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#NBAexit
23 ott 2017
23 ott 2017
Dopo le tante preview della stagione appena iniziata, noi vi presentiamo quella 2021/22 in cui l’NBA diventerà davvero globale.
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Londra, 2 luglio 2021

Lungo i corridoi del Landing Forty Two la tensione è palpabile. Adam Silver, atteso al quarantaduesimo piano per mezzogiorno, è in ritardo di venti minuti. Tra i reporter presenti cominciano a circolare voci di un possibile rinvio della conferenza stampa: il commissioner è noto per l’ossessiva puntualità e il mancato rispetto dell’orario stabilito presta il fianco alla congetture più sfrenate. D’altro canto, la città è quasi paralizzata.

Attraverso le ampie vetrate è possibile scorgere la scia dei fumogeni che sale dalla City, le manifestazioni di protesta contro il governo guidato da Boris Johnson e gli infausti postumi della Brexit bloccano il traffico. Gli scontri tra la polizia e i manifestanti in corso dalle prime luci dell’alba impediscono l’accesso da nord. I cordoni di sicurezza sono saltati alle prime cariche della folla inferocita e la zona attorno alla stazione di Liverpool Street è blindata dagli autoarticolati dell’esercito. Senza dubbio Silver e il suo antico mentore David Stern, richiamato in servizio date le eccezionali circostanze nonostante i 78 anni d’età, tutto si aspettavano tranne che un palcoscenico del genere per il loro grande annuncio.

Come se non bastasse, a guastare ulteriormente il clima era spuntato durante la notte l’editoriale scritto a quattro mani da Zach Lowe e Adrian Wojnarowski su ESPN.com: “La fine della pallacanestro per come la conosciamo”. Pubblicato alle otto di sera orario costa est degli Stati Uniti, il pezzo conteneva sostanziose anticipazioni di quanto Silver e Stern avrebbero rivelato. Mancavano diversi particolari — e non sarebbe potuto essere altrimenti — ma già solo quello che era sfuggito alla rigida consegna del silenzio imposta al quadro dirigenziale era più che sufficiente.

Le speculazioni, a dire il vero, erano cominciate da quasi un anno per poi intensificarsi negli ultimi mesi, ma ora la clamorosa notizia era trapelata: la National Basketball Association avrebbe abbandonato gli Stati Uniti d’America. Per un curioso incrocio di destini, l’hashtag con cui la maggior parte degli utenti aveva accompagnato la condivisione della bomba di ESPN era risultato essere #NBAexit. Il clamoroso successo del pezzo aveva avuto l’effetto di scaldare gli animi di appassionati e addetti ai lavori, accendendo la curiosità a proposito della domanda con cui Lowe e Woj avevano chiuso le loro considerazioni: “l’NBA se ne va dagli Stati Uniti, ma per andare dove?”.

La risposta, articolata fin nelle minuzie, sarebbe arrivata a minuti dalla diretta voce di Adam Silver, ma nel frattempo sul web erano già state lanciate le congetture più varie, da quelle che citavano anonime fonti interne fino alle derive fantascientifiche. Le opzioni più gettonate riguardavano un trasloco in blocco e la fusione con l’Eurolega o con il campionato cinese; le più azzardate andavano da una sorta di circo itinerante stile Harlem Globetrotters fino allo sbarco su Marte con il beneplacito di Elon Musk. Bill Simmons, da qualche settimana direttore esecutivo del nuovo mega-colosso HBO-ABC, le aveva raccolte tutte in un podcast facendole recitare all’attore Rami Malek, premio Oscar per l’interpretazione di Freddy Mercury nel film biografico dedicato al compianto leader dei Queen.

Una decisione che viene da lontano

In molti fanno risalire l’origine della faida tra l’NBA e il governo degli Stati Uniti all’All-Star Game 2017, ovvero alla decisione di abbandonare la location prevista — Charlotte —come atto dimostrativo nei confronti delle locali norme discriminatorie verso la comunità LGBT. E ancor di più alla zingarata di Mark Cuban, sceso in campo nella partita delle celebrità con il numero 46, provocazione allusiva alla volontà di non riconoscere il 45° POTUS, cioè Donald Trump. Di certo nessuno poteva allora immaginare che quello sarebbe stato l’avvio di un processo destinato a travolgere l’NBA e Cuban stesso.

I successivi tre anni hanno alimentato il distacco da un’amministrazione, e un paese, che andavano spediti nella direzione opposta rispetto a quella intrapresa dalla lega. Il rifiuto espresso da Golden State di assecondare la tradizione e visitare la Casa Bianca in veste di campioni, replicato nelle due successive tornate, assomigliava alla classica punta dell’iceberg di un movimento sempre più in difficoltà nella convivenza con la nuova America di Trump. L’ondata di attivismo da parte degli atleti afroamericani, inizialmente incoraggiata da Silver nel tentativo di governarla ed evitare così l’insorgere di ulteriori casi-Kaepernick, è divenuta ben presto incontrollabile.

La rivolta di Los Angeles, scoppiata nell’estate del 2018 a 26 anni di distanza dai celebri riots del 1992 e accesasi dopo l’ennesima vittima di colore caduta sotto il fuoco della polizia locale, ha dato un ulteriore strappo. LeBron James, fresco di triennale con i Lakers, non ha tardato ad alzare il volume delle polemiche proprio durante la conferenza stampa di presentazione in uno Staples Center a dir poco rovente, non solo per la temperatura esterna. La dura condanna della condotta delle forze di polizia, a cui si sono accodate tutte le figure di rilievo — da Silver a Stan Van Gundy, da Steve Kerr a Kevin Durant — ha segnato un punto di non ritorno. La decisione di Trump di dichiarare la legge marziale in tutta l’area metropolitana di L.A. fino al termine dei disordini ha fatto il resto.

Da lì in poi l’NBA, forse suo malgrado, ha rappresentato per molti un punto di riferimento dell’America anti-Trump. La politica, e in particolare un Partito Democratico allo sbando, ha preso nota. Durante la convention di Boston dell’estate scorsa è nata l’idea di puntare proprio su una figura proveniente da quel mondo, ovverosia Mark Cuban. La candidatura del proprietario dei Mavs, nonostante le note simpatie per il Partito Repubblicano, metteva tutti d’accordo: Cuban sembrava l’uomo perfetto per sfidare il presidente uscente sul suo stesso campo. Reduci da un burrascoso rapporto di stima reciproca prima, e altrettanto reciproco disprezzo poi, i due apparivano meno distanti di quanto sembrasse. Nonostante lo scisma dell’ala radicale del partito, indignata per quella che veniva definita una deriva da reality televisivo, il ticket formato da Cuban e da Elizabeth Warren aveva sbaragliato la concorrenza, per la verità piuttosto blanda, vincendo a mani basse le primarie. Cuban e la sua istrionica versione dell’ormai irrinunciabile propaganda populista avevano ridato slancio alle speranze di conquistare la Casa Bianca.

Pur senza mobilitarsi in maniera palese l’NBA, tramite i propri uomini simbolo, appoggiava con forza la campagna elettorale democratica. Tutto, dalle generose elargizioni a titolo personale alle dichiarazioni di voto dei giocatori fino all’impegno in prima persona di Gregg Popovich — appena ritiratosi dopo quasi cinquant’anni di onorata carriera e candidato alla carica di consigliere nel team di Cuban — tracciava con chiarezza le posizioni in campo. Il caos generato dalla successiva rottura di Trump con l’establishment repubblicano e la conseguente decisione di candidarsi come indipendente aveva poi infittito le trame di un confronto elettorale più aspro che mai. La forbice sempre più ampia tra l’America rurale e quella delle grandi città dilaniava il paese: spente le telecamere e i microfoni dopo l’ultimo, accalorato dibattito in cui si era addirittura sfiorata la rissa, in molti incrociavano le dita.

4 novembre 2020

«Il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna»

Aldous Huxley

Era appena scoccata la mezzanotte dell’Election Day più tumultuoso nella storia recente quando i primi risultati definitivi davano forma a quello che appariva sempre più come un incubo — oppure un sogno, a seconda dell’angolo di visuale prescelto. La celebre frase di Aldous Huxley, citata da Gail Collins in apertura del suo editoriale sul New York Times, sintetizzava il senso di quanto accaduto meglio di quanto sarebbe riuscito alle infinite analisi postume. Ben Stasse, candidato di un Partito Repubblicano in coma profondo, aveva finito per raccogliere un misero 11% del voto popolare.

Il fiasco di Sasse lasciava via libera allo scenario ipotizzato dalla maggior parte degli esperti alla vigilia del voto: sfida aperta tra Trump e Cuban. Il testa a testa, durato dall’uscita dei primi exit poll fino alla chiusura dei seggi, proseguiva nelle ore notturne per concludersi con il conteggio definitivo dei risultati dell’Ohio. Con i suoi 18 grandi elettori, lo stato del castagno risultava di nuovo decisivo per le sorti della nazione. Seppur con un margine molto più risicato rispetto a quattro anni prima, Trump strappava infine la vittoria per soli 36.245 voti. All’alba del 4 novembre il secondo mandato veniva ufficializzato nelle parole del presidente Trump: l’America sopra ogni altra cosa.

America above all

Se da un lato il risultato elettorale gettava nello sconforto quella parte d’America che aveva sperato fino all’ultimo di poter voltare pagina, dall’altro i vincitori, forti dell’euforia per un successo ancora una volta inaspettato, non tardavano nel passare dalle parole ai fatti. Il programma “America Above All”, proseguimento dell’originario “America First”, da roboante promessa elettorale si materializzava in disegno di legge con attuabilità immediata. Nonostante l’ostruzionismo dell’opposizione democratica, compatta nel definirla una inaccettabile rappresaglia verso quella fetta di società ribellatasi alle politiche presidenziali, Camera e Senato approvavano il corposo complesso normativo.

Tra i decreti più contestati spiccava il “Cease & Desist Act”, divenuto legge federale nel gennaio del 2021. Un ultimo, labile residuo di correttezza istituzionale impediva di nominare in via diretta l’obiettivo che la legge intendeva colpire, anche se i dubbi sul vero destinatario erano pochi: il “Cease & Desist Act” decretava sanzioni amministrative che aprivano le porte alla perseguibilità in ambito penale per società o associazioni private i cui dipendenti o associati fossero «ritenuti interpreti fattivi di atteggiamenti palesemente oltraggiosi verso istituzioni e alte cariche governative». La legge, come noto, sarebbe poi divenuta famosa con l’appellativo affibbiatole dalla stampa subito dopo la promulgazione: “NBA Act".

Effetto palla di neve

Per l’NBA, il “Cease & Desist Act” era un colpo basso, certo, ma non uno di quelli sferrati a sorpresa. I quattro anni precedenti e il progressivo inasprirsi dei rapporti con la Casa Bianca avevano spinto Adam Silver a prepararsi per il peggio. Come ogni organizzazione ben condotta, l’NBA aveva pronto un piano d’evacuazione necessario a portare in salvo quanto possibile qualora l’alta marea fosse davvero arrivata. I contatti con i gruppi d’investimento e i rappresentanti di organizzazioni governative e sovranazionali, avviati da tempo, si erano fatti più concreti e frequenti. Sull’onda degli screzi sempre più pesanti con gli Stati Uniti e il suo governo, l’ipotesi di rendere l’NBA una lega davvero globale aveva infine preso corpo. Queste sono le vicende note, depurate dalla ridda di voci, ipotesi e teorie scatenatasi negli ultimi mesi e a cui la conferenza stampa indetta a Londra dovrebbero mettere la parola fine.

I-NBA

Il grande orologio a pendolo appeso nell’androne della sala congressi, reliquia vittoriana conservata con britannico fervore, segna quasi l’una quando l’ascensore di fronte all’ingresso si apre. La ressa di giornalisti strabocca dalle ampie porte d’accesso e, in una accidentale parodia di quelle grottesche attrazioni da parco acquatico, tutti voltano la testa all’unisono come delfini ammaestrati. Il mormorio stupefatto riempie lo spazio tra la soglia dell’ascensore e la corsia lasciata libera per far transitare i tanto attesi protagonisti della conferenza stampa. Tra Silver e Stern c’è un ospite speciale, nemmeno troppo inatteso.

La presenza di una leggenda del passato a cui affidare il ruolo di testimonial e volto del nuovo corso era stata ventilata da più parti, ma in pochi avevano azzeccato la previsione sul nome. Come per le ultime due elezioni presidenziali, la cronaca ha surclassato la fantasia: a svettare tra i due dirigenti, dall’alto dei suoi 2 metri e 18 centimetri avvolti in un completo color cammello dall’impeccabile taglio sartoriale, ecco Kareem Abdul-Jabbar. Il volto aperto in un insolito sorriso neanche troppo stiracchiato, il passo lento ma deciso di chi è in procinto di entrare in via definitiva nella storia, non solo in quella del gioco. Parte un applauso timido e un po’ imbarazzato che accompagna il terzetto fino al palco sistemato sul fondo dell’ampia sala. I cronisti accreditati dovrebbero essere un centinaio, ma i posti a sedere sono tutti occupati e, stretti tra porte di sicurezza e corridoi laterali, se ne contano almeno il doppio. Silver sale sul palco e si sistema al centro, Stern e Jabbar restano in piedi ai due lati del leggio. Al commissioner basta solo abbozzare una maldestra prova audio tamburellando sul microfono perché in sala cali il silenzio assoluto. Silver non concede che qualche secondo ai convenevoli, tenendo così fede alla fama di comunicatore efficace ma sbrigativo.

«Sappiamo tutti il motivo per cui vi abbiamo chiesto di essere qui stamattina: abbiamo un annuncio davvero importante da fare. Lasciatemi dire che la giornata odierna per noi rappresenta la fine di un lungo percorso intrapreso più di quarant’anni fa e, allo stesso tempo, il principio di un nuovo, esaltante viaggio. Questo è un nuovo inizio, ma il cammino che ci attende sarà caratterizzato dalla piena continuità con quanto fatto fino ad oggi. Nell’ultima stagione le nostre partite sono state trasmesse in 215 paesi e raccontate in 49 lingue diverse. Quanto stiamo per annunciarvi è il coronamento di un sogno inseguito con testarda fiducia nelle potenzialità del gioco della pallacanestro. È un passo enorme per noi, ci auguriamo e faremo il possibile perché ad accompagnarci siano le persone a cui teniamo di più, i veri protagonisti di tutto questo: i nostri fan. Tutti i nostri fan, che sappiamo bene essere disseminati in ogni continente del mondo. Bene, questo è un gran giorno per tutti noi e soprattutto per tutti voi. Perché oggi, finalmente, la nostra lega diventa globale».

Silver fa appena in tempo a pronunciare l’ultima sillaba che, con tempismo perfetto, lo schermo gigante alle sue spalle si illumina. Tutti i presenti, nessuno escluso, sgranano gli occhi. Sullo sfondo luminoso compare il nuovo logo: il tratto di continuità è visibile nei colori blu, rosso e bianco solo poco più sfumati; per il resto la novità grafica è quella che colpisce al primo colpo. Niente più sagoma di Jerry West, al suo posto proprio Kareem ritratto mentre perfeziona l’immortale gancio cielo. Ecco spiegata la sua presenza e la funzione di ambasciatore cucitagli addosso a dispetto delle relazioni non idilliache coi vertici dell’Olympic Tower.

Foto di Drew Angerer / Getty Images

L’aria dev’essere proprio cambiata, anche perché la National Basketball Association non esiste più. Sotto al logo e al Kareem stilizzato compare il nuovo nome: I-NBA. La sigla viene esplicitata a fianco al logo, Inter-National Basketball Association. Continuità e rottura col passato, come nel preambolo di Silver. Il commissioner interrompe la pausa scenica, studiata per lasciare il tempo di assimilare la novità, e passa con piglio deciso al resto delle tante novità in arrivo. Non appena riprende a parlare, alle sue spalle la schermata sfuma per lasciare spazio a un’enorme cartina con i cinque continenti. Mentre Silver passa in rassegna le trenta nuove squadre, che mantengono il nome della franchigia ma vengono riassegnate in location diverse, sulla cartina compaiono i simboli laddove le squadre troveranno la loro nuova casa. Quello che salta subito all’occhio è il vuoto completo nel territorio degli Stati Uniti, ma questo era ampiamente preventivato; stesso destino tocca in sorte alla Russia di Putin, fedele alleato di Trump e gelosa della propria tradizione cestistica. Anche il territorio della Repubblica Popolare Cinese è sgombro, e solo in seguito verrà reso noto il patto di non concorrenza con la Chinese Basketball Association.

In cambio, il governo di Pechino è stato partner privilegiato nella costruzione della nuove arene, soprattutto per le zone come l’Africa in cui l’inserimento territoriale cinese ha facilitato accordi e collaborazioni che viceversa sarebbe stato difficile finalizzare. Più o meno lo stesso iter ha visto coinvolta l’Eurolega, da subito primo interlocutore nei progetti di espansione. L’idea di base — spiegherà più tardi il dirigente Mark Tatum, a cui è affidato il compito di rispondere alle tante domande dei giornalisti — è che la nuova I-NBA e l’Euroleague possano convivere, tanto è vero che la conference europea non tocca piazze in cui è già presente una squadra con storia e rilievo nella massima competizione continentale. I Raptors sono gli unici superstiti, graziati dalla loro ubicazione a nord del confine canadese. Le novità sono tante, per molti versi spiazzanti e non riguardano solo l’ubicazione geografica.

Global game

La I-NBA, specifica Silver, sarà distinta in sei division dislocate in diverse parti del mondo:

CONTINENTAL

Toronto Raptors

Vancouver Nuggets

Montreal Clippers

Mexico City Mavericks

Havana Magic

LATINO

San Paolo Cavaliers

Buenos Aires Jazz

Santiago Heat

San José Trail Blazers

Panama Lakers

ASIA

Manila Pacers

Tokyo Timberwolves

New Dehli Bulls

Seul Pelicans

Hong Kong Hawks

OCEANIA

Sidney Celtics

Melbourne Suns

Brisbane Hornets

Perth Pistons

Canberra Rockets

AFRICA

Johannesburg Spurs

Kinshasa Warriors

Nairobi Nets

Dakar Kings

Lagos Thunder

EUROPE

London Wizards

Berlin Bucks

Amsterdam Knickerbockers

Oslo Grizzlies

Stockholm 76ers

Il rimescolamento è totale, la configurazione precedente del tutto stravolta. Ogni division, viene spiegato, avrà un portavoce il cui compito sarà promuovere e coordinare le varie attività, dal rapporto coi media locali all’organizzazione di eventi collaterali su cui la I-NBA punta molto per attrarre nuovi appassionati. Steve Nash sarà il volto della Continental, Manu Ginobili della Latino, Lauren Jackson della Oceania, Yao Ming della Asia, Dikembe Mutombo rappresenterà l’Africa e Boris Diaw l’Europa.

«Abbiamo scelto loro perché li riteniamo all’altezza di un compito fondamentale. Crediamo che le loro esperienze di atleti provenienti da posti molto diversi e lontani possano aiutare nel trasmettere un messaggio a cui teniamo moltissimo: non importa da dove veniate o quale sia la vostra religione, il vostro orientamento sessuale o di che colore sia la vostra pelle, la I-NBA è pronta ad accogliere la vostra passione». Silver abbassa i toni e dopo l’enfasi idealista passa a motivare il mantenimento di nomi e loghi con l’intento, già anticipato in precedenza, di stabilire un tratto di continuità con il passato. Il commissioner chiude ringraziando i presenti e passa la palla, in senso letterale, al suo mentore e predecessore.

A Stern tocca presentare il pallone con cui verranno giocate le partite della I-NBA. Visto da lontano non si notano differenze particolari rispetto al classico Spalding del passato, ma i dettagli mostrati dallo schermo alle spalle di Stern rendono l’idea del perché sia stato ritenuto necessario dare risalto a quello che alla fine è poco più di uno strumento di gioco. Le venature portano in leggero rilievo la cartina mondiale, trasformando il pallone in un mappamondo di cuoio pronto a rimbalzare sui parquet dei cinque continenti. Nel suo intervento il patriarca della lega ripercorre le tappe che hanno contraddistinto il percorso verso l’attuale status di prima, vera e unica associazione sportiva globale. Dagli iniziali, timidi tentativi di contatto con l’Europa negli anni Ottanta si passa a quel novembre 1990, quando Jazz e Suns inaugurarono la loro stagione giocando un back to back al Metropolitan Gymnasium di Tokyo. Stern chiude il suo intervento con un annuncio: l’All-Star Game 2022, il primo per la nuova I-NBA, si giocherà proprio a Tokyo per celebrare quella che fu la prima gara ufficiale disputata fuori dai confini statunitensi.

È quindi il turno di Kareem, uomo simbolo del nuovo corso. Il suo discorso vola alto, citando nell’ordine Martin Luther King, Gandhi e Nelson Mandela. Jabbar fa sapere che si occuperà dei progetti a scopo sociale che la I-NBA istituirà, soprattutto programmi di scolarizzazione e inserimento lavorativo nelle aree più bisognose delle città in cui avranno sede le nuove franchigie. Si tratta della naturale evoluzione di NBA Cares, potenziata e irrobustita. Anche Kareem chiude con un annuncio, anzi due. Il prossimo Draft, il più atteso degli ultimi anni grazie alla tanto chiacchierata presenza della probabile prima scelta assoluta LeBron James Jr., si terrà a Kinshasa. Il Draft, sottolinea Jabbar, sarà accompagnato da una serie di eventi che ricorderanno la celeberrima Rumble In The Jungle, il cui teatro nell’ottobre del 1974 fu proprio la capitale congolese. E il riferimento al leggendario match tra Alì e Foreman non è affatto casuale. Il miglior giocatore della I-NBA riceverà infatti il premio ora rinominato “Muhammad Alì Trophy" perché, come un Jabbar visibilmente emozionato tiene a ricordare, «se siamo qui è perché abbiamo potuto osservare il mondo sulle spalle dei giganti che ho nominato prima e, parlando di sport, non potevamo non ricordare il più grande di tutti».

Esauriti i fuochi d’artificio della retorica, la parte più complicata spetta a Mark Tatum, il vice di Silver, fin lì rimasto seduto dietro al palco. Tatum illustra innanzitutto il dipanarsi della prima annata della I-NBA. Niente Summer League, sostituita da un torneo che si terrà tra settembre e ottobre. La formula, a metà tra la classica preseason e i Global Games, prevede che ogni due giorni venga presentata al pubblico una nuova franchigia. Dopo la presentazione, la squadra si metterà in viaggio con destinazione la città oggetto della presentazione successiva, in cui disputerà una partita il giorno stesso.

Inizieranno i Manila Pacers, che voleranno verso Tokyo; poi i Timberwolves si trasferiranno verso New Dehli e così a seguire fino al grande appuntamento tra Kinshasa Warriors e Berlin Bucks, riedizione delle ultime Finals che si terrà a Berlino tre giorni prima dell’avvio della stagione vera e propria. La regular season durerà da novembre a maggio e sarà costituita da 66 partite: un sogno per ogni appassionato di lungo corso, mitigato dalle evidenti complicazioni logistiche. Ogni squadra giocherà quattro volte contro le avversarie della propria division, due in casa e due fuori, e due volte contro le altre venticinque, una sfida tra le mura amiche e una in trasferta. Il nuovo calendario della stagione regolare, inviato in tempo reale a tutti i giornalisti accreditati tramite la cartella stampa elettronica, dimostra come la I-NBA abbia cercato di ovviare alle intuibili difficoltà dovute alle lunghe trasferte.

Di fatto le singole division si muoveranno in blocco per una specie di road-show: ad aprire le danze sarà la Europe che a inizio novembre sarà in trasferta ospite dell’Oceania; quindi toccherà alle squadre africane visitare la Continental, e così via a turno. Abolito il concetto di conference, correzione auspicata da buona parte di tifosi e addetti ai lavori, alla post season accederanno le sedici con il miglior record. E qui, non soddisfatto delle sostanziali novità poggiate sul tavolo, Tatum cala la scala reale. Anche il concetto di playoff per come lo si conosceva è in sostanza abolito. Al termine della stagione regolare, difatti, le sedici qualificate prenderanno parte a un torneo a eliminazione secca, sul modello delle competizioni FIBA per rappresentative nazionali. Le gare si articoleranno nell’arco delle prime due settimane di giugno e ad ogni edizione verrà scelta una location diversa. La prima si terrà proprio a Londra, sede degli uffici centrali della nuova lega, nella cornice della rinnovata e ampliata O2 Arena.

L’intenzione della I-NBA è quella di rendere i nuovi playoff un evento quanto più possibile simile alle Olimpiadi: intorno alle arene in cui verranno giocati i playoff verrà costruito una sorta di villaggio che ospiterà non solo giocatori e staff tecnici, ma anche giornalisti e tifosi, con alloggi esclusivi a distanza di pochi metri dai campioni preferiti. I nuovi playoff dovranno essere una festa per i fan di tutto il mondo lunga due settimane, in tutta l’area dedicata saranno presenti palchi per spettacoli e intrattenimento, oltre all’immancabile zona food&beverage. Responsabile del progetto è niente meno che Shawn Carter, meglio noto come JAY Z. Nel suo incarico, ufficialmente denominato Team Marketing & Business Operations, l’ex-Re Mida dell’hip-hop che ormai da anni si dedica alle sue attività imprenditoriali, completa il quintetto formato da Silver, Tatum, Stern e Jabbar.

Viene mostrato un breve contributo video di Carter che dalla sua villa nel cuore del Vedano all’Avana, eremo da cui coordina tutte le sue attività dopo la burrascosa separazione da Beyoncé, illustra il calendario della prima edizione londinese. Gli ospiti speciali che animeranno le tre serate sgombre da impegni agonistici rendono l’idea delle ambizioni della I-NBA e sembrano voler rimarcare, senza esplicitarla, la distanza dall’amministrazione Trump. Lady Gaga, Miley Cirus e Kendrick Lamar, oltre a essere le tre mega-star più acclamate della musica mondiale, condividono infatti un’altra particolarità: come JAY Z hanno deciso da tempo di vivere fuori dagli Stati Uniti.

Non bastasse, il pomeriggio della finale la O2 sarà teatro dell’anteprima mondiale dell’attesissimo blockbuster Wall of Shame, firmato a quattro mani dal duo Guillermo Del Toro/J.J. Abrams. Finanziato tramite la più grande opera di crowdfunding della storia, espediente adottato in modo da aggirare le restrizioni previste dal “Cease & Desist Act" per le produzioni delle grandi major americane, il film racconterà la costruzione del mastodontico muro al confine tra Messico e Stati Uniti. Basato sull’omonimo romanzo della scrittrice Naomi Alderman, Wall of Shame si preannuncia come il capitolo più clamoroso dell’ormai lunga lista di pellicole a tema retro-distopico, nuovo genere con cui gli autori intendono mostrare al pubblico come la quotidianità abbia superato di gran lunga le stravaganze di cinema e letteratura fantascientifica.

Si passa alle domande dei giornalisti, inviate tramite l’apposita app scaricabile dalla cartella stampa elettronica e visualizzate sul grande schermo dietro al palco. Tatum risponde con pacatezza a ogni quesito, anche a quelli alimentati dalle prime reazioni di Trump e del suo staff, arrivate in tempo reale sui social network. Il primo cita proprio il tweet presidenziale che paragona Silver e soci a quegli imprenditori che portano la loro mano d’opera all’estero perché incapaci di reggere nello spietato sistema competitivo a stelle e strisce. Tatum non replica all’accusa, limitandosi a ribadire come la scelta di espandersi nel mondo rappresenti una legittima decisione d’affari in linea con la storia dell’NBA.

L’accenno al versante business della vicenda scatena una serie di domande che riconducono al medesimo interrogativo: è vero che la scelta di abbandonare il mercato americano è maturata parallelamente alla convinzione, confortata dai numeri, che MLB e soprattutto NFL fossero irraggiungibili quanto a volumi d’affari? Tatum non commenta i sibillini riferimenti alle voci secondo cui, dietro alla patina di straordinario successo commerciale, l’NBA soffrisse di una grave crisi di liquidità, malanno che dalle realtà posizionate in mercati secondari aveva finito per contagiare le piazze più blasonate. Tatum si limita a ribadire come lo stato di salute economico e finanziario rimanga ottimo e le decisioni prese abbiano il solo obiettivo di migliorarlo. Lo stesso ritornello viene usato per confutare l’ipotesi, anche questa invero sibillina, secondo cui la scelta di Londra come sede sia un malcelato sgarro alla NFL. Da tempo, infatti, la NFL ha scelto la capitale britannica come possibile sede della prima franchigia fuori dagli Stati Uniti, senza mai però passare alla fase operativa.

Scansate le polemiche politiche con la scelta di far rispondere il vice-commissioner, il senso della narrativa costruita attraverso le parole di Tatum non riesce ad offuscare un concetto chiaro a tutti: l’NBA così com’era faticava a stare in piedi dal punto di vista economico, bisognava trovare mercati su cui espandersi. Diritti tv e merchandising non bastavano più, il legame instauratosi con la base di appassionati attraverso device e schermi di ogni gamma e dimensione era andato esaurendosi. Occorreva portare il gioco nel giardino di casa dei nuovi potenziali tifosi.

In maniera tutt’altro che casuale, la domanda successiva riguarda il coinvolgimento dei giocatori in questo cambiamento epocale. Tatum conferma che l’associazione giocatori ha seguito il processo decisionale venendo informata passo per passo. «E ti credo», mormora qualcuno tra i cronisti, visto che per come stavano le cose rinnovi sulla scia di quello recentemente sottoscritto da Anthony Davis con i Celtics — 210 milioni di dollari per 4 anni — sarebbero stati insostenibili nel medio-lungo termine. I giocatori, insomma, hanno accolto con favore una metamorfosi in grado di mantenere il livello stratosferico raggiunto dai loro stipendi, garantendo al contempo nuovi orizzonti di notorietà con intuibili ritorni in termini di sponsor e contratti pubblicitari. Nessuno tra la platea e il palco sente la necessità di ribadirlo, ma anche i proprietari sono stati ben lieti di aderire a una proposta in grado di riportare in utile i loro investimenti.

Le reazioni al clamoroso annuncio rilasciato da Silver intasano la rete, si va dal freddo disdegno del commissioner NFL Mike Ditka («Sono un’impresa privata, possono fare ciò che vogliono. Noi rimaniamo orgogliosamente americani») ai numerosi meme con protagonisti Silver e Stern, LeBron James e Jabbar, dipinti come latitanti che abbandonano la patria per esotici paradisi fiscali dove continuare ad arricchirsi. A rincarare la dose c’è il commento di Robert Ritchie, più noto con in nome d’arte di Kid Rock. Il portavoce della Casa Bianca, in carica dallo scorso febbraio, ha paragonato la neonata I-NBA ai survivalisti, movimento in vertiginosa ascesa durante la presidenza Trump. «Proprio come questi gruppi comprano terreni in zone remote di altri continenti nella speranza di trovare riparo dall’imminente apocalisse a stelle strisce, l’I-NBA», sostiene Ritchie, «abbandona i cittadini degli Stati Uniti senza alcuno scrupolo patriottico». Poco male, si legge nella nota che porta in calce lo stemma presidenziale, la pallacanestro è come la torta di mele e la libertà: un prodotto americano fino al midollo.

Ritchie conclude rendendo noto che i preparativi per la costituzione di una nuova lega americana sono già a buon punto. Spencer Hawes, ex-giocatore e stimato consigliere della presidenza in ambito sportivo, è stato individuato come ideale portavoce di quella che nelle intenzioni dovrebbe essere un’edizione rinnovata della mitica American Basketball Association. Sul web circolano già foto di Hawes avvolto nella bandiera che mostra orgoglioso un pallone bianco, rosso e blu proprio come quello reso celebre dall’ABA. Tatum non perde la compostezza, limitandosi ad augurare il meglio a chiunque intraprenda un’iniziativa tesa a promuovere lo sport e lo spirito della competizione. Quanto a provocazioni, tuttavia, il peggio deve ancora arrivare.

La minaccia del verme

Mark Tatum si è appena congedato, quando gli smartphone dei presenti cominciano a vibrare come in preda a una crisi di nervi corto-circuitale. La piccola folla che sciama verso gli ascensori inciampa, si blocca con il naso incollato allo schermo, scambia occhiate di sbigottimento. Nemmeno il tempo di assimilare le tante novità da poco svelate che l’asticella dello sconcerto viene alzata e non di poco. All’interno della preventivabile sequela di reazioni, caratterizzate da prese di posizione nette a favore di una delle due nuove leghe, qualcuno di piuttosto noto su entrambi i versanti dell’oceano ha deciso di portare lo scontro a un altro livello.

Foto di Kim Won-Jin / Getty Images

In un video palesemente confezionato per essere diffuso subito dopo l’annuncio di Silver, il neo-Comandante Supremo dell’Armata del Popolo Coreano dichiara al mondo che il suo paese non riconosce la legittimità della nuova I-NBA e in particolare della nuova franchigia con sede a Seoul. Mentre accarezza l’ormai immancabile Shirley, la tigre bianca che lo accompagna in ogni uscita pubblica e ritenuta la reincarnazione della madre scomparsa pochi mesi prima, Dennis Rodman avverte i suoi ex-colleghi che questo oltraggio non può essere e non sarà tollerato. In linea con il ruolo di agente diplomatico che gli è valso la nomina all’alta carica militare dopo la sigla dell’accordo di Berna tra Trump e Kim Jong-un nel precedente marzo, Rodman si dice pronto a sostenere e promuovere la ABA. Il video si chiude con la promessa di un’imminente amichevole tra una selezione della nuova ABA capeggiata da Hawes e la nazionale nord-coreana, da tenersi nella rinnovata Pyongyang Arena.

L’American Basketball Association, nata dalle ceneri fumanti lasciate dall’abbandono di Silver e soci, sembra godere di un sostegno internazionale non indifferente. Pur senza far trapelare velate minacce nello stile di Rodman, solidi alleati dell’amministrazione Trump come Russia, Ungheria, Arabia Saudita e Turchia esprimono solidarietà. Tutti confermano di vedere con favore la creazione di una lega che, nelle parole del ministro dello sport russo ed ex-stella della NHL Semyon Varlamov, «non rinuncia al convinto mantenimento della propria identità nazionale». Concetto ribadito anche nella nota ufficiale firmata da Hawes arrivata subito dopo la diffusione del video di Rodman. Il fronte pro-ABA, insomma, pare trovare la propria raison d’être nella comune avversione per il tratto internazionalistico e multiculturale della I-NBA. Qualcuno tra i cronisti presenti cerca di rincorrere Tatum per strappargli un commento, ma la dirigenza ha già lasciato l’edificio.

La prima replica arriva dal profilo twitter di JAY Z che mette il punto a una diatriba che appare comunque destinata a deflagrare nei prossimi mesi. In attesa di nuove, sorprendenti mosse da ambe le parti, la folla abbandona il Landing Forty Two recitando il tweet come un mantra: «I got 99 problems but ABA ain’t one».

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