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Diego Guido
Come vive un calciatore senza squadra
23 ago 2018
23 ago 2018
Siamo entrati a Coverciano, ospiti del ritiro precampionato che Assocalciatori organizza per i professionisti rimasti senza contratto.
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Diego Guido
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Di fronte alla sbarra del Centro Tecnico Federale di Coverciano, seduto sul sedile posteriore di un taxi, non faccio in tempo ad avvertire una piccola dose d'emozione quando sento qualcuno dire: «Prego lo accompagni». La voce dell'uomo della sicurezza, uscito dalla guardiola per dare l'ok al tassista, mi ha sorpreso con la maniglia della portiera già in pugno. Poi l'auto ha superato l'ingresso, ha compiuto un'ampia curva verso sinistra costeggiando lo stesso auditorium che pochi mesi fa è stato silenzioso ospite della triste veglia per Davide Astori, e mi ha depositato di fronte all'ingresso. Dentro mi aspettava Nicola Bosio, responsabile area comunicazione di AIC, l'Associazione Italiana Calciatori, per mostrarmi cosa sia il ritiro precampionato per gli svincolati.





Prima di iniziare con l'intervista vera e propria, però, mi sembra doveroso riportare qualche dettaglio sulla realtà di Assocalciatori. Niente che non possa trovare chiunque facendo qualche ricerca, ma è una sintetica panoramica a portata di mano.

 

Per tradurre l'essenza di AIC su schemi più affini alla gran parte degli scenari professionali, la si può semplificare nella definizione di “sindacato dei calciatori professionisti e dilettanti che siano sotto contratto con società italiane”. La data di nascita è il 3 luglio 1968. Nello studio notarile Barassi, nel centro di una Milano assolata, l'Associazione viene fondata da un ex calciatore del Vicenza. Ha 34 anni, e nonostante abbia smesso di giocare solo dodici mesi prima ha già una laurea in Giurisprudenza. Si chiama Sergio Campana. Assieme a lui firmano l'atto costitutivo gigantesche icone del calcio di allora tra cui Mazzola e Rivera. Campana sceglie la sua Vicenza come sede. In parte perché lui vive a Bassano del Grappa e in parte perché vuole sfuggire alle logiche milanesi e romane. Pensa che stare in disparte giovi ad una certa autonomia di pensiero e di azione. Damiano Tommasi, che gli è succeduto nel 2011, per ora sembra pensarla allo stesso modo.

 

Nel nostro paese non esistono altre sigle con funzioni analoghe ad AIC e i giocatori non associati si contano sulle dita di una mano. Spiegare l'impegno di un sindacato a tutela dei calciatori forse è un punto persino prematuro. Prima, probabilmente, serve spiegare il senso stesso della sua esistenza. Sul serio i calciatori ne hanno bisogno?

 

In Italia i professionisti sono circa 2600 e solo poche decine di loro percepiscono contratti milionari per i dieci-quindici anni della loro carriera. Il resto sono persone che attorno ai 35 anni, quando chiunque altro vede consolidarsi le proprie prospettive lavorative, diventano degli ex. Non possono più fare il lavoro che hanno fatto fino a quel momento e, nonostante negli anni precedenti abbiano percepito - chi più e chi meno - ottimi stipendi mensili, non possono certo vivere di rendita. Devono così reinventarsi una seconda vita. Alcuni ce la fanno, altri trovano notevoli difficoltà. Lontano da ipocrisie vittimistiche, è semplicemente corretto andare oltre le etichette e capire che un'entità come AIC esiste per affrontare questioni reali. Questioni non più gravi di quelle di altre categorie, ci mancherebbe, ma non per questo inesistenti.

 

La gestione del post-carriera e la tutela lavorativa dei propri assistiti sono i due principali iniettori del motore che muove il progetto CPP, Centro Preparazione Precampionato, più comunemente detto

. Esiste dal 1987 - con sede a Coverciano dal 1998 - e in nessun altro paese al mondo un giocatore senza contratto può usufruire di un progetto come questo.

 



Aspetto Nicola Bosio al bar di Coverciano. Una grande vetrata si affaccia sul campo 3, il terreno principale del Centro, quello adiacente agli spogliatoi con l'inequivocabile targa “Spogliatoi Nazionale A”. Mi guardo attorno sorseggiando un caffè. Ci sono una decina di tavolini chiari circondati da poltroncine bianche. Oltre a me, al bar ci sono altre due persone in completo AIC, che di lì a poco scoprirò essere tecnici della scuola federale per allenatori. Guardano un portatile e discutono di un'esercitazione tattica per l'uscita palla al piede da situazioni di pressione sugli esterni. Parlano di passaggi diagonali, di analogie con una giocata tipica del basket. A troneggiare sopra di loro, distesa lungo i dieci metri della parete più lunga della sala, è appesa una gigantografia della notte di Berlino del 2006. L'hanno suddivisa in cinque grandi stampe consecutive. La stampa centrale è tutta occupata da un Fabio Cannavaro grandezza naturale nell'istante in cui solleva la Coppa del Mondo; le altre quattro fotografano simmetricamente la scena alla sua destra e alla sua sinistra.

 

Nicola arriva mentre sono immerso nelle immagini che passano in loop sopra un sessanta pollici appeso alla parete più piccola. Il gol di Rivera di Italia-Germania 4 a 3, le immagini del Mundial '82, Pasadena '94, il gol di Del Piero contro il Messico nel girone, in Giappone e Corea. Sono arrivato alla parabola di Pirlo contro il Ghana nel 2006, che mi sento chiamare.

 


Coverciano. Foto di Claudio Villa / Getty Images.


 

Sono le 11.45 e alle 12.30 è previsto il pranzo. Per fare un tour completo del Centro abbiamo 45 minuti di tempo, non uno di più. «Qui viaggiamo organizzati al minuto. La giornata è densa di impegni e gli orari sono molto fiscali. Esattamente come accade nei ritiri

». Il parallelo tra questo ritiro ed un ritiro di club è una costante di ogni discorso che ho ascoltato nel corso della giornata. Tutto è organizzato con la stessa meticolosità e professionalità con cui si organizza un ritiro di Serie A. «Vogliamo fare in modo che dimentichino di essere dei disoccupati, che allontanino la negatività. Devono essere assistiti e torchiati come lo sarebbero in un ritiro di club. Senza dimenticare che se vogliono un nuovo contratto, devono farsi trovare davvero pronti anche fisicamente da chi potrebbe avere intenzione di ingaggiarli».

 

Mentre usciamo dal bar e passiamo tra ombrelloni e tavolini del dehor con vista sul campo 3, Nicola mi elenca la scaletta delle giornate di ritiro. «Sveglia alle 7.15, colazione alle 7.30. Dalle 8.00 alle 10.00 la prima seduta d'allenamento. Dalle 10.30 alle 12.30 aula. Poi il pranzo e di nuovo aula dalle 14.30 alle 17.30. Alle 18 iniziano le due ore del secondo allenamento, poi cena e dalle 21.15 alle 22.15 l'ultima lezione in aula. Alle 23.00 il coprifuoco ma ti assicuro che non servirebbe nemmeno perché a quell'ora arrivano distrutti». Mi spiega che le ore di lezioni sono propedeutiche al conseguimento del patentino da allenatori Uefa B. «Il corso classico prevede sei settimane, qui lo possono fare in 3 e completamente pagato. Una bella opportunità per loro».



L'edizione 2018 del ritiro è la numero trentuno organizzata da Assocalciatori e la ventesima organizzata a Coverciano. Quest'anno i giocatori presenti sono sessantasei. «Fanno a gara per venire qui. Molti di loro, quelli che non hanno mai giocato a livelli importanti, ci dicono di non essere mai stati trattati così bene in tutta la carriera. Completi Nike, servizio lavanderia due volte al giorno, un numeroso staff di medici, fisioterapisti, allenatori e preparatori. E poi gli standard e il fascino di Coverciano. Per molti di loro è un'esperienza unica». Nicola mi spiega che ad ogni primavera l'Associazione invia a tutti gli associati la comunicazione che ufficializza le date del ritiro e le modalità con cui fare richiesta d'ingresso. «Purtroppo è a numero chiuso. Coverciano ha posti limitati e un ritiro più esteso faticherebbe a garantire a tutti di essere seguiti in un certo modo». Entrano i primi di una graduatoria formulata sulla base di meriti sportivi e anni di professionismo. «Ma difficilmente restano fuori coloro che ne hanno diritto».

 



Il calciatore più titolato di tutto il ritiro è Marius Stankevičius. Classe 1981, lituano, ultima stagione al Crema in serie D. Dopo i molti anni al Brescia e una breve parentesi alla Sampdoria, ha giocato nel Siviglia e vinto in andalusia la Copa del Rey. Era il 2010. In carriera ha giocato anche in Bundesliga e Süper Lig, oltre ad aver vinto anche la Coppa Italia nel 2013 con la maglia della Lazio.

 

«Ti spiego. Voglio scrivere un articolo su questo ritiro. Vorrei farti delle domande che vanno un po' più in profondo per capire come lo stai vivendo e cosa ne pensi». «Certo. Va bene. È anche più bello così, no? Perché tante volte ci fanno delle domande un po' banali. Se in cento ti fanno cento domande uguali, come fai a dare risposte interessanti? Va bene, ok. Chiedimi pure». La mia intervista a Stankevičius inizia così. Si prepara alle mie domande seduto su un divano della hall, i gomiti appoggiati sopra le ginocchia larghe e le mani giunte.

 

La sua concezione del lavoro, e dunque del calcio, è inscindibile dalla sua concezione della vita. «Non è la prima volta che resto senza contratto. So che l'unica cosa che posso fare è lavorare su di me. Non possiamo cambiare quello che ci accade attorno, possiamo solo fare di tutto per cambiare ciò che siamo noi». La conversazione assume molto presto una certa aura filosofica del tutto inaspettata. «Troppo spesso cerchiamo colpe e giustificazioni altrove invece che in noi stessi. Ma non ci accorgiamo che mentre puntiamo l'indice contro qualcuno o qualcosa, tutte le altre dita della mano sono rivolte verso di noi». Mi racconta che non era mai stato al ritiro AIC e che le altre estati da svincolato si era allenato da solo, in attesa di una chiamata. Era accaduto anche prima di andare a Cordoba, in Segunda División spagnola. Gli chiedo se col senno di poi non sarebbe stato meglio passare da Coverciano anche allora. «Questo ritiro è una cosa

. Impari cose che ti fanno dire “cavolo! Se avessi saputo prima che quell'esercitazione aveva quell'obiettivo l'avrei fatta con tutto un altro spirito, più consapevole”. Ma forse non ero venuto per mancanza di coraggio o per pigrizia. O magari non era il momento».

 

Non è tipo da pensare troppo a cosa è stato e cosa sarà. «Non importa che non sia venuto prima. Io credo che non esista né ieri né domani, esiste solo oggi. Oggi possiamo decidere come cambiare. E oggi sono strafelice di essere qui. Si impara tanto, si conoscono nuove persone e nuove cose. E questo è bellissimo. Se non siamo curiosi di sapere di più allora non siamo vivi». Non ha dubbi sul fatto che il ritiro sia una cosa preziosa. «Hai visto prima, a pranzo, quante facce sorridenti? Eppure ci conosciamo da due settimane. Vuol dire che c'è un clima costruttivo. Facciamo fatica con il sorriso e in realtà non è nemmeno una fatica questa, è piacere. Devo solo ringraziare chi organizza e chi lavora a questo ritiro. C'è un'energia molto forte».

 

Ha appena compito 37 anni e fisicamente è un fascio di nervi delle dimensioni di un armadio. Crede che l'età sia un fattore molto relativo nella valutazione di un calciatore e che tutto parta sempre e solo dalla mente. «Penso sempre che finché stai bene devi giocare. Però ora voglio conoscere anche tutto il resto. Mi piace studiare da allenatore perché domani non sai cosa può capitare. Magari non ci siamo nemmeno, domani. Nel mio paese c'è un detto: mentre noi facciamo programmi, Dio si mette a ridere».

 

La diretta conseguenza di questa attenzione unicamente investita sulla totale valorizzazione del presente è la sua incuranza per le eventuali offerte di contratto che dovessero arrivare mentre è a Coverciano. «Ora voglio concentrarmi sul lavoro con questo gruppo e sulle lezioni. Alle offerte ci penserò quando questo ritiro sarà finito». Stimolato dal suo punto di vista sorprendentemente ontologico gli chiedo cosa si consideri ora che non ha una reale occupazione. Un calciatore? Un ex? Un futuro allenatore? «Hai ragione, non c'è una firma che dice che io faccio quella cosa e non ho uno stipendio. Ma non mi importa. Io so molto bene chi sono. E so che in questo momento sto investendo tempo su me stesso. Cosa c'è di più prezioso di questo?». Mi saluta con una generosa pacca sulla spalla e si avvia con gli altri verso l'aula. Sta per iniziare la prima lezione del pomeriggio.

 



Prima di arrivare mi immaginavo di trovare giocatori unicamente concentrati sull'obiettivo di ottenere un nuovo ingaggio, di continuare a giocare. Ma una volta lì, ho avuto la riprova che la realtà è sempre più complessa di come appare da fuori. «Il loro obiettivo è quello, senza dubbio. Certo sono in un momento in cui si rendono perfettamente conto del fatto che la loro carriera sta per finire oppure che può vivere incognite non da poco, come l'improvvisa mancanza di un contratto. Il corso allenatori li aiuta a iniziare un possibile percorso, o anche solo a capire se è un percorso che fa per loro». Me lo racconta Nicola in una pausa tra le mie interviste. E aggiunge che diversi allenatori hanno compiuto il primo passo verso la carriera in panchina, proprio in questo ritiro, grazie al corso svolto mentre erano svincolati. Tra di loro Di Carlo, Iachini e persino Allegri.

 

Chiedo di poter assistere ad una lezione del corso. Mi siedo per ascoltare assieme al gruppo dei sessantasei l'ora di psicopedagogia. Alle pareti dell'aula magna, sei grandi collage due metri per due ritraggono altri volti di personaggi che hanno lasciato il segno sulle vittorie azzurre. Ci sono i baffi di Bergomi e la pipa di Bearzot. Una fila più sotto di me riconosco Donadel, quella più in basso Pelizzoli. Spostato sul lato opposto dell'aula c'è anche Cacia. L'attaccante che ha segnato più gol nella storia della serie B, è anche lui qui, senza contratto, dopo che il “suo” Cesena è fallito.

 

La professoressa è Isabella Croce. Non avrà più di quarant'anni e porta un caschetto biondo cenere. Parla alla platea passeggiando avanti e indietro, con la sicurezza di chi conosce bene quel posto. Fa parte del corpo docenti della scuola federale e la sua materia, con alcune varianti del programma, è parte integrante anche dei corsi Uefa A e Uefa Pro. Ogni allenatore italiano che abbia conseguito il patentino negli ultimi dieci o quindici anni, l'ha ascoltata mentre diceva cose come «mi raccomando, non sbagliate nelle interviste: se dite che la vostra squadra non ha avuto personalità dite una stupidaggine. Tutti abbiamo una personalità. Dovete però spiegare al gruppo, e al singolo, perché quegli aspetti della loro personalità non sono utili al raggiungimento dei loro obiettivi». Si alzano molte mani. Le domande portano esempi concreti di esperienze vissute nello spogliatoio, oppure assomigliano a richieste d'aiuto, del tipo «lei sta dicendo che se saremo allenatori dovremo essere anche psicologi. Ma siamo sicuri di esserne in grado?». Lei risponde rimbalzando tra biologia del cervello umano, psicanalisi e casi empirici. «Non ponetevi mai come quelli che hanno la verità in tasca. Fate attenzione ai differenti temperamenti dei vostri giocatori: alcuni richiederanno discorsi più approfonditi, ad altri basteranno poche chiare parole».

 

Dopo la lezione, scambio qualche parola con Francesco Romeo, uno degli uomini AIC presenti in ritiro. Gli dico dell'atmosfera partecipata che ho visto in aula e lui mi spiega che non è un aspetto così scontato. «Ormai i professionisti con un diploma superano il 90% ma è capitato che qualcuno negli anni ci abbia confidato che non studiava sopra ad un libro dai tempi delle medie. Diplomati o no, resta il fatto che la fatica mentale, lo sforzo di apprendere concetti teorici, è una cosa a cui non sono abituati. Non è banale. Anche per questo sono tre settimane molto intense».

 



Tra le tante cose che non mi erano così chiare fino a prima di arrivare a Coverciano c'era anche l'importanza della stretta collaborazione tra la categoria dei calciatori, la FIGC e l'AIAC, l'associazione degli allenatori. Nicola me lo ha spiegato già ad inizio giornata «Per quanto ci possano essere divergenze, tutti e tre sappiamo di avere bisogno gli uni degli altri». Immagino non sia stato semplice organizzare la presenza di allenatori AIAC al ritiro dell'estate scorsa, dopo le frizioni uscite su tutti i giornali tra Tommasi e Ulivieri, i due presidenti, nelle settimane tribolate delle elezioni per la poltrona a capo della FIGC. «La politica è un'altra cosa. Quelle sono questioni che restano del tutto slegate dalla gestione delle collaborazioni operative. Anche l'anno scorso, ci siamo seduti attorno al tavolo per organizzare il lavoro di questo ritiro senza mai metterlo in dubbio nemmeno per un istante».

 

Riprova di questa comunione d'intenti è quando Biagio Savarese, vicepresidente dell'Associazione Allenatori, usa le parole della moglie per spiegarmi che per lui il ritiro AIC è il momento professionale più bello di tutto l'anno: «Quando la saluto per venire qui, lei mi augura buona vacanza». Savarese è uno dei professori della scuola allenatori del settore tecnico federale, un allenatore che insegna agli allenatori. Il suo lavoro consiste nell'organizzare l'intera vita del ritiro. Stabilisce i programmi giornalieri, gli orari, seleziona i docenti a cui affidare i corsi in aula, suddivide tutti i partecipanti in tre differenti squadre. «Il primo gruppo è quello formato da chi viene da serie A e serie B. Gli altri due gruppi sostanzialmente si equivalgono. Credo sia fondamentale unire giocatori che parlino la stessa lingua calcistica. Questo dev'essere un momento utile ai loro piedi, al loro fisico e alla loro testa. Se mettessi un giocatore di D assieme ad uno di A rischierei di togliere sicurezze al primo e di non allenare a dovere il secondo».

 

Le tre squadre vengono divise solo durante il lavoro sul campo - ognuna seguita da un proprio staff composto da allenatore, preparatore dei portieri, fiosioterapisti, massaggiatori e magazzinieri - mentre convivono perfettamente mescolate in ogni altro momento delle giornate, dall'aula al pranzo. Spesso sono miste anche le camere dell'albergo interno al Centro Tecnico in cui dormono. Ogni settimana Savarese e Bosio organizzano amichevoli separate per ciascuna delle tre squadre, per non far perdere il ritmo partita ai loro ragazzi. Selezionano avversari di pari livello e organizzano le trasferte in pullman.

 

«Il nostro primo obiettivo è aiutarli. Siamo qui per questo. Sono disoccupati e sappiamo che per alcuni di loro, soprattutto per chi gioca a livelli inferiori, può essere un passaggio delicato. Ciò non vuol dire che siamo di manica larga. Le regole ci sono e sono ferree. Solitamente li accolgo io il primo giorno e gli faccio un discorso chiaro: siamo in un luogo importante che va rispettato. Chi sgarra viene mandato a casa». Quello è l'unico vero momento in cui usa il bastone, per il resto è solo carota. «Non abbiamo mai avuto problemi e mai nessuno che non abbia trovato bello e utile essere qui. Sempre e solo comportamenti esemplari».

 





 



Tra tutte le persone e gli addetti ai lavori con cui ho parlato, c'è anche Rolando Bianchi. Il suo è uno dei cinque o sei nomi per cui i giornali sportivi hanno scomodato un misero trafiletto di una pagina interna per riportare la notizia di questo ritiro. Non importa cosa si faccia qui, come si lavori, né quali vicende personali siano coinvolte. Non importa che Damiano Tommasi, presidente AIC, abbia voluto la presenza anche di una calciatrice e di due giocatori della nazionale amputati per allargare sempre più l'influenza del progetto. Importa dire che ci sono Bianchi, Cacia, Donadel, il fratello di Giovinco, punto. Ma Bianchi in che modo è lì? Con quali pensieri in mente?

 

«Inizio col dire che sono molto molto felice di esserci. Ho dormito qui e giocato su questi campi già tante altre volte da ragazzo, passando per tutte le nazionali giovanili fino all'Under 21. Il sapore del ritorno è sempre bellissimo. Proprio poco fa ne parlavo anche con Federico. Abbiamo tanti bei ricordi in questo posto». Federico è Agliardi, anche lui con un passato da portiere di serie A, anche lui qui senza nessun ingaggio. Mi dà l'imboccata per una domanda rischiosa. «Sei stato qui da ragazzino, dunque eri uno dei migliori attaccanti italiani della tua generazione. Ora invece ci torni a fine carriera senza un contratto. Non ti è passato per la testa che qualcosa sia andato storto? Che ci fossero delle aspettative che poi non sono state rispettate?». La serenità con cui mi risponde ha quel grado di sincerità che esce da un ragionamento con cui evidentemente ha già fatto i conti, uscendone a testa alta. «No, per niente. Io sono contento di quello che ho fatto, va bene così. La considero una bellissima carriera. Chi vive di rimpianti, vive male».

 

Lui e la sua carriera sono un esempio abbastanza eloquente della rapidità con cui vengono bruciati elogi e critiche. «Ma sì, ma credo che non sia una cosa di cui stupirsi più di tanto». Anche in questo caso sfugge alla mia supposizione. Non si sente vittima di quel meccanismo, anzi lo guarda dall'esterno come un inutile ottovolante di celebrazione ed oblio su cui altri hanno fatto salire un'immagine di lui a cui non sente di appartenere. Un meccanismo che non lo riguarda. «Avevo fatto molti gol alla Reggina e perfino in Europa si parlava di me. Ma guarda, io ho un padre che ha una piccola impresa ad Albano Sant'Alessandro, il paesino in provincia di Bergamo da cui vengo. Per lui io non ho mai lavorato un solo giorno in vita mia. Quindi diciamo che non ho mai rischiato di perdere il contatto con la realtà delle cose».

 

Rolando è a proprio agio. Mi sembra che si trovi bene con il mio approccio poco giornalistico. Me ne approfitto e mi spingo ad un'altra provocazione. «Perché un giocatore professionista, dopo tanti e tanti ritiri estivi e stagioni, deve venire qui per tre settimane mentre cerca squadra? Non può tenersi in forma allenandosi da solo? Conoscerà centinaia di esercitazioni e avrà il numero almeno di un paio di preparatori di alto livello che gli possano dare qualche dritta». «Potrei farlo ma non sarebbe altrettanto utile. Sono sempre stato molto maniacale nel mio lavoro. Oltre alla parte atletica, non voglio perdere l'abitudine al difensore che mi marca stretto, o al lancio sbagliato che devo comunque provare a controllare. Ci sono troppe variabili nel gioco e non voglio arrivare in una eventuale nuova squadra senza averle mantenute allenate tutte».

 

Non deve essere semplice continuare a ragionare da giocatori lavorando sul campo, e allo stesso tempo con una parte della mente pensare che forse giocatori non lo si sarà più. «Uno svincolato può essere ingaggiato fino ad aprile dell'anno prossimo, ma io mi sono dato fino alla fine di settembre, al massimo inizio ottobre. Se arrivano proposte interessanti, allora le accetto. Altrimenti basta». Mi racconta che alcune società si sono fatte avanti in questi giorni, ma che vuole ponderare per bene prima di dire sì. «Quando il Torino ha deciso di non rinnovarmi il contratto, a giugno 2013, avevo fatto una scelta affrettata accettando il Bologna. Mi ero lasciato prendere dalla smania di partire subito per un ritiro. Quell'anno però non ho reso come potevo nemmeno per una partita. Avessi aspettato una settimana in più, avrei capito che in quel momento non era la squadra giusta per me».

 

Cinque estati dopo, seduto di fronte a me, sa molto bene che esiste l'eventualità che la chiamata giusta possa non arrivare più. «Coverciano è un bivio. Si può continuare a giocare oppure prendere altre strade». La seconda opzione non lo spaventa e ha le idee piuttosto chiare sul post-carriera. «Mi piace molto l'idea dell'allenatore manager, una figura che deve avere sotto controllo ogni singolo dettaglio. Oppure il direttore sportivo. Devi saper scegliere i tuoi uomini sulla base delle caratteristiche tecniche e umane. Serve grande competenza per farlo e mi stupisce ogni volta incontrare qualche ds ti risponde che non conosce il giocatore tizio e il giocatore caio. L'ho sempre trovato assurdo». Mi lascia quando deve andare a prepararsi per il secondo allenamento, non prima di avermi detto che per eventuali altre risposte gli posso scrivere o telefonare anche nei giorni successivi. Perfetto, grazie mille.

 



«Io per loro sono un fornitore di opportunità. Devo pensare a lavorare sul presente, rispettando la loro situazione». Francesco D'Arrigo è l'allenatore a cui Savarese ha affidato il primo gruppo, la squadra con i nomi più quotati, e anche lui è un professore impegnato tutto l'anno alla cattedra nei corsi per allenatori. La domanda centrale che innesca i discorsi più significativi della mezzora che passiamo assieme è legata alla singolarità del suo incarico. Deve allenare una squadra che in realtà non sta preparando nessuna stagione e che, a tutti gli effetti una squadra non è. Gli chiedo come si affronti una missione del genere. «So bene che non posso lavorare su principi di gioco con un'ottica di medio periodo, ma i fondamenti del lavoro sono gli stessi che porterei avanti se loro fossero davvero la mia squadra».

 

Non appena gli chiedo di come compia la scelta del sistema, o dei sistemi, di gioco da applicare a calciatori che poi potrebbero essere inseriti nei più differenti contesti tattici a fine ritiro, scoperchio un vaso di pandora. «Per come la vedo io, il sistema di gioco è l'ultima cosa di cui preoccuparsi, qui come in ogni squadra. 433, 352, 4231 sono numeri che valgono solo quando hanno palla gli avversari, e forse nemmeno per quello. Il calcio è un gioco complesso e autoalimentante, non lo si può affrontare partendo dai quattro numeri del modulo. Non esistono numeri, esistono modelli di interazioni tra i giocatori in campo. Il sistema di gioco è la conseguenza naturale di tutto ciò che viene prima».

 

La sua scelta di essere un allenatore che insegna invece che allenare sul campo, l'ha fatta diversi anni fa. Trova più stimolante fare formazione che guidare una squadra sul campo, anche se la scelta è meno netta di un tempo. «Da qualche anno sento un pizzico di nostalgia della panchina e anche per questo rispondo sempre molto volentieri all'invito di AIC. Ritrovo l'odore dell'erba e per qualche mese poi sono a posto». Tenere a bada la nostalgia non è l'unica ragione che gli fa apprezzare queste settimane. «Lavorare con questi giocatori mi dà modo di sperimentare, di verificare sul campo gli aspetti teorici. È un periodo che mi serve moltissimo».

 

L'ultima domanda è sulle prospettive che intravede per i ragazzi che ogni anno segue a Coverciano. Da allenatore come riconosce un possibile futuro collega? «Valuto l'uomo e la sua cultura, e per cultura intendo prima di tutto la curiosità e la propensione ad aggiornarsi, a mettere in discussione ciò che si è fatto. In queste tre settimane cerchiamo di far partire un percorso che potrà compiersi solo se ci saranno determinate attitudini. Sono le attitudini a far esprimere le competenze».

 


Coverciano. Foto di Claudio Villa / Stringer  / Getty Images.


 



I calciatori che ho incontrato mangiano sopra gli stessi tavoli su cui mangia la Nazionale, dormono nelle stesse stanze in cui gli azzurri preparano Europei e Mondiali. Il contrasto tra il loro qui-ed-ora e i lustrini dei loro colleghi dentro le decine e decine di foto che arredano corridoi e stanze di Coverciano, è profondo. Incolmabile, direi. Avranno meno talento, certo. O meno attitudini mentali - per tornare alla lezione della professoressa Croce - per meritare quei livelli, o anche solo per non restare mai disoccupati. Sta di fatto che la realtà non è mai semplice e che le categorizzazioni sono inefficienti. Nella fascia di persone classificate come calciatori ne esistono anche di non famosi e di non ricchi. Esistono professionisti che si inorgogliscono di indossare un completo d'allenamento ed uno di rappresentanza firmati. Che si stupiscono di poter essere seguiti da uno staff tecnico, atletico e medico avanzato come quello di Coverciano. Non lo dico per pietà di loro - non la cercano e non gli servirebbe a nulla - lo dico perché il ritiro svincolati AIC è una cosa che va conosciuta e raccontata per bene.

 

Mi chiedevo che atmosfera avrei trovato. Se una situazione più incline al centro di collocamento, sotto una cappa di malinconia per gli anni migliori ormai alle spalle; oppure invece un aggregato di vecchi predatori che hanno ancora fame di prove, di misurarsi con sé stessi, con gli avversari, con le pressioni della piazza.

 

L'ultima immagine che annoto sul taccuino prima di lasciare il Centro, sono Bianchi e Stankevicius, gli stessi con cui ho parlato nel pomeriggio, che bisticciano in una partita di calcio tennis. Sono le otto di un sabato sera, il giorno dopo avranno un amichevole. L'allenamento è di scarico e per un attimo si mettono a discutere se quella palla fosse dentro o fuori. Per cinque secondi è una questione di enorme importanza. Nessuno dei due vuole perdere quel punto. Poi si mettono d'accordo e la rigiocano, resettando tutto e concentrandosi sullo scambio successivo. Probabilmente sono proprio quel genere di episodi insignificanti a distinguere la passione dal professionismo. Indipendentemente dal fatto che professionisti possano o meno continuare ad esserlo anche nella prossima stagione.

 

 

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