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Diego Guido
Oltre le etichette, intervista a Damiano Tommasi
18 mar 2019
18 mar 2019
Abbiamo parlato con il presidente dell'Associazione Italiana Calciatori del suo passato da calciatore e del suo presente da dirigente.
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Diego Guido
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L'ufficio di Damiano Tommasi è in fondo ad un lungo corridoio nella sede di Assocalciatori, a Vicenza. La cosa più curiosa al suo interno sono le sedie, che “indossano” tutte una maglietta da calcio infilata sopra lo schienale. «Mi è sembrato un bel modo per valorizzarle», mi dice quando ci incontriamo. La sedia su cui mi ha fatto sedere porta una sua maglia dell'Italia con il 17 dorato. Quella su cui si è seduto lui porta invece una maglia dell'Ajax con il sacro numero 14. «L'ho scambiata in un triangolare estivo, uno dei primi anni che ero alla Roma. Mi aveva avvicinato una loro giovane riserva per chiedermi la mia. Solo negli spogliatoi mi sono accorto che era la 14. Quando è morto Cruyff l'ho tenuta tutto il giorno sopra la camicia».





Tommasi ha smesso di giocare da professionista nel 2009, a 35 anni. Una fortuna considerando che cinque anni prima, quando ne aveva 30, in un'altra amichevole estiva, giocata in Austria contro lo Stoke City, un contrasto con Gerry Taggart lo aveva lasciato in pratica senza più il ginocchio destro.

 

«Ricordo di aver sentito una fiammata. Un enorme calore dentro al ginocchio». Rottura dei crociati anteriore e posteriore, del menisco, dei collaterali interno ed esterno, infrazione dei condili e del piatto tibiale. I muscoli distaccati dall'articolazione. «Tempo dopo, giocando in Inghilterra, ho capito che quello è un intervento per loro normale, anche in allenamento. Purtroppo allora non ero preparato». La situazione non era apparsa subito nella sua reale drammaticità. «Si era avvicinato Cufrè per insultarmi. Diceva che ero un testone, che in amichevole dovevo tirare indietro la gamba. Delvecchio gli diceva di calmarsi, che probabilmente mi ero davvero fatto male e allora lui rincarava: “E gli sta bene, è un testone, non è possibile rischiare così!”».

 

Esce dal campo austriaco quasi da solo. Già in panchina però sente di non avere il controllo della gamba dal ginocchio in giù. «Arrivato negli spogliatoi sono svenuto. Era arrivato anche mister Prandelli che sapeva già tutto. I medici lo avevano aggiornato, a me invece non avevano parlato ancora chiaro. Gli dicevo: “Tranquillo mister. Starò fuori un po' ma torno, tranquillo”. Lui, poveretto, non sapeva cosa rispondere».

 

Mi racconta che anche per il professor Mariani, nelle prime visite a Villa Stuart, i punti di domanda erano molti. «L'analogia era con il caso di Casiraghi. Lui ha affrontato una ventina di operazioni, se non sbaglio, ma purtroppo aveva subito danni troppo gravi alle terminazioni nervose della gamba. C'era da capire come stavano le mie prima di sbilanciarsi sul futuro. Con il tempo emerse che qualche danno c'era ma che lo avrei potuto superare».

 

Tornare a giocare in Serie A, però, era un’altra cosa. Gli chiedo se sia stato quello il primo momento in cui abbia preso in esame il suo post-carriera, magari figurandosi già di aumentare il suo impegno in Assocalciatori, di cui era consigliere dal 1999. «No, io pensavo solo a tornare a giocare. Mi ponevo il dubbio della categoria, questo sì. Forse non sarei più stato in grado di giocare oltre la Prima, Seconda Categoria con il mio Sant'Anna d'Alfaedo. Ma l'importante era giocare ancora».

 



Damiano Tommasi, in realtà, non ha ancora smesso di giocare. Non passa domenica che lui non indossi la maglia granata del Sant'Anna, piccolo paese delle montagne veronesi tra Lessinia e Valpolicella. «Quando ho smesso con il professionismo, una delle poche certezze che avevo era che volevo giocare nel Sant'Anna. Non ho mai valutato di restare nel professionismo, come dirigente o allenatore in qualche club o settore giovanile, perché quello non mi avrebbe permesso di giocare la domenica».

 

Il fatto che ora sia un giocatore di Seconda Categoria non toglie che lui viva quell'impegno con la stessa forma mentis con cui ha vissuto la carriera da professionista. «Dopo l'esperienza in Cina, ho voluto avvicinarmi a casa». Aveva solo 35 anni, un'età in cui molti professionisti con un'importante carriera di Serie A e con 25 presenze in Nazionale, sono ancora nei massimi campionati.

 


Tommasi accorcia la marcatura su Radovanovic. L'amichevole estiva tra Chievo e Sant’Anna è un'immancabile tradizione del calendario precampionato dei gialloblu.


 

L'ultima esperienza da professionista di Tommasi è la prima in assoluto di un calciatore italiano in Cina. Vive a Tianjin, da febbraio a ottobre del 2009. La città è il polo di riferimento per l'industria tecnologica della Repubblica Popolare e lui ha sempre detto di aver accettato quella meta per fare un'esperienza di vita e per farla fare ai propri figli.

 

Nel 2011 Tommasi viene eletto Presidente di Assocalciatori, dopo un lavoro di convincimento da parte dell'attuale vicepresidente Sergio Campana durato anni. «Sapeva che avrei voluto organizzare la mia vita restando a vivere nel veronese e la sede AIC è a Vicenza, a un'ora d'auto».

 

Le ragioni a supporto della sua nomina non erano però solo geografiche. «Era un momento complesso e probabilmente era il tempo per affrontare un ricambio generazionale ai vertici di AIC. C'era ad esempio aperta la questione del rinnovo dell'accordo collettivo con la Lega di A e molti giocatori non si sentivano abbastanza rappresentati».

 

Il malcontento aveva anche portato alla nascita di una nuova sigla sindacale e Tommasi rappresentava la svolta, la guida che i giocatori potevano sentire vicina dato che aveva da poco abbandonato la Serie A. «Va dato atto a Sergio e agli altri fondatori di aver creato un ente forte e longevo. Andranno ringraziati sempre. Avevamo però capito che era necessario stabilire un nuovo tipo di rapporto con i calciatori. Di entrare in modo diverso nei loro spogliatoi». Così Campana si dimise da presidente prima della fine di quel mandato e subentrò lui.

 

Il valore di guida che altri gli attribuivano, tuttavia era molto meno certo per lui. «Avevo accettato a due condizioni. Che l'anno e mezzo che mancava alle successive elezioni fosse un periodo di prova per capire se fossi in grado di affrontare quel ruolo; e poi che venisse introdotto il limite dei tre mandati».

 

Il rinnovo dell'accordo collettivo non era l'unica grana con cui l'attualità gli aveva dato il benvenuto. «Poco dopo il mio insediamento era scoppiato anche il calcioscommesse. Un primo momento in estate, un secondo ad inizio 2012». Una prova del fuoco superata, ma non senza errori, dice. «Se c'è un comune denominatore tra il me giocatore e il me dirigente, credo sia l'imperfezione. La probabilità di commettere errori. Dall'altra parte c'è anche l'abnegazione a fare in modo che quegli errori non ricapitino. Da me potevi aspettarti che sbagliassi un passaggio, e che dopo averlo sbagliato facessi di tutto per rimediare. Alla scrivania credo di essere lo stesso».

 

Gli errori da dirigente li attribuisce ad una sua scarsa propensione alla politica, così come alla sua mancanza di un'esperienza da dirigente calcistico prima di assumere questo incarico. «Lo sciopero, ad esempio, io lo considero un fallimento della diplomazia. Nel settembre del 2011, senza l'accordo collettivo, avevamo scelto quella strada ritardando l'inizio del

di una settimana. Peccato non aver raggiunto l'accordo prima e attraverso altri strumenti meno drastici. Assomiglia a quando dico ai miei figli che se si correggono solo perché li metto in punizione mi fanno credere che quello sia l'unico modo per ottenere qualcosa da loro. E se davvero così fosse sarebbe brutto».

 

Tommasi mi presenta le donne e gli uomini che assieme a lui gestiscono AIC. In ogni loro ufficio, alle pareti, sono appese le maglie che alcuni associati hanno voluto regalare loro. Ce n'è una della Juve con il 9 di Higuain, una rossonera di Gattuso, una di Baggio in azzurro Brescia. Tommasi mi ha descritto la sensazione di spaesamento iniziale, appena arrivato alla guida dei calciatori, come se fosse appena entrato in una casa abitata da altri da tanti anni.

 

«Chi c'era prima sapeva dove era quel foglio e sapeva quando e perché lo aveva messo lì. Iniziare a cambiare le cose è stato come mettersi a spostare quadri appesi da decenni. Lo togli e ti accorgi che la sua assenza lascia un alone più chiaro sul muro. Il quadro lo puoi spostare, ma devi mettere in conto che spostandolo poi dovrai anche ritinteggiare. C'era da iniziare a cambiare metodi e organizzazioni che non erano mai state cambiate prima».

 

È sempre difficile superare lo stereotipo del calciatore privilegiato e comprendere che la gran parte della categoria deve fronteggiare criticità legate alla propria professione. Una carriera breve; l'obbligo di doversi reinventare una nuova vita alla soglia dei 40 anni senza avere competenze che non siano giocare a calcio; nella quasi totalità dei casi, un reddito che terminata la carriera non li può far vivere di rendita. «Lo stereotipo è la proiezione dei sogni di molte persone. La loro idealizzazione del ruolo di calciatore. La realtà è diversa. Ci sono situazioni anche estreme come quella della la Pro Piacenza, con un'intera rosa costretta a licenziarsi. O quella del Matera, dove i giocatori non prendono lo stipendio da mesi».

 

Lo stereotipo dimentica tutti quei professionisti che vivono vite molto normali, molto lontane da quei sogni. Per questo non è sempre facile far passare la necessità di un sindacato per calciatori. «Nel 1968, quando AIC è nata, in quel contesto sociale e storico di un paese molto politicizzato, era più naturale concepire il senso di una rappresentanza. L'appartenenza a una categoria. Ora, fortunatamente, il clima generale è meno incandescente di allora. Ma senza dubbio significa che dobbiamo essere più bravi di allora a spiegare perché il nostro lavoro è importante dentro e fuori la categoria».

 





 

Tra le funzioni di un sindacato per i calciatori c’è anche la tutela da situazioni che mettono a rischio l'incolumità stessa dell'atleta. Momenti come quello dei giocatori del Genoa che nell’aprile del 2012 sono stati “costretti” dalla loro curva a “restituire” le maglie perché considerati indegni di indossarle. O quello di Hamsik in udienza dal capo ultras napoletano per sapere se avrebbe “permesso” o no l'inizio della finale di Coppa Italia del 2014. Mentre parlo, Tommasi si alza dalla sedia e si mette a girare per l'ufficio. «Ti ascolto, eh. Sto solo cercando una cosa». Guarda tra una pila di documenti, poi dentro ad un armadio. Alla fine la trova. Mi porge un libretto. Il titolo è “

”.

 

Nel report ci sono le date e i luoghi degli episodi ai danni di calciatori: cori razzisti, lancio di oggetti, aggressioni verbali, aggressioni fisiche, minacce telefoniche. L'elenco è lungo e la geografia dei fatti molto vasta. Forlì, Paternò, Pisa, Bergamo, San Benedetto del Tronto, Varese e molti altri. «Il problema è sempre attuale e deve essere sotto gli occhi di tutti. Questo report nasce con l'intento di informare. Di far capire cosa accade e cosa AIC sta facendo. Siamo impegnati per favorire l'introduzione di nuove norme e per offrire supporto agli associati vittime di questi eventi. Esiste un enorme sommerso di episodi che non vengono denunciati per timore di un escalation di violenza. Non è facile per un calciatore accusare gruppi di tifosi che sanno quali orari fai, qual è la tua auto, dove vivi con la tua famiglia». Il senso di un sindacato per calciatori è anche in questo impegno.

 



Quando ho incontrato Tommasi erano passati pochi giorni dalla sua partecipazione a una riunione voluta da Matteo Salvini al Viminale. Un tavolo di lavoro per affrontare il tema della sicurezza dentro e fuori dagli stadi, dodici giorni dopo i cori razzisti e gli scontri tra ultras di Inter e Napoli del 26 dicembre. Tommasi mi dice che «non c'è la volontà di risolvere il problema». «È evidente».

 

«C'erano i rappresentanti di Governo, forze dell'ordine, allenatori, giornalisti, club, dirigenti, noi calciatori, arbitri, allenatori. Un'occasione enorme per imboccare un sentiero nuovo. Mancava però tutto il resto». Sceglie la metafora del cartellino rosso per spiegarmi come la veda lui. «Se uno dei 22 in campo fa un fallo da dietro viene espulso, giusto? Il cartellino rosso arriva per tre ragioni. Perché c'è certezza su cosa sia permesso e non sia permesso fare; perché c'è certezza sulle misure da prendere in caso di trasgressione delle regole; perché c'è certezza su chi abbia il potere e dovere di punire la trasgressione».

 

Non solo questo. L'espulsione per lui ha un effetto deterrente per il futuro ma al tempo stesso un effetto pacificatore per l'immediato. «Tutti condividono la regola, perché tutti credono sia una tutela a stare meglio. L'idea di fondo è che i 21 rimasti in campo stiano meglio se tra loro non c'è più chi è stato scorretto. Bene, e il calcio italiano è disposto a giocare con qualcuno in meno? A mandare fuori chi trasgredisce? A me sembra di no».

 





 

La delusione di Tommasi è arrivata già nei primi momenti della riunione. «Ho detto che almeno a quel tavolo dovevamo tutti condividere un'idea comune. Almeno per noi doveva essere certo che un coro razzista sia una cosa gravissima e non uno sfottò. Purtroppo quella condivisione è mancata».

 

I discorsi di Tommasi non sono mai confinati alla condizione del calciatore e nemmeno a quella del nostro paese. Inserisce ogni sua visione in un contesto più ampio, che supera i confini dello sport e dell'Italia. «Mi ha colpito sentire Ancelotti parlare in quel modo a fine partita. Lui ha lavorato e vissuto all'estero per anni. Probabilmente non era più abituato a situazioni come quelle che respiriamo spesso qui. Significa che non stiamo progredendo».

 

Un altro riferimento straniero è quello della

nella metà degli anni 80. «Sul tema della sicurezza ci riempiamo sempre tutti la bocca di

e di

. Loro l'hanno fatto dopo l'enorme trauma di Hillsborough. Evidentemente noi non abbiamo sofferto abbastanza traumi per voler davvero cambiare le cose. La nostra sensibilità al momento non è così allarmata. Dico questo perché, lo ripeto, purtroppo non vedo la volontà di risolvere il problema alla radice».

 

Il vertice al Viminale è solo uno dei molti momenti in cui il lavoro di Tommasi diventa meno sportivo e più politico. Inevitabile che il suo incarico debba seguire l'attualità del calcio, altrettanto inevitabile che sia influenzato anche dall'attualità oltre il calcio. Come nella gestione del tema del

, ritornello elettorale di una parte dell'attuale Governo. Uno slogan che ritorna a ogni fallimento, o anche solo sconfitta, della Nazionale per spiegare che la ragione sono i troppi stranieri nel nostro massimo campionato. Non una questione banale per Assocalciatori, che tutela tutti i giocatori professionisti sotto contratto in Italia, dunque anche stranieri.

 

«La prima cosa da chiarire è proprio questa. Noi siamo l'Associazione Italiana Calciatori e non dei calciatori italiani. Detto questo io faccio anche parte del Consiglio Federale e naturalmente il tema della valorizzazione dei calciatori italiani è un aspetto molto serio». Parla dello spauracchio dell'invasione di calciatori stranieri spiegandomi che, dati alla mano, dal dopo Bosman l'impennata statistica più importante è stata quella dell'emigrazione di italiani verso altri campionati e non viceversa. Per lui il problema non sono gli stranieri; il problema sono le scelte sbagliate o mancate della classe dirigente del calcio italiano.

 

«Esistono delle contraddizioni normative di fondo che ostacolano la valorizzazione dei nostri giovani. Pensa alla regola dei giovani obbligatori in campo in Serie D, Eccellenza e Promozione. Causa ogni anno una discesa verso il basso dei giovani migliori. Piuttosto che formare i propri giovani, le società preferiscono prenderli dalle categorie superiori perché possono offrire maggiori garanzie in campo. Così, purtroppo, invece che salire di categoria la soluzione più semplice per un giovane forte diventa scendere. Un paradosso».

 

Lo schema del

applicato anche al calcio non tiene in realtà conto di due ragioni meno nobili che spesso motivano la preferenza all'acquisto di uno straniero. «Per acquistare dall'estero non è necessario depositare una fideiussione alla Camera di Compensazione della FIGC, obbligatoria invece per acquisti Italia su Italia. Si fidano meno gli italiani degli italiani, che non gli stranieri degli italiani». L'altro motivo che spesso fa preferire l'acquisto di un giocatore straniero è che permette di portare capitali all'estero, «permettendo a molti di fare affari che sarebbe meglio approfondire di più».

 

La distorsione della realtà provocata dal

ha anche l'effetto di togliere la prospettiva di una maglia azzurra ad un grande numero di giovani. «Sono sempre di più i ragazzi che parlano i nostri dialetti, che sono nati in Italia, ma non possono diventare patrimonio del nostro calcio solo perché hanno genitori stranieri. Diventano italiani a 18 anni, quando le nazionali dei paesi d'origine dei genitori se li sono già assicurati. La Germania, ad esempio, ha fatto un'altra scelta. Ha costruito i recenti successi della

su un meccanismo esattamente opposto valorizzando molti “nuovi” tedeschi».

 



La realtà socio-culturale è qualcosa di magmatico, pervasivo. Oltre al tema del razzismo, degli episodi criminosi, ne esistono altri meno eclatanti ma alla lunga dannosi su altri piani. Cortocircuiti stantii che non lasciano progredire né il sistema calcio né la cultura sportiva del pubblico che lo guarda.

 

«Da bambini il sogno di fare il calciatore assomiglia al sogno di fare l'astronauta. Con una differenza sostanziale però: fare l'astronauta è un progetto che viene abbandonato presto dato che in pochi sono in grado di affrontare un percorso di studi indirizzato a quello. Fare il calciatore invece è un traguardo che tutti hanno tentato di tagliare». Giocare a calcio secondo lui è qualcosa di talmente diffuso e bello che spesso si commette l'errore di considerare troppo breve la distanza tra saper calciare un pallone ed essere in grado di giocarlo ad alti livelli.

 

«Quante volte si sente dire la battuta “quello lo segnavo anch'io”? Una battuta, per carità. Eppure nasconde l'idea che tutto sommato non è così difficile essere lì. Invece la risposta è “No, tu non avresti potuto segnarlo” perché non eri in campo, non eri in panchina, probabilmente non ti sei mai nemmeno lontanamente avvicinato a quel livello sportivo».

 

«Senza pensare per forza al livello più alto, il discorso vale anche per un atleta che passa tutta la sua carriera in LegaPro. Per riuscirci serve talento e serve aver avuto abbastanza costanza per averlo fatto fruttare. Serve andare a dormire a 15 anni il sabato sera alle 21.30 e magari farlo nella stanza di un convitto a 300 chilometri dalla famiglia e dagli amici». Nelle parole di Tommasi c'è l'orgoglio di rappresentare una categoria a cui vuole bene, ma mai la presunzione di essere una categoria migliore delle altre. Semplicemente gli preme far passare ciò che spesso non passa.

 



Dopo l'intervista siamo andati a pranzo assieme. Con noi c'erano anche i ragazzi AIC che avevo già conosciuto al

. Tra i vari discorsi usciti a tavola ci sono stati anche i molti esempi di giocatori che da giovani sembravano avere un avvenire sicuro e che invece poi non si sono confermati.

 

«Molte delle volte sono storie in cui, se vai a scavare, scopri che il ragazzo è stato vittima dei sogni di grandezza del padre. Il genitore che esaspera l'autostima del figlio. Se io padre pensassi di avere in casa il nuovo Cannavaro sbaglierei per il semplice fatto che è un po' come puntare tutto sulla certezza di vincere il Superenalotto. Magari succede, ma se ti dimentichi quanto è improbabile che accada ti infili in una situazione difficile».

 

I settori giovanili sono un luogo in cui Tommasi è convinto si debba lavorare diversamente. «Mio fratello è vice-preside in un Liceo Sportivo e spesso ne parliamo assieme. Una scuola di quel tipo, così come un settore giovanile, dovrebbero avere come primo obiettivo quello di insegnare una mentalità sportiva e di insegnare ad applicarla ad ogni ambito della vita. L'obiettivo dovrebbe sempre essere trasmettere l'importanza del gruppo, far capire che se vuoi giocare bene devi allenarti bene, che se vuoi ottenere qualcosa lo devi fare preparandoti e non improvvisando. Non certo cercare il campione e ritenere dei fallimenti i ragazzi che non lo diventeranno». Racconta di un ragazzo non ancora maggiorenne che gli ha confessato la sua concezione del calcio: «Mi ha detto che oggi non è più uno sport. Oggi è un'opportunità».



«Credo che il racconto di noi, di ogni singolo giocatore, sia fondamentale per ridurre la distanza con il pubblico. Dietro alle figurine ci sono delle menti pensanti e c'è molto da fare ancora per farlo passare». Gli ostacoli sono a volte le domande scontate di un giornalista che non possono che far uscire una voce banale, altre volte le resistenze degli stessi giocatori ad aprirsi di più e Tommasi lo ammette. «Dico sempre a tutti di spendersi nel far passare la propria storia, il proprio percorso. Di esporsi di più. Raccontare che studiano mentre giocano o che hanno interessanti progetti extra calcio. Poi mi rendo anche conto che non posso forzare nessuno e che sta alla sensibilità di ognuno».



Mi racconta di Batistuta e della sua riservatezza. Lo accusavano di non amare il calcio perché non amava molto parlarne fuori dal campo. A Maldini, per certi versi, accadde una cosa analoga. Fu vittima della contestazione di una parte della sua curva per la sua storica allergia a rendere conto del suo lavoro a gruppi di tifo organizzato in momenti di contestazione. «Atleti e tifosi sono due facce della stessa medaglia. Ragionano in modo differente e spesso sono lontani. Trovo però che sia giusto provare a capirsi, lavorare per fare in modo che l'uno capisca di più l'approccio al calcio dell'altro».









Le storie personali vanno comunque al di là del confronto con i tifosi riguardo ad aspetti tecnici. «Inevitabilmente un personaggio del calcio ha un potere comunicativo molto forte. Vialli con la sua capigliatura aveva sdoganato quello che per molti poteva essere il problema della perdita dei capelli. E più recentemente ha anche parlato della sua malattia magari aiutando, almeno in parte, molte persone nella stessa condizione».

 

Gli chiedo se lo stesso valga per l'omofobia. «Se un calciatore si sentisse a disagio a causa del suo orientamento sessuale, sono convinto che AIC sarebbe uno strumento efficace per aiutarlo, e ci spenderemmo tutti per questo. Dall'altra parte però ci dobbiamo chiedere se quella persona abbia il desiderio di rendere pubblica una cosa privata, perché se così non fosse non avrebbe senso forzarla ad esporsi. In nessun ambito lavorativo viene chiesto di dichiarare se si sia etero o gay, ma dai calciatori si pretendono sempre gesti e segnali che ad altri non verrebbero mai chiesti».



Uno dei soprannomi di Tommasi è stato “anima candida”. «Ho anche avuto etichette indirizzate alla mia fede, al fatto che abbia raccontato che da bambino facevo il chierichetto. Questo è un mondo di etichette, ma a me non hanno mai pesato, me ne sono sempre abbastanza fregato. Mi ha sempre però dato fastidio che quelle definizioni di calciatore con bei pensieri sottintendessero che invece tutto il resto dei miei colleghi erano dei beceri analfabeti. Perché non è mai stato così».



Un’etichetta che è tornata anche nei suoi anni da Presidente. «Primo, non faccio tutto da solo. Secondo, non faccio solo cose belle. Terzo, le cose belle non sono l'unico a farle». Dice che lo infastidisce la parola “buonista”, che non vede perché ultimamente vada di moda accusare chi fa qualcosa di buono di farlo per un tornaconto. «Da Presidente, ad esempio, ho scelto di dare molta più visibilità alla nazionale amputati. L'ho fatto perché mi sembra che possa aiutare le persone con quelle specificità e perché il calcio è molte altre cose oltre ai top player. Voglio che venga raccontato anche quel pezzo del calcio. E lo voglio fare perché è giusto farlo, non perché sono buono».



Quando chiudo l’intervista mi rimane la sensazione che le sue parole abbiano confermato l'idea che avevo, e che probabilmente hanno tutti, di Damiano Tommasi.

 

Nessuna sorpresa.

 

Non sembra esserci nessuna crepa tra il personaggio pubblico e la persona.

 

Un'ostinata coerenza ad essere ciò che si sente di essere, a non risparmiarsi troppo, che crea una connessione invisibile ma potentissima tra il calciatore e il dirigente.

 

 

 

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