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Fabrizio Gabrielli
La Guinea Equatoriale è la storia di questa Coppa d'Africa
26 gen 2024
26 gen 2024
Come una piccola Nazionale sta accendendo il torneo.
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Fabrizio Gabrielli
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IMAGO / Samuello Sports Images Gh
(foto) IMAGO / Samuello Sports Images Gh
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Le strade di Malabo, la capitale della Guinea Equatoriale, negli ultimi giorni si sono accese, quasi letteralmente. Con una vittoria inattesa - più nella sontuosità del punteggio che nel risultato in sé - gli "Nzalang Nacional", cioè i “fulmini della Nazione”, hanno umiliato la Costa d’Avorio padrona di casa nell’ultima gara del girone del primo turno della Coppa d’Africa, chiuso al primo posto, anche davanti alla Nigeria, per tutti tra le prime favorite alla vittoria finale.

Il 4-0 inferto agli "Elefanti", che è quasi costata loro l’eliminazione da un torneo impregnato di profondi significati sociali e politici, ha portato il presidente Teodoro Obiang a dichiarare, l’indomani, una giornata di festa nazionale. Allo stesso tempo, però, a infuocare l’atmosfera non erano solo i festeggiamenti, ma anche una serie di incendi appiccati in giro per la città dall’ACDC, una delle formazioni politiche d’opposizione.Poco prima della gara decisiva, sui suoi canali social, Teodoro Nguema Obiang, figlio e vice dell’omonimo padre, soprannominato “Teodorín”, aveva promesso un milione di euro alla squadra in caso di vittoria della Coppa, e cinquantamila euro per ogni gol segnato: che i soldi non siano un problema per il regime cleptocratico di famiglia non è un mistero, neppure a giudicare dallo sfarzo brillante dell’angolo di casa da cui “Teodorín”, compiaciuto, ha salutato la «più forte squadra africana».

Un inno al nonostanteLa Guinea Equatoriale è l’unico paese africano in cui si parla spagnolo, il che permette di vedere riflesse, nel Paese e nel suo movimento calcistico, tutte le storture dell’Africa lette come se fossero storture sudamericane. Ma anche al di là di questo non si può non provare una certa simpatia per gli "Nzalang", una specie di inno vivente al nonostante.Perché in questa Coppa d’Africa – ma anche nelle precedenti edizioni del 2015, e nell’ultima in Camerun – sono riusciti a mettersi in mostra nonostante non esista un vero e proprio apparato calcistico locale, e a portare la croce sia una manciata di espatriati, o figli di espatriati, che giocano soprattutto in Spagna, nelle serie minori, o in campionati periferici d’Europa. Perché in un girone in cui ci si poteva aspettare lottassero per un terzo posto – passano le migliori quattro tra le terze classificate – alle spalle di Nigeria e Costa d’Avorio sono invece riusciti a fermare la Nigeria – dopo essere passati in vantaggio – e a brutalizzare la Costa d’Avorio, davanti agli occhi del Segretario di Stato statunitense Blinken e di Didier Drogba (non in ordine di importanza).La Nazionale, ciclicamente riesce a creare interesse intorno a un Paese governato da più di quarant’anni dalla stessa persona, Teodoro Obiang, che ha preso il potere rovesciando lo zio, che ha impiantato un governo basato sul clientelismo e sul culto della personalità, che ha fatto dell’asservimento e della spoliazione delle riserve di petrolio nazionale lo strumento di gratificazione dei propri interessi personali – auto di lusso, collezioni di opere d’arte, memorabilia inconsueti (tipo un guanto di Swarowski appartenuto a Michael Jackson, per rendere l’indea del livello di inconsueto) e beni immobiliari in giro per il mondo. Gli "Nzalang" accendono l’entusiasmo di un popolo nonostante il calcio sia proprio uno degli strumenti di propaganda preferiti di Obiang, che proprio in virtù di questo nell’ultimo decennio ha ospitato la manifestazione per ben due volte. E il popolo guineano ha una ragione per festeggiare, nonostante sia obbligato a sopravvivere con due dollari al giorno – a fronte dei più di 450 milioni di dollari a cui pare ammonti il patrimonio del suo presidente.

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I giocatori che compongono la rosa degli "Nzalang", oggi, sono tutti – in qualche modo – figli della Guinea Equatoriale, in tutto e per tutto. Anche nelle storture. Ma sono il prodotto genuino di un Paese, una conformazione per certi diversa da quella che la Federazione ha provato a disegnare a inizio anni Duemila, ingaggiando qualche dozzina di calciatori brasiliani con il tentativo di naturalizzarli e forzare lo sviluppo della Nazionale. Una strategia che aveva portato l'allenatore francese Claude LeRoy, uno che pure le dinamiche del calcio africano le conosce piuttosto bene, a definirli le “Nazioni Unite” del calcio, e forse non era proprio un complimento. La svolta è avvenuta con Esteban Becker, allenatore argentino che ha preso le redini degli "Nzalang" per la prima volta nel 2015, solo una settimana prima di esordire nella Coppa d’Africa, e che non è durato più di un mese: con lui – il primo a capire quanto fosse importante, per un senso di compartecipazione emotiva, l’appartenenza, più della volontà di vincere oliata dal petrolio – in Nazionale hanno giocato solo giocatori con radici effettive nella Guinea Equatoriale. E, nonostante tutto questo, hanno superato la fase a gironi in tre delle ultime cinque edizioni.Una fonte ben scolpitaAl centro del successo recente della Guinea Equatoriale c'è una piccola cittadina. Il ruolo epicentrico che ricopre Fuenlabrada, piccolo centro urbano nell’area metropolitana di Madrid, nei rapporti tra Guinea Equatoriale e calcio in questo senso non può essere solo una coincidenza.Fuenlabrada, oltre a essere la residenza di Severio Moto, il capo del Governo-in-esilio della Guinea Equatoriale, leader dell’opposizione e architetto di un tentativo di golpe nel 2003 finito in farsa, è stata infatti il punto di partenza della carriera da allenatore di Esteban Becker, per esempio, ma anche dell’attuale tecnico in carica, Juan Michá, che dice di ispirarsi a Mourinho e Ancelotti e che è stato inserito, nel 2023, nella lista dei dieci migliori allenatori africani.Fuenlabrada è anche stata la più longeva esperienza di uno dei calciatori tecnicamente più dotati tra gli "Nzalang", Iban Salvador Edú. Nato come calciatore di futsal - un’educazione sentimentale che si intravede nella vorticosità e nella propensione ai trick del suo modo di giocare - Edú ha trascorso i primi anni della sua carriera a L’Hospitalet, in Catalogna, dove per arrotondare faceva la comparsa nelle pubblicità (lavoro che tra l'altro gli ha permesso di conoscere Neymar Jr, di cui ha interpretato la controfigura). Oggi gioca in Polonia, con il Miedz Legnica, ma alle spalle ha già almeno un decennio altalenante in Spagna, dove è passato per il Valencia di Gary Neville (che lo ha fatto esordire in Copa del Rey contro il Barcellona), il Valladolid, il Celta B e infine, appunto, il Fuenlabrada. Alla periferia di Madrid ha trovato la sua dimensione, ma anche una piazza infuocata con cui immedesimarsi: nel luglio scorso, dopo un gol fenomenale al Riazor, è corso sotto la curva dei tifosi del Depor e li ha provocati, inscenando il gesto di mettersi una mano davanti alla bocca. (Nel 2020 il Depor non aveva potuto giocare la sfida decisiva per la permanenza in Segunda B contro il Fuenlabrada perché nei madrileni si erano verificati sette casi di COVID. Il Depor era comunque retrocesso in Segunda B).

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Per approfondire la sua figura ho contattato per email Radosław Bella, suo attuale allenatore del Miedź Legnica, dov'è passato dopo un passaggio solo di qualche settimana al Ceuta. «Eravamo alla ricerca di un attaccante… che sapesse difendere», mi ha detto «Iban è molto aggressivo, applica bene il pressing. Non si tira indietro quando c’è da andare all’uno contro uno anche in fase difensiva, e questa caratteristica ci ha colpiti. Poi ovviamente è forte nei dribbling nello stretto, nei passaggi finali, nelle conclusioni; ma sono abilità dormienti, che può ancora migliorare».Nella prima Coppa d’Africa, disputata con gli "Nzalang" nel 2012, Iban è stato una sorpresa: nel 2015 era già uno dei punti fermi, un trascinatore, fastidioso e pungente; nel 2021 era diventato una specie di Valbuena, «a me, con le dovute proporzioni», mi dice Bella, «per stile di gioco ricorda molto una via di mezzo tra Suso e David Silva», capace tanto di lottare quanto di illuminare la partita con una giocata; esterno coi piedi e la testa da trequartista («per me è un dieci puro», sempre Bella), i capelli tinti di rosso, gli occhi infuocati. «Ha un obiettivo fisso: portare la palla nella metà campo avversaria. Ed ha sempre una buona idea su come farlo».In questa edizione della Coppa d'Africa, Iban ha già segnato un gol piuttosto pesante, e pregevole, con un sinistro di prima dal limite dell’area, i calzettoni calati in maniera iconica, contro la Nigeria.

Ma torniamo alla Guinea Equatoriale, al grande torneo che sta disputando. Il triangolo di centrocampo che costituisce la spina dorsale della squadra di Michá è composta da Pepín Machín, Pablo Ganet e Federico Bikoro.Machín ha smesso da un pezzo di essere l’impertinente e talentuosa mezzala che se ne andava in giro per la Masiadicendo di tifare Real Madrid e arrivava a Roma pieno di speranze: dopo una carriera spesa in giro per palcoscenici minori italiani ha trovato la sua dimensione come centrale di centrocampo attento nelle linee di passaggio e abile nel recupero palla, lasciando a Pablo Ganet – esperto centrocampista oggi all’Alcoyano – la quota creativa del gioco. Una centralità che è stata certificata dal bel gol su punizione con la Costa d’Avorio). Machín è riuscito a formare con Federico Bikoro una diga difficile da arginare, coriacea, scorbutica. Bikoro è approdato quest’anno in Tunisia, al Club Africain, dopo una stagione sfortunata in Norvegia: la sua formazione, però, è tutta spagnola, dal momento che è emerso – seppur mai esploso – nel Real Saragozza. Bikoro non è uno di quei ragazzini che sognavano di diventare calciatori: potremmo dire che ci è diventato nonostante i suoi sogni. Nel suo futuro vedeva una laurea in letteratura francese: poi, subito dopo aver sostenuto gli esami d’accesso all’università, un incidente si è portato via entrambi i genitori. Con quattro fratelli da crescere, Bikoro si è reso conto che fare il carpentiere o il muratore non sarebbe stato di molto aiuto, non sulla lunga distanza: meglio approfittare del talento che la natura gli aveva dato in dono. Questo è definito soprattutto dall'eclettismo: «Ho giocato e gioco in molte posizioni diverse», ha detto, «soprattutto in Africa». «Nel calcio che si gioca per strada, comanda il più forte. E se c’è da giocare in attacco, in attacco ti metti; e se c’è da fare il difensore, lo fai. Io faccio sempre quel che c’è bisogno di fare». Il calcio è così: la regola non scritta dice che è su chi ha più talento, più esperienza, il sangue più freddo che ricadono le responsabilità maggiori.Goleador all’occorrenzaNella seconda partita del girone, nel 4-2 contro la Guinea, Emilio Nsué ha segnato una tripletta: non se ne vedeva una in Coppa d’Africa dal 2008. L’ha fatto a trentaquattro anni e centodieci giorni, il più anziano nella storia della competizione – che sugli anziani, feticci con auree da santoni, ha costruito buona parte della sua mitopoiesi. Il fatto che oggi Nsué giochi nella terza serie spagnola, nell’Intercity di Almeria, facendo il terzino è solo un dettaglio da clickbait, che non tiene conto dell’evoluzione di un calciatore di trentaquattro anni che ne ha viste di tutti i tipi. Di fronte a una frase tipo «sogno di essere il capocannoniere della Coppa per poter un giorno dire a mio figlio che ho fatto più gol io di Osimhen, Mané e Salah» non riesco a trovare il divertimento di una boutade, ma la sincera convinzione di un calciatore che sa che in Guinea Equatoriale vige la regola della strada, quella in cui il leader è il più forte. E si fa quel che c’è bisogno di fare. Nsué è il calciatore di gran lunga più esperto degli "Nzalang", anche a livello internazionale. Nel 2012, quando giocava a Maiorca, aveva già vinto gli Europei Under 19, i Giochi del Mediterraneo e gli Europei Under 21 con la Spagna: il presidente della Federcalcio della Guinea Equatoriale lo aveva cercato per fargli indossare la maglia degli "Nzalang", ma Nsué aveva preferito declinare: «Non ero d’accordo con le sue idee sul calcio, sulla vita. È stato un po’ arrogante con me».Però era combattuto: la testa, racconta, gli diceva Spagna, ma il cuore pulsava forte Guinea Equatoriale. Così, pochi mesi dopo, ha deciso di ripensarci: «Mi hanno detto che ero pazzo», dice oggi ricordando il momento in cui ha comunicato la scelta ai compagni delle giovanili de "La Roja", «ma sapevano che la gente, là, mi amava». A 21 anni, quindi, Nsué conosce per la prima volta il Paese d’origine di suo padre. «Ero curioso di conoscere tutto, le mie radici, il mio sangue, la mia tribù, gli Esseng». Quando arriva, all’aeroporto, lo ricevono «come se fossi Cristiano Ronaldo. Mi sentivo un Dio». All’esordio gli consegnano la fascia da capitano, e lui ripaga la fiducia segnando una tripletta contro Capo Verde. Ma i documenti, fatti in tutta fretta, risultano essere illegali, e la CAF accoglie il ricorso dei capoverdiani annullando il risultato e decretando la sconfitta a tavolino degli "Nzalang". «La colpa è stata per metà mia e per metà loro», riconosce oggi Nsué. Per tutto il corso delle sue peregrinazioni, tra Premier League, Cipro e Bosnia, Nsué non ha mai tolto, dalla scala gerarchica delle sue priorità, la Guinea Equatoriale: neppure nel semestre in cui si è trovato senza squadra, un problema familiare difficile di cui venire a capo e una Coppa d’Africa da onorare. «Scegliere la Guinea Equatoriale è stata la decisione migliore che abbia mai preso in vita mia», dice. Ne sono convinti anche i tifosi, tutti gli abitanti della Guinea Equatoriale, i compagni di squadra, che vivono con lui un sogno a orologeria, quello della Coppa d’Africa, così centrale nelle loro carriere da portarli a vedere lo svolgersi di campionati nazionali, e coppe, e amichevoli come quel qualcosa che succede tra una Coppa d’Africa e l’altra. Un sogno dopo il quale, al risveglio, gli "Nzalang" non riescono mai a capire se sono calciatori che sognano di essere fulmini a ciel sereno, o quei fulmini stessi.

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