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Il delitto perfetto di Novak Djokovic
15 lug 2019
15 lug 2019
Il tennista serbo ha battuto in finale Federer dopo avergli annullato due matchpoint.
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Il fotogramma con cui siamo abituati a incorniciare Wimbledon ha la forma di un essere umano che cade a terra alla fine del torneo, sciogliendo la tensione di un corpo massacrato dalla tensione. Rafael Nadal piombato sull’erba, gamba e braccia distese, nel 2008, la faccia sconvolta dalla commozione; Roger Federer che dopo due passi cade in ginocchio vicino alla rete, testa al cielo, per il suo primo slam del 2003; Andy Murray che lascia cadere la racchetta, poi il cappello, e agita i pugni verso il suo angolo, nella vittoria del 2013.

 

Novak Djokovic, per celebrare la sua quinta vittoria a Wimbledon, al termine di una delle finali più belle di sempre, di sicuro la più lunga della storia, è rimasto quasi impassibile. Dopo che la palla è schizzata in aria, su un’insolita stecca di dritto di Federer, Nole ha abbassato la testa e si è incamminato verso la rete. Mentre il padre e la madre saltavano paonazzi, Djokovic gli rivolgeva un sorriso sarcastico. «Non ho festeggiato perché è stato un sollievo», ha detto dopo. Dopo aver salutato l’arbitro, Djokovic si è concesso un’esultanza rabbiosa, prima di chinarsi a mangiare un ciuffetto d’erba e annuire come per approvarne il gusto: «Persino più buona del solito», ha detto a denti stretti.

 

Nick Kyrgios qualche mese fa aveva dato una fotografia spietata di Djokovic: «Ha una malsana ossessione e bisogno di essere amato. Vuole essere Federer. Desidera così tanto essere amato che diventa imbarazzante». Stavolta Djokovic ha tenuto un profilo basso per tutta la partita e come altre volte è stato difficile entrare in connessione con le sue emozioni. L’asimmetria tra la sua freddezza e l’estasi del pubblico al termine di una partita così coinvolgente è stata straniante. Per l’ennesima volta, Djokovic ha dovuto vincere un torneo con tutto lo stadio a tifargli contro con una sfacciataggine paradossale per uno sport ossessionato dall’etica come il tennis. Djokovic, da parte sua, sembra ormai essersi arreso all’idea di non poter essere amato quanto vorrebbe, di non ricevere dal tennis quanto lui gli sta dando. In un paio di momenti i suoi nervi hanno tentennato sulla pressione della folla, ma poi ha continuato implacabile a fare il tergicristallo senza sforzo, a tirare sempre a un centimetro dalla riga di fondo, nessuna goccia di sudore a imperlargli la fronte, i capelli sempre perfettamente asciutti, come fosse davvero animato da sangue di serpente.

 

Il tennis che abbiamo avuto la fortuna di guardare degli ultimi 15 anni ha praticamente esaurito il nostro vocabolario, e non è semplice riuscire a restituire la grandezza e l’assurdità e l’epica della finale tra Novak Djokovic e Roger Federer. Abbiamo già detto che è stata la finale di Wimbledon più lunga di sempre: 4 ore e 58 minuti, dieci in più della leggendaria sfida a Nadal del 2008, quando Federer aveva 27 anni e la fascia non copriva nessuna stempiatura. È stata la prima finale di Wimbledon in cui un tennista ha vinto dopo aver annullato due matchpoint. È stata la prima finale di Wimbledon decisa dal tiebreak sul dodici pari, introdotto quest’anno dopo l’estenuante guerra d’artiglieria tra Anderson e Isner a Wimbledon 2018, finita sul 26-24.

 



Eppure in pochi potevano prevedere questo equilibrio. Federer, a 38 anni, arrivava da una delle semifinali più belle e intense della storia di Wimbledon. Le tre ore contro Nadal

un concentrato di intensità tecnica e fisica miracolosa per un giocatore della sua età ed era un rebus capire in che condizioni sarebbe arrivato. Nel 2015, quando aveva “appena” 34 anni, dopo il capolavoro in semifinale contro Murray, arrivò sciolto alla finale contro Djokovic, perdendo in quattro set velocemente. Djokovic invece è arrivato in finale percorrendo un’autostrada, perdendo giusto due set interlocutori contro Bautista-Agut e Hurkacz.

 

Ma quello che si è presentato a Wimbledon era un Federer ancora diverso dal solito, che si è evoluto seguendo una strada controintuitiva rispetto all’avanzare dell’età. E se nel 2015, sotto la guida di Edberg, aveva cominciato a girare attorno ai propri limiti fisici strozzando il tempo e lo spazio agli avversari, giocando sempre in avanzamento e verso la rete, oggi, con Ljubicic ad allenarlo, Federer ha paradossalmente reso più solido il proprio gioco da fondo. Ha migliorato la risposta, la solidità del rovescio ed è arrivato con la migliore condizione fisica da tanti anni a questa parte. Contro Nadal ha vinto la partita portando dalla propria parte gli scambi più lunghi, in uno strano mondo alla rovescia.

 

C’era quindi il dubbio che Federer potesse sentire sulle gambe qualche tremore per la semifinale, ma ha cominciato la partita con la solita brillantezza da fondo, la varietà tattica, il solito indispensabile rendimento magistrale al servizio. Nel primo set ha tirato il 68% di prime palle vincendo il 73% dei punti con queste. Djokovic è rimasto sornione in difesa, limitandosi ad annullare l’unica palla break prima di spingersi al tiebreak. A quel punto Federer è crollato all’improvviso: ha messo poche prime, ha perso il comando dello scambio e non ha chiuso alcuni scambi che avevano tutta l’inerzia dalla sua parte.

 



 

Qui ad ed esempio commette un errore incomprensibile sul passante. Un esempio di come nei tiebreak abbia mandato in campo il suo doppelganger insicuro.


 

Nei 47 precedenti contro Federer, Djokovic non aveva mai perso la partita dopo aver vinto il primo set. Era lecito aspettarsi un crollo dello svizzero nel secondo, come coda del tiebreak perso, e invece ad andare in pezzi è stato Djokovic, a ricordarci che anche lui ha 32 anni e ha bisogno di prendersi qualche pausa in più rispetto alla sua versione invincibile di quasi dieci anni fa. In tutto il secondo set, perso 1-6 e chiuso con un doppio fallo, il serbo ha vinto appena 12 punti.

 

È cominciata quindi una piccola partita al meglio dei tre, in cui però il terzo set è finito per essere la copia spiccicata del primo, con Djokovic chiuso ancora più a chiocciola nel proprio minimalismo, nel tentativo di ridurre i rischi allo zero. Nel terzo set Djokovic ha commesso 7 errori non forzati, nessuno di questi, però, davvero influente.

 

Quando si parla dei big-3 si tende spesso a mettere agli antipodi Federer e Nadal, e a considerarli i simboli di due stili di gioco opposti tra loro, con Djokovic che ne sarebbe una specie di sintesi. Ma in verità esistono molti più punti di contatto tra Federer e Nadal di quanti ce ne siano tra Djokovic e Federer, soprattutto negli ultimi anni, dove il maiorchino ha costruito uno stile più offensivo per aggirare il proprio calo fisico mentre Djokovic ha continuato ad affinare il proprio potere mentale da Jedi. Con lo spagnolo, Federer condivide l’attitudine alla ricerca del colpo vincente senza compromessi, a un tennis che, seppure con gradi diversi, è sempre aperto al rischio, fatto di strappi più che di ritmo. Djokovic ha un tennis più razionale, fatto di controllo del rischio e del miglior compromesso possibile tra efficacia offensiva e solidità difensiva. Ai picchi di brillantezza, Djokovic preferisce la costanza delle soluzioni, alla ricerca degli angoli la profondità dei colpi.

 

Giocare contro Djokovic è un’esperienza simile a provare a battere un’intelligenza artificiale: è la migliore macchina mai progettata per risolvere le equazioni e i problemi complessi del tennis contemporaneo. Il senso di impotenza che si prova nel tentativo di scalfire questa specie di muro di gomma è stato ben riassunto da Goffin dopo i quarti di finale: «Non cambia niente se giochi un buon tennis, se colpisci profondo, se cerchi l’incrocio delle righe a destra o a sinistra. Il suo gioco dal fondo è incredibile, sembra non avere punti deboli. Era dappertutto. Per metterlo al tappeto devi giocare il punto perfetto, ma non hai ugualmente nessuna garanzia di portarlo a casa».

 

Quando si parla di Djokovic ci riferisce a lui come a un’entità inorganica (“Impenetrable wall” in

articolo), o al massimo come a una fiera medievale (il Telegraph lo ha definito “Enigma Machine”).

 

Per Federer quindi era importante comandare subito lo scambio col servizio ed essere aggressivo, riuscendo però a rimanere lucido e a non andare fuori giri di fronte alla solidità difensiva di Djokovic, impossibile da mandare fuori equilibrio. Al contempo Federer non poteva permettersi di cercare di forzare sempre gli scambi con il ritmo perché sarebbe entrato nel terreno di Djokovic, la cui forza sembra nutrirsi della velocità e degli angoli dell’avversario. Djokovic ha mantenuto una profondità spaventosa nel suo gioco da fondo: l’aspetto che più di tutti restituisce un senso di invulnerabilità. Federer, da parte sua, ha fatto più o meno tutto quello che doveva fare: ha tenuto un rendimento pazzesco sul servizio (63% di prime in campo col 79% di punti vinti con la prima); ha dosato bene le sue discesa a rete, non esponendosi mai troppo alle frecce dei passanti di Djokovic (51 punti vinti a rete su 65); ha cercato di uscire il più possibile dal climax di ritmo con tanti back di rovescio che hanno costretto Djokovic a giocare con le ginocchia sul prato. E allora, cosa è successo?

 



È difficile capire come abbia fatto Federer a perdere questa partita. Lo svizzero ha vinto 218 punti, 14 in più di Djokovic; ha vinto 36 game, contro i 32 del serbo; non ha mai chiuso un set senza vincere almeno 6 game. Possiamo continuare ancora: ha servito 15 aces più di Djokovic, ha avuto una percentuale migliore di punti vinti sia con la prima che con la seconda palla. Ha vinto ovviamente più punti a rete, e in maniera meno ovvia ha vinto più palle break, sia in assoluto che in percentuale. Ha tirato 40 vincenti più di Djokovic, e se anche questo in qualche modo potevate aspettarvelo, sarete forse più sorpresi di sapere che ha fatto appena 10 errori non forzati in più, con un saldo quindi di +30.

 

Nella nostra memoria ha lasciato anche più momenti di splendore. Questo vincente in back incrociato con cui è uscito da uno strettissimo cross di Nole, puro illusionismo.

 



 

Questa demi-volée, non l’unica della partita, con cui ha tirato su il solito passante avvelenato di Djokovic.

 



 

 

Questo rovescio lungolinea in controtempo, un altro classico, miracoloso nel suo senso d’anticipo.

 



 

Anche Djokovic ha tirato vincenti di un livello irreale - un paio di volée miracolose, diversi rovesci lungolinea fluidi e perentori - ma se ha vinto è per quella capacità unica e oscura di subire senza lasciarsi infine sopraffare, di resistere sull’orlo del burrone, di piegarsi senza spezzarsi. Come la canna descritta da la Fontaine: «Il vento che mi affanna / mi può piegar / non farmi troppo male». Come le malattie autoimmuni, che per sopravvivere trovano il modo di plasmare il nostro sistema immunitario.

 

Djokovic ha giocato davvero come un computer, all’interno del singolo scambio - capendo quando c’era da forzare per prendersi il punto e quando invece accettare di subire, lasciando sfogare la tempesta - e dentro la partita, dove ha mostrato una sensibilità matematica che non ha niente di umano nel percepire i momenti fondamentali della partita.

 

Se Federer quindi ha stupito per la continuità fisica e mentale, e la capacità di risollevarsi nei momenti in cui sembrava oggettivamente spacciato - come quando è riuscito a fare il break a Nole nel quinto set quando non sembrava esserci più una goccia di benzina - Djokovic da parte sua ha confermato di essere il migliore nella caratteristica che Rino Tommasi chiamava “classe” e che forse più di tutti contraddistingue i campioni, cioè la capacità di vincere i punti più importanti.

 

È una legge che si ripete fino allo sfinimento, quella che i punti si pesano e non si contano. Djokovic però ieri ha stabilito un nuovo livello di controllo mentale, riuscendo a vincere pur sfruttando meno palle break dell’avversario, togliendogli il servizio quattro volte in meno. In questo senso, essere avanti 2 set a 1 senza aver mai fatto il break all’avversario (la prima palla break arriverà quasi allo scoccare delle tre ore) è la perfetta rappresentazione del delitto senza spargimento di sangue.

 

Bisogna però riconoscere che se da una parte Djokovic è la sfinge dei punti pesanti, Federer ha confermato una fragilità patologica, crollando in praticamente tutti i momenti chiave del match. Ha alzato il livello quando è stato con le spalle al muro, ma si è sciolto quando c’era da concretizzare nel risultato la sua supremazia sul piano del gioco. Gli errori non forzati nei tiebreak, l’assenza di prime palle e ovviamente quei due matchpoint. Sul 40-15, dopo l’ennesimo ace, la folla gridava “one more” e sembrava davvero tutto facile e vicino, mentre Mirka Vavrinec affondava il volto tra le mani forse perché ha imparato il pessimismo dei momenti importanti. Federer si è fatto annullare il primo dopo una buona risposta e una pigra uscita dal servizio ma nel secondo si era costruito il suo mondo ideale: una palla corta a centrocampo da spingere con il dritto. Come tantissime altre volte, il braccio di Federer ha tremato e Djokovic lo ha fulminato col passante.

 

È la prima volta che un giocatore vince a Wimbledon dopo aver annullato due matchpoint, ma non è la prima volta che Djokovic vince dopo aver annullato due matchpoint a Federer. È la TERZA. E quella che Federer continuerà a sognare come McEnroe sognava la finale persa del Roland Garros da Lendl, risale al 2011. Sul 5-4, 40-30, Federer tira una solida prima di servizio, a cui Djokovic risponde come lui stesso ha confessato “chiudendo gli occhi”, e spedendola quasi all’incrocio delle righe.

 



 

Poi alza le braccia al cielo reclamando il calore del pubblico, come sempre in estasi per avergli rovinato la festa.


 

L'altro grande rimpianto che può essere innalzato a simbolo della partita è il passante sbagliato da Federer sull'undici pari e palla break: una palla comoda sul dritto da spingere incrociata, e invece appoggiata in maniera quasi morbida dall'altra parte della rete.

 

Forse anche la strategia di Federer non è stata proprio ineccepibile: avrebbe potuto lasciar andare di più il braccio in certe situazioni, avrebbe potuto essere ancora più aggressivo sulla risposta, avrebbe potuto accettare meno lo scambio da fondo campo. Però la sconfitta, questa più di altre volte, somiglia a una specie di inganno costruito dal suo avversario.

 



Gli sport dal punteggio costruito dovrebbero essere i più meritocratici, dando la fotografia più esatta del migliore giocatore o della migliore squadra in campo. Ma il tennis, fra gli sport dal punteggio costruito, è il più perverso. La strada verso la vittoria somiglia a quella per uscire dal deserto, dove il sole e il vento cambiano continuamente la forma delle cose, provocando allucinazioni. Djokovic quella strada la riuscirebbe a riconoscere anche al buio, bendato, schivandone tutte le trappole, come se al suo fianco ci fosse direttamente Nike, la divinità greca della vittoria.

 

Federer invece sembra dover lottare contro questa divinità più degli altri, con tutti i mezzi sovrannaturali del suo talento. Ha sempre bisogno di giocare meglio degli altri per vincere, e come in questo caso, spesso non basta.

 

Come sottolineava

con poca diplomazia, Federer è il vincente più perdente di sempre. È quello con la peggiore percentuale di finali vinte in generale, e se restringiamo il campione agli ultimi 10 anni negli slam i numeri diventano impietosi: Federer ha il 50%, Djokovic il 66%, Nadal addirittura il 69%. Se Federer avesse vinto ieri avrebbe staccato di 3 slam Rafa Nadal e di 6 Novak Djokovic. Ora il serbo è invece a 4 slam di distanza e con 6 anni in meno ha tutte le possibilità di agganciarlo e superarlo, nonostante un talento tennistico che, per quanto assoluto, è molto inferiore a quello dello svizzero.

 

Sono passati otto anni dal 2011, quando vinse 3 slam andando vicino all’impresa di vincerli tutti e quattro, che né a Nadal né a Federer è mai riuscita. In questi quasi dieci anni Novak Djokovic è stato il più grande tennista al mondo, stabilendo un dominio più lungo di quello degli altri due, e vincendo più tornei nel momento forse di massima competitività nel tennis recente. Eppure in pochi sono disposti a riconoscerne la grandezza, continuando a considerarlo un intruso nella grande narrazione epica della rivalità tra Federer e Nadal. Oggi i giornali tributano comprensibilmente il loro omaggio alla grande finale - “la più bella di sempre” per molti - mentre in caso di vittoria di Federer la celebrazione avrebbe riguardato probabilmente un unico giocatore.

 

Ai microfoni Djokovic ha definito quella di ieri “La partita più impegnativa di sempre dal punto di vista mentale” e ha detto una frase che conferma in modo perverso il suo desiderio di essere Federer: «Quando la folla gridava “Roger” io sentivo “Novak”» a dimostrazione del livello di manipolazione mentale raggiunto da Djokovic. Se la realtà non è come vorrebbe che fosse, Djokovic è sempre pronto a modificarla.

 

 

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