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Daniele Manusia
Ma come si fa a sbagliare un rigore così
30 gen 2024
30 gen 2024
È stato un fine settimana insolitamente pieno di rigori sbagliati.
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Daniele Manusia
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IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
(foto) IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
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Esattamente due anni fa diventava a sorpresa eroe nazionale. Lui che dell’eroe ha lo sguardo torvo, la mascella quadrata - barba e capelli da Giga Chad. Aveva iniziato il torneo dalla panchina, poi a pochi minuti dalla fine dell’ottavo di finale con la Costa d’Avorio era subentrato al portiere titolare e aveva parato il rigore decisivo per la vittoria dell’Egitto. In semifinale con il Camerun ne aveva parati addirittura due (un terzo era finito fuori, ma in casi del genere si tende comunque a dare merito al portiere, al suo potere distraente, soggiogante, che spinge l’avversario all’errore) e in finale con il Senegal aveva parato dopo neanche dieci minuti un rigore a Sadio Mané, tenendo in vita l’Egitto di nuovo fino ai rigori: lì ha riparato all’errore del compagno Abdelmonem parando - con l’aiuto dell’inseparabile bottiglietta con sopra incollati gli appunti come quando si vuole copiare a un esame - il rigore successivo a Bouna Sarr. Poi però Mohamed Lasheen aveva calciato il quarto rigore dritto dritto sulle mani di Mendy e Sadio Mané aveva calciato quello dopo, come si dice, in modo imparabile: troppo forte, troppo veloce e troppo angolato. Anche se lui, ancora una volta, aveva intuito.

Non avevano vinto la coppa, ma lui si era guadagnato la fama di "para rigori". Che nel calcio equivale ad avere una specie di proprietà magica, la capacità di controllare una delle situazioni più caotiche e imprevedibili. Il rigore come buco nero psichico, precipizio che parla a chi lo guarda invitandolo a gettarsi e lui, Mohamed Abou Gabal, da tutti conosciuto come Gabaski (una storpiatura dovuta al fatto che un suo allenatore in Egitto, il portoghese Jesualdo Ferreira, non riusciva a pronunciare il suo vero nome), stregone in grado di indirizzare la palla sulle proprie mani, spingerla col soffio fuori dallo specchio della sua porta. Eppure il confine tra ordine e caos, tra eroe e coglione, è sempre labile.

Due anni dopo quasi esatti - l’altro ieri - l’Egitto arriva ai rigori con la Repubblica Democratica del Congo, Gabaski è in porta ed è come se cambi canale in TV proprio nel momento in cui inizia un film che conosci a memoria ma che non vedi l’ora di riguardare. Dai Gabaski facci sognare. Mostafa Mohamed, capocannoniere dell’Egitto che aveva segnato un rigore pochi minuti prima, calcia il secondo rigore sul palo e subito dopo Masauku per la RDC calcia alto e, forse, forse è ancora merito della magia di Gabaski. E invece non ne prende neanche uno. Si tuffa sempre alla sua destra - e se qualcuno gli avesse manomesso, sabotato la bottiglietta? - e gli avversari calciano sempre alla sua sinistra, tranne Inonga, difensore che si trova a calciare l’ottavo rigore della serie, che comunque la angola troppo per Gabaski.

Dopo ogni rigore Gabaski ha lo sguardo sempre più scuro. Qualcosa non sta funzionando ma lui non sa cosa sia. Nel suo cervello si insinua un pensiero: e se non fosse mai stato merito suo? E se non potesse farci niente? Per fortuna anche il portiere avversario, Mpasi, nato a quaranta chilometri da Parigi e per qualche ragione chiamato Lionel come uno dei più forti calciatori mai esistiti, non ne aveva preso uno fin lì. Allora Gabaski prova a forzare il flusso delle cose, a dare una direzione al fiume del destino. L’Egitto aveva finito la partita in dieci uomini e il nono rigore della serie sarebbe spettato all’ultimo giocatore di movimento disponibile, Mohamed Lasheen, che però due anni ricorderete aveva sbagliato il rigore in finale. Quindi tira Gabaski.

Immaginate cosa sarebbe stato del suo mito se, oltre a pararli i rigori, avesse cominciato anche a segnarli. E invece no, Gabaski prende una rincorsa dritta, fa un paio di passi verso sinistra, poi calcia alto. Non altissimo, ma alto abbastanza da mandare la palla sulla traversa e poi fuori. Le sopracciglia di Gabaski diventano una V strettissima in mezzo al volto, sotto il cui spiovente si nasconde uno sguardo perso, vuoto, senza più vita.

Alza lo sguardo da terra solo quando incrocia la traiettoria di Mpasi, lui diretto verso la porta e Mpasi verso il dischetto. Capisce lì che anche se la Repubblica Democratica de Congo avesse ancora due giocatori di movimento da far calciare sarà la sua nemesi, l’altro portiere, a calciare. Nello sguardo di Gabaski si fa strada la paura.

Lionel Mpasi va sul dischetto con uno strano sorriso. Beffardo come quello di un bambino che sta per rovesciare la tazza di caffè sul computer del padre che lavora troppo. Gabaski guarda in direzione di Mpasi e poi alza lo sguardo verso il cielo, non vuole crederci, non vuole pensarci, si passa i guanti sulla faccia come per lavarsela, sugli occhi e sulle orecchie come se non volesse sentire né vedere. Mpasi lo guarda dritto negli occhi: sì, proprio così, sembra dirgli col suo sguardo, ti sto per togliere tutto. E tutto gli toglie: Gabaski si tuffa di nuovo a destra e lui piano piano appoggia la palla a sinistra. Gabaski si alza, prende la bottiglietta vicino al palo e se ne va con la faccia di uno che non scoppia a piangere solo perché è tutta la vita che si allena a trattenere le lacrime.

La vita è tragica, il calcio è tragico. E niente è più tragico di un rigore sbagliato. In questo fine settimana c’è stata la fiera del tragico. Non solo in Coppa d’Africa (ci torno tra poco) ma anche, ve ne sarete accorti, in Serie A. Nell’ultima giornata di campionato sono stati sbagliati ben cinque rigori (secondo Giuseppe Pastore non succedeva dalla stagione 1960/61), il Milan è riuscito a sbagliarne due nella stessa partita.

Prima di calciare il suo rigore contro il Bologna, Olivier Giroud ne aveva sbagliato solo uno in stagione, segnandone quattro. Il Milan in quel momento stava perdendo 0-1 ma lui stava giocando divinamente, con un colpo di tacco aveva fatto ammonire Calafiori dopo due minuti, e con un altro colpo di tacco aveva aperto il campo a Loftus-Cheek in contropiede. Poi però ha calciato quel rigore piano piano, alla sua destra ma comunque molto centrale, tanto che Skorupski non ha dovuto allungare le braccia per arrivarci. Dopo il rigore Giroud si porta le mani al volto, incredulo ma con un pizzico di autoironia. Si vede che è uno che ne ha viste tante in vita sua, chissà magari è persino riuscito ad apprezzare la capacità del destino di sorprenderlo.

Statisticamente c’è più o meno il 25% delle possibilità di sbagliare un rigore; o meglio: il 25% dei rigori circa viene sbagliato. Con questo secondo rigore sbagliato la percentuale di rigori falliti da Giroud in stagione è del 33,3% (periodico) - strano, considerando che in tutta la sua carriera ne ha sbagliati solo altri due oltre a quelli di questa stagione. Quattro in totale, su trentasette calciati (10.81%).

Eppure non è stato neanche il rigore più strano in quella partita visto che più avanti, quando Giroud era già stato sostituito, Theo Hernandez ha calciato il secondo rigore milanista sul palo. La palla gli è tornata addosso e lui dopo averla stoppata l’ha messa dentro la porta, mostrando di non conoscere la regola secondo la quale dopo un rigore calciato su palo o traversa lo stesso giocatore non può toccare nuovamente la palla.

Così facendo, Theo Hernandez è riuscito a festeggiare un rigore sbagliato.

La maggior parte di noi ormai ha due personalità: quella con cui nella vita di tutti i giorni non se la sentirebbe di abbattere ancora di più un amico che, mettiamo, gli confessi di aver sbagliato in amore, o che ha appena perso il lavoro; e quell’altra personalità che online non ci vede niente di male nell’offendere sconosciuti, professionisti, con la spocchia di chi ne sa molto più di loro. Hai perso il lavoro? Sei stato mollato? Hai sbagliato un rigore? Bravo coglione!

In Serie A in questo weekend hanno sbagliato anche Duda in Verona-Frosinone (rincorsa secca e decisa, senza stare troppo a pensarci sopra, ma poi tiro fiacco proprio nell’angolino basso dove si era tuffato Turati) e Krstovic in Genoa-Lecce (lui ha tirato forte, forse troppo forte, senza curarsi dell’angolo, prendendo in pieno il portiere genoano Martinez), ma il rigore peggiore, quello più insultato, è stato senza dubbio quello di Nico Gonzalez contro l’Inter.

Subito dopo è circolato un montaggio con tutti i rigori stagionali calciati da Nico Gonzalez: tutti uguali, tutti preceduti dal saltello, tutti appoggiati di piatto in diagonale alla sua sinistra. I portieri avversari si sono sempre tuffati alla sua destra ma stavolta Sommer è rimasto fermo fino all’ultimo - e forse la sua bottiglietta gli aveva detto giusto. Parata facile, quasi comica. Nico Gonzalez si mette la maglietta in bocca, forse vorrebbe nascondercisi dentro, o sfogare la rabbia strappandola. Poi la molla e inizia a parlare da solo.

La vita e il calcio sono tragici e lo sarebbero anche senza il coro greco che su internet sottolinea ogni errore possibile. Anzi, questi sbeffeggi continui, le umiliazioni, le indignazioni - come se l’errore di un portiere o di un attaccante fossero un’offesa personale rivolta a te, sì proprio a te - semmai tolgono un po’ di quella tragicità. Forse lo scopo è proprio questo, riportare tutto in basso, togliere dignità al dolore, togliere ogni intimità alla sofferenza di un calciatore.

Emilio Nsué ha 34 anni e gioca nella terza divisione spagnola, nell’Intercity di Alicante. Gioca spesso terzino, oppure esterno a centrocampo; con la Guinea Equatoriale invece gioca con la maglia numero 10, in attacco, e con la fascia da capitano. Un onore che gli spetta da quando, poco più che ventenne, ha scelto di giocare con la Nazionale del Paese schiacciato tra Gabon e Camerun anziché con quella spagnola.

Da ragazzo giocava con una coda da cavallo piena di fusilli neri, in questa Coppa d’Africa gioca con la testa completamente calva imperlata di sudore e si è ritrovato ad essere capocannoniere grazie alla tripletta segnata contro la Guinea Bissau (nonostante il nome, tra i due Paesi della costa occidentale ci sono otto o nove frontiere di mezzo) e poi la doppietta segnata ai padroni di casa della Costa d’Avorio, nell’umiliante 4-0 che ha spinto il presidente Teodoro Obiang a dichiarare la festa nazionale.

Poi Nsué ha avuto in sorte il rigore della possibile vittoria dell’ottavo di finale giocato contro la terza Guinea presente in questa coppa, Guinea e basta. Erano rimasti in dieci contro undici ma pur soffrendo erano rimasti in partita, e a quel punto, a venti minuti dalla fine, sembrava un regalo che il destino in persona consegnava nelle sue mani. Lui ha preso la rincorsa, si è fermato a un passo dal pallone per far muovere il portiere; il portiere si è mosso verso sinistra e lui ha potuto mirare e calciare a destra. Ha potuto pensarci, che bello sarebbe stato segnare anche quel gol, il settimo del suo torneo, portare la sua squadra ai quarti di finale per la seconda volta consecutiva e chissà, magari anche oltre. E forse proprio perché ci ha pensato troppo sopra ha preso il palo.

La Guinea Equatoriale ha perso quella partita subendo gol nei minuti di recupero dopo il novantesimo, quando ormai sembravano arrivati i supplementari. Neanche il tempo di rendersene conto, di pensare a quanto sarebbe stato brutto farsi eliminare in quel modo, che Emilio Nsué era uscito dalla Coppa d’Africa.

“A volte si inciampa e per evitare di cadere bisogna fare due o tre grandi passi avanti”, ha scritto Nsué su Instagram. La seconda parte del messaggio come sempre è motivazionale, ma la prima forse è più sincera e si sarebbe potuto fermare lì: a volte si inciampa. Una cosa semplice, che sanno tutti, eppure in molti non accettano quando ad inciampare sono altri.

Eppure la storia dei rigori calciati questo fine settimana dovrebbe ricordarci che non c’è niente che possiamo veramente fare per evitare di inciampare.

Un ultimo esempio. Domenica il Vicenza ha ospitato in casa la Virtus Verona, campionato di Serie C. A dieci minuti dalla fine la squadra di casa ha un rigore. Franco Ferrari va sul dischetto per la sedicesima volta in carriera, fino a quel momento ha segnato quindici rigori e ne ha sbagliati solo due (13.3%). In porta c’è Sheikh Sibi, nato in Gambia e arrivato in Italia via mare. Lo scorso settembre Ferrari aveva già segnato un rigore a Sibi. Stavolta glielo para, allungandosi nell’angolino alla sua sinistra. Sulla ribattuta però un difensore abbatte un attaccante che sta arrivando prima di lui sul pallone e l’arbitro fischia un secondo rigore a favore del Vicenza.

Sul dischetto ci va sempre Franco Ferrari. Una nebbia shakespeariana, più adatta a parlare coi fantasmi dei propri cari defunti, o con delle fate, Ferrari cambia angolo. Anche Sibi però cambia angolo e stavolta riesce addirittura a bloccare il tiro un po’ strozzato. Dopo la partita Sibi dirà di aver provato a indurre Ferrari a cambiare angolo, dalle immagini a disposizione non si capisce come abbia fatto, è rimasto fermo, immobile, forse ha recitato delle formule magiche che solo Ferrari ha sentito.

La regia non infierisce sul volto di Franco Ferrari, che non aveva fatto in tempo a disperarsi per il primo rigore sbagliato ma che adesso si solleva la maglia guardando il cielo, cercando nella nebbia la ragione di quel destino che ha deciso di prendersela proprio con lui quella sera, facendogli sbagliare due rigori in due minuti. Sibi resta sdraiato a terra, sul pallone come fossero amanti, sommerso in breve tempo dai compagni.

Eroi e coglioni, non c’è altro. Entrambi brancolano nel buio, senza sapere esattamente chi dei due è il coglione e chi l’eroe. Anche se sappiamo che un rigore segnato o sbagliato non vuol dire niente, che tutti possono scivolare, continuiamo a dargli un’importanza esistenziale. Sei scivolato? Bravo coglione! Occhio però che di bucce di banana la vita ne ha sufficienza per tutti, guardate dove mettete i piedi o è un attimo che i coglioni siete voi.

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