor, Zlatko Zahovic lo ha comprato per 80 mila euro. Undici partite dopo è riuscito a farci 1 milione e ottocento mila euro. Quando nella partita di ritorno contro il Palermo segna il gol del 2-0 - una spaccata simile a un gol di Totti in un derby di Roma - Sabatini in tribuna mormora «Guarda sto stronzo». Nella foto di presentazione, insieme a Bacinovic, ha l’aria tetra mentre mostra il pollice e un grande outfit (anni dopo, mentre era alla Fiorentina, dirà di essere un esperto e un appassionato di moda).

Poche ore prima di Palermo-Brescia Ilicic scopre il suo nome sulla distinta dei convocati e non crede ai suoi occhi, tanto meno quando Delio Rossi lo fa esordire a un quarto d’ora dalla fine. Non pensava di giocare tanto presto. Forse non pensava proprio di giocare in generale, che il suo arrivo in Serie A fosse uno strano scherzo. In questo articolo del Guardian Nicky Bandini racconta il suo spaesamento, come chiedesse di continuo consigli sulla sua posizione ai compagni più esperti, a Federico Balzaretti, ad Antonio Nocerino. Alla seconda partita, contro l’Inter, segna il suo primo gol. Un tap-in dopo un’azione nata con una corsa centrale che spezza in due gli avversari. C’è una leggerezza speciale nella corsa di Ilicic, di questo corpo stranamente privo di muscoli, che deve coordinarsi per inseguire pensieri che vanno un po’ più veloci. In questo breve limbo, fra il suo pensiero e il suo corpo, c’è il mistero della sua elusività - che è un mistero soprattutto per i difensori che devono marcarlo e che spesso si pietrificano come di fronte alle Gorgoni.Mentre corre, nell’amato corridoio di centro-destra, Ilicic ha il pensiero costante della porta, che può raggiungere con le intuizioni più improvvise, le esecuzioni tecniche più complicate. Contro la Fiorentina prende la prima palla della sua partita e la calcia sulla traversa con una violenza che sembra inverosimile per lui; con la seconda palla calcia con una parte leggermente esterna del piede un pallone che assume una traiettoria impossibile. Sebastien Frey se ne sta sdraiato ridendo per quello che ha appena visto. Un altro gol che solo Ilicic poteva segnare.

Osservando bene i suoi gol, c’è sempre un dettaglio geniale. Un’esecuzione che contraddice il senso comune, e che nasce da un pensiero irregolare. Inquesto gol al Cesena, per esempio, per anticipare il portiere su un cross, piega la gamba per usare l’esterno del piede come una volée. Come gli è venuto in mente? Nel celebre gol al Torino da centrocampo non bisogna far caso tanto alla perfezione del suo pallonetto, ma alla scintilla che vediamo materializzata quando decide di calciare. Un’azione banale e svagata, Ilicic che protesta, ma poi all’improvviso scatta verso il pallone per tirare. Non sembra neanche aver bisogno di uno sguardo verso Sirigu.

Sono tanti i gol di Ilicic da citare come opere d’arte. Come cose prodotte che hanno un’autosufficienza e che ancora oggi possiamo ammirare. In questo gol dell’ex, la sua firma d’autore è l’assoluta leggerezza del tocco con cui fa passare la palla sotto le gambe di Goldaniga. Inquesto gol al Parma la lentezza con cui sembra incagliarsi sulla palla, in quella croqueta blandissima al limite dell’area, e poi il tiro improvviso verso la porta di pura astuzia. Tutti questi dettagli sono quelli che ci farebbero ricondurre un gol di Ilicic solo a Ilicic. È come quando riconosciamo un disco dei Jesus and Mary Chain dal frastuono sonoro che scorre in sottofondo, descritto in un articolo del Guardian «Come essere intrappolati in un tunnel di vento pieno di api e vetri rotti». È difficile riconoscere in cosa consista esattamente questa firma di Ilicic. Forse si può citare il momento che il filosofo Algirdas Greimas definiva una “sincope”: una negazione della continuità, «un principio di frammentazione del continuo, del ritmo atteso, che genera un senso di movimento tendenzialmente irregolare» (Franciscu Sedda). Durante le azioni in cui Ilicic dipinge correndo verso la porta c’è sempre un momento in cui qualcosa si incrina e diventa turbolento. Possono essere le sue intenzioni (quando scivola, o pare inciampare sul pallone), oppure la grammatica tradizionale di una partita che presenta un buco (Sirigu fuori dai pali, la corsa distratta da Goldaniga) dentro cui lui trova un’intuizione per creare. Qualcosa, insomma, perde transitoriamente il ritmo, per poi recuperarlo con una forma diversa.Nei primi tempi a Palermo Ilicic condivide la trequarti con un altro artista, Javier Pastore, e i due insieme fanno cose talvolta anche difficili da spiegare. Una squadra che è il riflesso del gusto barocco e personalistico del progetto di Zamparini e Sabatini. Contro il Chievo, per esempio, in spazi stretti muove la palla con la suola e fa uno scavetto col tacco inimmaginabile. Ilicic e Pastore si somigliano, per il modo in cui raggiungono il vertice estetico passando attraverso note di malinconia. Si somigliano ma sono pur sempre originali da vedere assieme, questo argentino espressione purissima di un paese dalla immensa tradizione tecnica, e questo sloveno di origine bosniaca che si porta dietro le atrocità della storia. Nato in Bosnia in un paese a maggioranza serba, il padre ucciso quando era ancora un bambino. Cresciuto con la madre a Kranj, un minuscolo paesino da cartolina alle pendici del Triglav, la montagna la cui sagoma disegna la maglia della Nazionale. Tirava il pallone sul muro di casa e pensava che Shunsuke Nakamura fosse il miglior calciatore al mondo. Tempo dopo Walter Sabatini ha descritto così Ilicic durante il periodo al Palermo: «Era un po’ ombroso, sembrava non fosse mai felice. Mostrava una certa indolenza, faticava a socializzare per via della sua timidezza».

Poteva sopravvivere, un talento simile, ai più alti livelli del calcio contemporaneo? Viene in mente la celebre frase del film di Sorrentino L’uomo in più «Il calcio è un gioco, ma tu sei un uomo fondamentalmente triste»; una frase con cui un presidente cialtrone cercava di marchiare l’inadeguatezza antropologica dell’allenatore Antonio Pisapia. Dopo la prima annata scintillante Ilicic non ha proseguito la sua ascesa, e la sua figura è rimasta imprigionata nel pernicioso cliché del calciatore balcanico geniale ma inaffidabile. Ilicic rientra alla perfezione in quell’archetipo, la sua discontinuità, al lentezza con cui si muove in campo nelle giornate peggiori, illuminata da momenti di genio. La tristezza sottile che emana, che però pare la tristezza nobile dell’arte.Dopo tre stagioni a Palermo passa alla Fiorentina e la sua carriera inizia a prendere una piega minore. All’inizio del secondo anno viene fischiato dai tifosi e gli rivolge il dito medio uscendo dal campo; viene multato dalla società. Dopo un’ottima annata (la 2015/16), a 29 anni gioca la peggiore stagione della sua carriera. Una stagione da 77 tiri e 3 gol. Quando si trasferisce all’Atalanta pare un esperimento sadico: il giocatore più indolente del campionato nella squadra più intensa, il più individualista nella squadra più collettivista. Il talento di Ilicic a Bergamo invece fiorisce in modo splendido e imprevedibile, mostrando sfaccettature e picchi che non pensavamo gli appartenessero. Non pensavamo che Ilicic potesse danzare sulla difesa del Borussia Dortmund in una notte europea, segnare uno dei suoi gol in cui gli altri arrancano mentre lui li aggira muovendosi a malapena, con uno stop delicatissimo che manda fuori tempo il difensore; e poi siglare la doppietta sotto al settore atalantino in delirio.

Nel film Why are we creative? John Cleese espone una teoria sulla mente umana per cui le persone più creative sono quelle che da piccole hanno vissuto almeno due strutture diverse (due paesi, due lingue, due culture) e hanno dovuto integrarle per dargli un senso coerente. Chissà se la creatività di Ilicic, come di molti calciatori balcanici (o brasiliani), non nasca dal conflitto di culture che vivono attorno.Se per il suo genio i compagni soprannominano Ilicic “Il Professore”, per la sua ipocondria e la tendenza a lamentarsi degli acciacchi, lo chiamano “La nonna”. Gasperini dice: «I ragazzi lo chiamano così perché a parole è sempre distrutto. Ormai non gli rivolgo più nemmeno il classico 'come stai?' perché so che mi risponderebbe in maniera negativa». Ilicic si guadagna una fama da poeta malaticcio dell’’800, finché i suoi disagi non diventano reali. All’inizio della stagione 2018/19 rimane fuori per non meglio specificati problemi fisici. Vengono fuori poche notizie e contraddittorie. Si scrive di una grave forma influenzale, poi di un’infezione batterica che gli aveva provocato un ascesso dentale. Infine si parla di linfonodi ingrossati. Successivamente Ilicic dirà di aver avuto paura di andare a dormire: temeva di non risvegliarsi la mattina e non rivedere più la sua famiglia. Gasperini dice di esserlo andato a trovare in ospedale: «Dovevamo partire per Lisbona. Io non ho molta forza, ma l’ho tirato su come un manichino. Era praticamente un manichino leggerissimo».Pochi mesi dopo raggiunge il proprio apice, il suo momento di massima gloria, che coincide però con la fine del calcio. È il doppio confronto in Champions League contro il Valencia. Dopo l’andata di San Siro, il 10 marzo si gioca in Spagna a porte chiuse. È un turno di Champions controverso, l’ultimo che si gioca prima della sospensione dei campionati e delle altre competizioni per la diffusione del Covid-19. Un giorno prima l’Italia era entrata in lockdown e la Lombardia, e la provincia di Bergamo in particolare, vive un momento di grande paura e dolore. Nello stadio vuoto Ilicic segna 4 gol, uno dei tredici giocatori della storia a riuscirci in una partita di Champions, e vince il premio di migliore in campo. A fine partita la squadra mostra una maglia con scritto “Bergamo questa è per te”. Passeranno mesi strazianti per la città, le immagini delle bare scortate sui camion militari. Quando si ricomincia a giocare l’Atalanta ha dei quarti di Champions da disputare contro il PSG, ma Ilicic non è convocato. È dalla ripresa dei campionati, in realtà, che non si vede più. È tornato in Slovenia insieme alla moglie, per problemi personali, o almeno così si dice. Da quel giorno si inizia a parlare apertamente di depressione (o di “male oscuro”)sui media, anche con una certa morbosità, nonostante Ilicic non ne abbia in fondo mai parlato. La sua diventa una storia intermittente, di sparizioni e ritorni, alcuni in grande stile. Ilicic è ancora capace di ribaltare da solo l'energia di una partita con la sola forza delle sue idee, ma lo fa sempre più raramente.All’inizio della scorsa estate sembrava dovesse andare via da Bergamo, ma non riceve offerte (com'è possibile?) e infine Gasperinilo convince a rimanere. Vive una stagione incredibilmente tribolata, resta ai margini della squadra - generando un chiacchiericcio a volte disturbante - ma quando torna riesce comunque a regalare momenti di classe autentica. Con lui in campo l’Atalanta assume tutta un’altra dimensione. Rientra con un’aria ancora più scavata - lui che per magrezza ricorda l’autoritratto da soldato di Kirchner - e una presenza fisica sempre più precaria. Anche per questo il suo gol al Ferraris, contro la Sampdoria, ha un’aura quasi spirituale. Lo stesso stadio in cui aveva segnato uno dei suoi gol più magnetici, con la maglia del Palermo: quattro dribbling che sono un esercizio di ipnosi.

Alla fine dell’ultima partita, in casa contro l’Empoli, Ilicic rientra in campo per un saluto. Un intero stadio, giocatori compresi, si ferma per applaudirlo. Durante il saluto alla squadra la curva gli dedica un coro e lui si inchina con un’aria malinconica.Per guardare meglio le cose bisogna prendere distanza, e oggi che abbiamo timore che Ilicic possa non tornare più a giocare, almeno a certi livelli, ci viene già nostalgia di lui, del modo in cui ha nobilitato il nostro campionato una domenica alla volta. Nella modernità tattica dell’Atalanta, nell’estremismo del gioco di Gasperini, Ilicic è rimasto il ricordo di qualcosa di essenziale e antico del calcio. Il dominio della tecnica, dei piedi e del corpo, dell’espressione individuale, all’interno di un gioco estremo dal punto di vista atletico. Il soprannome “Il Professore” rimanda all’idea che Ilicic possedesse i fondamentali del gioco del calcio, e li spiegasse ogni volta durante le partite a un branco di corridori impazziti. Insieme a Gomez è stato per anni nella cabina di comando, da dove guidava le corse e i tagli in verticale dei compagni. Rispetto all’argentino, però, la tecnica di Ilicic ha qualcosa di più sfuggente. Come se nascesse da una materia diversa, più rara e delicata. Mi rendo conto che si può cadere nella retorica, ma in un’epoca di talenti la cui superiorità sembra genetica prima che tecnica - Haaland e Mbappé sembrano effettivamente appartenere a una specie superiore - lo stile di Ilicic ha mantenuto un'aura di mistero che rendeva le sue giocate un po’ più speciali delle altre. Come se nelle sue finte ci fosse un leggero disallineamento della realtà, l’incursione di un tempo diverso. Eppure anche questo è fuorviante, un’interpretazione, forse poetica, che non gli rende del tutto giustizia. Ilicic è la dimostrazione di quanto siano limitati i discorsi sulla scomparsa dei numeri dieci, o sull’inutilità della tecnica nel calcio contemporaneo. Con le sue pause, le sue sincopi e le sue turbolenze, Ilicic ha dimostrato che nel caos del calcio di oggi c’è sempre più bisogno di giocatori che siano capaci di surfare sul disordine. Ce ne sono diversi che sanno farlo, ma a rendere speciale Ilicic è il modo in cui ha cavalcato questa energia, piegandola per dare vita a qualcosa di puro e bello, grazie al suo ritmo più pigro - è anche il senso di molte performance artistiche, che mettono in scena gesti semplici e quotidiani che acquisiscono un senso particolarmente potente a un ritmo diverso, più lento.È anche imbarazzante scrivere queste righe di tributo a Josip Ilicic. Mi rendo conto che hanno la tonalità nostalgica che si riserva a un giocatore ritirato. Invece Ilicic ha detto di non essere pronto al ritiro, che ha voglia di giocare e magari insegnare ai giovani che cosa significa essere un calciatore. È difficile capire cosa intenda, in che modo Ilicic pensi di insegnare ai giovani. Il personalissimo modo in cui è stato in campo e ha interpretato il ruolo di calciatore, in definitiva la sua arte, è davvero qualcosa che si insegna?

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