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Luca Soligo

Quanto guadagna un nuotatore

È sempre più evidente il malumore dei nuotatori nei confronti della FINA e del mondo…

Secondo il sito swimvortex.com, la FINA, la Federazione internazionale del nuoto, ha guadagnato 118 milioni di dollari dagli eventi acquatici organizzati nel stagione 2016-2017, pagandone solo il 12,5% agli atleti sotto forma di montepremi.

 

In molti tra le corsie si lamentano di come sia difficile per un nuotatore essere un vero professionista. In una recente intervista alla BBC, il campione olimpico Adam Peaty si è scagliato contro la federazione che «si limita a dire quello che dobbiamo o non dobbiamo fare, ma non ci ascolta». Peaty non è l’unico ad essere contrariato: per l’olimpionica australiana Cate Campbell «ci sono molte persone che si stanno arricchendo con il nuoto, ma non gli atleti», mentre secondo il sudafricano Chad Le Clos «creare nuove opportunità commerciali e di visibilità dovrebbe essere il futuro al quale tutti pensano».

 

La nascita del movimento
A scatenare queste reazioni è stata la cancellazione di Energy for Swim, un evento che avrebbe dovuto riunire molti tra i migliori atleti del mondo a Torino, il 20 e 21 dicembre, per una sfida organizzata dalla International Swimming League. La ISL è una realtà creata dal magnate ucraino Konstantin Grigorishin, con l’aiuto tra gli altri del tecnico italiano Andrea Di Nino nel ruolo di Managing Director, che si propone di organizzare e gestire una serie di eventi per promuovere il nuoto.

 

 

L’idea è quella di creare una Lega internazionale professionistica simile ad altri sport – come atletica e triathlon – all’interno della quale gli atleti possano gareggiare al di fuori degli appuntamenti classici come mondiali, olimpiadi e competizioni continentali, esibendosi in giro per il mondo e proponendo il nuoto in modo più spettacolare e continuativo. L’obiettivo dichiarato da Di Nino è quello di dare al nuoto una dimensione «più appetibile per i media, favorendo atleti ed allenatori nel percorso verso il professionismo», ridistribuendo il 50% degli introiti tra gli atleti.

 

La FINA ha bocciato l’iniziativa per un cavillo nella presentazione della domanda di organizzazione, dopo aver a lungo minacciato gli atleti di sanzioni e squalifiche nel caso avessero aderito al progetto, reputato non legale. Una decisione che ha aumentato il malumore tra i nuotatori.

 

La prima a farsi sentire, nel giugno 2017, era stata Katinka Hosszú attraverso una lettera aperta nella quale criticava aspramente la Federazione per alcune scelte a lei poco congeniali, come la decisione di diminuire la quantità di gare alle quali iscriversi nelle tappe di World Cup, limitando la possibilità di guadagno in termini di premi per gli atleti.

 

Ma lo scritto della Hosszú non era solo una sterile polemica sul regolamento: era un manifesto programmatico, un richiamo a tutti i nuotatori ad aprire gli occhi e far valere le proprie ragioni nei confronti della FINA, che vuole frenare l’ascesa della categoria al professionismo. «Se il nuoto non è ancora uno sport professionistico» scrive Katinka «allora dobbiamo riflettere su cosa non è stato fatto dalla FINA negli ultimi decenni». L’attacco dell’olimpionica si concludeva con un appello ai colleghi per formare un sindacato dei nuotatori, con il compito di sradicare la mentalità per la quale, nel nuoto, «tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale di altri».

 

L’uscita della nuotatrice ungherese è stata accolta con clamore sia per il ruolo di spicco che occupa nel mondo del nuoto sia perché proprio la Hosszú è stata la più importante sostenitrice e partecipante alla World Cup, una manifestazione autunnale organizzata dalla FINA e accolta con freddezza dalla maggior parte dei nuotatori.

 

I motivi di tale diffidenza vanno ricercati in aspetti puramente pratici: per preparare bene due eventi all’anno – uno invernale e uno estivo, che scandiscono la stagione del nuoto – servono costanza nell’allenamento e integrità fisica, due cose difficili da rispettare se si gareggia troppo. La World Cup, anche se raggruppata in mesi per lo più privi di impegni come settembre, ottobre e novembre, si tiene nel periodo dell’anno nel quale gli atleti svolgono la maggior parte dei propri carichi di lavoro, tra collegiali in altura e ritiri con le proprie nazionali. Rinunciare a questo tipo di preparazione comporta un rischio per i nuotatori che preferiscono affidarsi ad una programmazione più classica.

 

Ma questa linea di pensiero è stata sfatata proprio da Katinka Hosszú e dai suoi risultati: dal 2012 al 2016 ha vinto la World Cup gareggiando in tutte le giornate e su diverse specialità – nell’edizione 2012 ha nuotato 30 chilometri di gare, suddivisi in 8 tappe ed in distanze di al massimo 400 metri – e nonostante ciò ha dominato anche gli eventi principali, laureandosi più volte campionessa europea e mondiale e concludendo il quadriennio con 3 ori olimpici a Rio 2016.

 

Non si tratta di un caso isolato ma di una scelta di preparazione ben precisa, che punta a far diventare la gara un momento determinante dell’allenamento, non un intoppo verso l’obiettivo finale. Altri atleti come Chad Le Clos, Cameron van der Burgh, Ranomi Kromowidjojo, Vladimir Morozov e Sarah Sjöström, sono stati negli anni protagonisti della World Cup ma anche titolati a livello mondiale ed olimpico, confermando che, come ha detto van der Burgh, «competere aiuta ad imparare a competere». Se i nuotatori sono ormai pronti a gareggiare con più costanza durante l’anno, il motivo principale del mancato successo della World Cup è economico.

 

Un sistema di premi che non premia
Nonostante un incremento sostanziale del montepremi nel corso degli anni – nel 2017 il prize money totale era di circa 2 milioni di dollari – per la maggioranza dei nuotatori non è abbastanza. Le trasferte transoceaniche hanno un costo che, se non coperto accuratamente dagli sponsor, rischia di pesare eccessivamente sull’atleta, soprattutto in caso di cattivi piazzamenti e conseguente scarso guadagno.

 

La World Cup è divisa in 3 cluster – in Italia li chiameremmo gironi – ognuno composto da 2-3 tappe geograficamente vicine; il vincitore della classifica a punti di ogni cluster si aggiudica 50 mila dollari, mentre il vincitore della classifica finale se ne aggiudica altri 150 mila. Significa che, se vinci classifica finale e tre gironi, ti porti a casa 300 mila dollari più circa altri 40/50 mila per i podi nelle singole gare (1500 il primo, 1000 il secondo e 500 il terzo). In sostanza, il bottino grosso lo fanno i primi tre: se non si ha la certezza di poter competere per quelle posizioni, meglio restare a casa ed allenarsi.

 

Il fulcro della polemica dei nuotatori è proprio su questo concetto di divisione dei premi, che è valido anche per le gare canoniche come mondiali o europei: la FINA ha aumentato le borse relative ai mondiali in vasca corta di Hangzhou che si sono svolti a dicembre, portandole a 8000 dollari per il vincitore, 6000 per l’argento e così via fino ai 500 per l’ottavo, con un bonus di 15mila dollari per l’eventuale record del mondo.

 

Il presidente della FINA, Julio Maglione (foto di Fred Lee / Stringer).

 

Di sicuro un incremento se si pensa che, nella scorsa estate agli europei di Glasgow, il vincitore – premiato in questo caso dalla LEN, la lega europea – guadagnava 2500 euro, 2000 l’argento e 1500 il bronzo. Non abbastanza per gli atleti. Un problema talmente grande che già Federica Pellegrini, nel 2009, lamentava di aver ricevuto appena 1500 euro per ciascuno dei due ori mondiali conquistati a Roma.

 

Sono cifre che sembrano ridicole se paragonate a quelle percepite da atleti di uno sport professionistico individuale come il tennis – Djokovic ha guadagnato un assegno di 2,55 milioni di euro per la sola vittoria di Wimbledon 2018 -, ma che sono basse anche confrontate all’altro sport olimpico per eccellenza, l’atletica leggera. Ai mondiali di atletica del 2017 a Londra, l’oro era premiato con 60 mila dollari e 100 mila dollari andavano al record del mondo, in uno sport che ha già individuato nella Diamond League una risposta di successo alla domanda professionistica degli atleti.

 

Quelle percepite dai nuotatori sono cifre più simili ai premi per i mondiali di ciclismo, dove il vincitore 2018 Alejandro Valverde ha ricevuto 8000 dollari, senza contare però che i ciclisti sono tutti a libro paga di una squadra e che durante la stagione hanno la possibilità di guadagnare anche con le vittorie (al Tour de France la Maglia Gialla finale guadagna 500 mila euro e 11 mila vanno a ogni singolo vincitore di tappa).

 

È anche vero che, quelli in questione, sono solo i premi FINA, ai quali vanno aggiunti i premi delle federazioni nazionali che sono decisi dalle singole nazioni anche in relazione al periodo storico. La Federazione Italiana Nuoto ai mondiali 2013 di Barcellona premiava con 35000 euro il primo posto, 18750 il secondo, 11250 il terzo, 4000 il quarto, 3000 il quinto, 2500 il sesto, 1500 il settimo e 1000 l’ottavo. Discorso a parte va fatto per i Giochi Olimpici, dove non esistono premi forniti ufficialmente dal CIO ma ci sono borse elargite dalle varie nazioni che possono anche decidere, come nel caso della Gran Bretagna, di non pagarne affatto. Per Rio 2016, il CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano – premiava l’oro con 150 mila euro lordi, l’argento con 75 mila ed il bronzo con 50 mila.

 

In Italia la maggioranza dei nuotatori di livello appartiene alle squadre militari, una tendenza cresciuta negli anni: si è passati da un 27% di atleti a Barcellona 1992 ad un 63% a Londra 2012. I gruppi sportivi militari stipendiano gli atleti – come un qualsiasi carabiniere, finanziere o poliziotto – con una paga base che si aggira per legge (78/2000) intorno ai 1400 euro mensili, variabili a seconda dell’arma e delle promozioni di carriera.

 

Ci sono poi gli sponsor, tecnici e non, che spesso ricambiano la pubblicità degli atleti con forniture di prodotti – come nel caso classico degli integratori alimentari – e infine le società non militari che si occupano della quotidianità dei nuotatori, fornendo spazi acqua, allenatori e spesso anche vitto e alloggio.

 

Questo sistema però non è regolamentato e si basa molto sulle capacità dei nuotatori di attirare capitali e sponsor privati. Ed è per questo che la ISL vorrebbe introdurre un nuovo concetto di nuoto improntato sul professionismo vero e proprio, con distribuzione dei ricavi al 50% agli atleti ma anche assicurazioni, pensione ed altri benefici che si avvicinano all’idea di sindacato lanciata da Katinka Hosszú.

 

Le novità per il 2019

La FINA ha annunciato la sua prima contromossa e organizzerà nel 2019 le Champions World Series, con partecipazione ad invito e montepremi totale di 3,9 milioni di dollari. Saranno convocati tutti i campioni mondiali, olimpici e i leader delle graduatorie tempi, e le gare si svolgeranno in tre weekend divisi tra Cina, Stati Uniti ed Ungheria. Ma la mossa rischia di essere tardiva: «Hanno dimenticato che esistono perché noi abbiamo la forza e la passione di allenarci dieci volte alla settimana» ha detto Cate Campbell, che faceva parte del roster di altissimo livello che avrebbe dato vita alla manifestazione di Torino. Altri atleti di alto livello hanno richiesto, prima di dare il consenso alla partecipazione, informazioni di massima alla FINA su spostamenti e date ufficiali perché gli eventi, che si svolgeranno in primavera, potrebbero accavallarsi con le varie selezioni nazionali che daranno accesso alle squadre per i Mondiali di questa estate. Nel frattempo, la FINA ha ufficializzato la partecipazione di alcuni nuotatori, tra i quali figurano anche alcuni grandi sostenitori della ISL come l’americano Michael Andrews e Katinka Hosszú che, con questa mossa, vogliono dimostrare come «l’organizzazione di più manifestazioni possa aiutarci a realizzare il sogno di diventare atleti professionisti», come ha twittato il giovane statunitense.

 

La conferenza stampa dell’ISL che si è tenuta a Londra lo scorso 19 dicembre (foto di Clive Rose / Getty Images)

 

Sul fronte International Swimming League, alcuni tra i migliori atleti del mondo si sono incontrati a Londra il 18 dicembre, nelle sale dello Stanford Bridge, convocati da Grigorishin per la presentazione ufficiale del progetto 2019: regular season in autunno divisa in diverse tappe in giro per il mondo, semifinali e finali a Las Vegas con copertura televisiva, montepremi di circa 6 milioni di dollari (in aumento con l’arrivo degli sponsor) e contratti agli atleti sia con ISL che con i vari team, che saranno strutturati come veri e propri club più che come rappresentative nazionali (c’è anche Roma tra le squadre confermate). Per gli atleti italiani erano presenti Luca Dotto, Fabio Scozzoli, Gregorio Paltrinieri e Federica Pellegrini, che è anche diventata ambasciatrice internazionale dell’organizzazione. Questa proposta è stata accolta con approvazione da tutti i nuotatori presenti, alcuni dei quali, Adam Peaty su tutti, si sono dichiarati entusiasti di poter finalmente portare il nuoto in una nuova dimensione.

 

Nonostante una fase nella quale le due organizzazioni sembravano dirette verso lo scontro, all’orizzonte si intravede la possibilità di una pacifica convivenza che potrebbe giovare a tutti, dai nuotatori ai politici, e soprattutto proporre il nuoto in un modo nuovo, forse più moderno e proiettato verso il pubblico. Di recente, il veterano della rana mondiale David Wilkie – olimpionico negli anni ’70 – ha dichiarato alla BBC che il paragone tra il nuoto di oggi e quello dei suoi tempi è «come il giorno con la notte». Wilkie non crede che ci sia l’interesse sufficiente per avere più eventi rispetto a quelli canonici e pensa che al pubblico piaccia il nuoto una volta ogni quattro anni. «Non si possono lamentare» dice l’ex ranista, «io per l’oro olimpico non ho visto una sterlina, loro ne faranno almeno 1 milione». Gli atleti di oggi non sono dello stesso avviso.

 

 

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Luca Soligo, classe 1982, è cresciuto in piscina e si è laureato in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Appassionato di molti sport, spesso finisce per innamorarsene e scriverne, qua e là in rete.