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Foto di Ezra Shaw/Getty Images
NBA Dario Ronzulli 31 ottobre 2019 5'

La stagione di Golden State è già finita?

L’infortunio di Steph Curry potrebbe essere il punto di non ritorno dei vice-campioni in carica.

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L’anno zero, o di transizione, o di ricostruzione, o come preferite chiamarlo dei Golden State Warriors rischia seriamente di trasformarsi in una via crucis sportiva. La squadra che ha dominato l’ultimo lustro con tre titoli, cinque finali e un’impronta unica nella storia del gioco non c’è più – e questo lo sapevamo già. Senza Kevin Durant e con Klay Thompson in infermeria, senza Andre Iguodala e Shaun Livingston in uscita dalla panchina, era scontato che per i californiani l’annata sarebbe stata dura. Però con Draymond Green e con Steph Curry l’idea di un posticino nei playoff pur nella giungla della Western Conference non appariva poi così peregrina.

 

Almeno fino a stanotte, fino a questa caduta.

 


Con la partita già compromessa dopo un primo tempo da 72-46 per i Phoenix Suns, Curry prova a dare una scossa e di orgoglio ai suoi attaccando il ferro. Il problema non è tanto come appoggi la mano sul parquet, quanto piuttosto Aron Baynes che gli frana addosso con il polso ancora piegato.

 

Non sappiamo ancora di preciso l’esatta entità della frattura alla mano sinistra di Curry (pare si tratti del secondo metacarpo), e soprattutto se ci vorrà un intervento chirurgico o se invece si potrà effettuare una terapia conservativa. Fatto sta che è altissimo il rischio di non vedere Steph sul parquet per un tempo sufficiente a spezzare i sogni stagionali degli Warriors. E non è che fossero già particolarmente audaci.

 

Il ritorno sulla terra degli Dei

Ci sono due frasi di Steve Kerr in questo inizio di stagione che fotografano alla perfezione lo stato delle cose. La prima l’ha detta dopo la sconfitta nella partita d’esordio contro gli L.A. Clippers: «Perdere fa schifo e non è divertente, ma questa è la realtà della NBA: negli ultimi cinque anni abbiamo vissuto in un mondo che in teoria non dovrebbe esistere». La seconda è arrivata invece dopo l’unica vittoria ottenuta sin qui contro i New Orleans Pelicans: «Non possiamo trasformare Curry in James Harden e dargli il pallone ad ogni azione: non abbiamo i giocatori adatti per supportare questo tipo di gioco».

 

Ecco, il roster degli Warriors non è un roster all’altezza dell’Ovest e in più resta il dubbio che non sia il migliore possibile – considerando le esigenze di ricostruzione – da affiancare al talento di Curry. È un dubbio che non ci toglieremo in tempi brevi, per quanto le qualità umane e tecniche del due volte MVP gli abbiano permesso nel corso degli anni di modificare il proprio gioco adattandosi ai compagni senza perdere di efficacia. Di certo c’è che senza la capacità del nativo di Akron di creare canestri dal nulla, il già problematico attacco Warriors va incontro a serate ancora più difficili di quelle vissute fin qui.

 

 

I primi due canestri dell’orribile partita contro i Thunder li mette Curry da Curry: due triple senza ritmo di cui una da 8 metri. Stendiamo un velo pietosa sul resto degli attacchi Warriors del primo quarto, quello che di fatto ha indirizzato la partita.

 

Se l’attacco ha latitato, la difesa è stata fin qui il vero tallone d’Achille di Golden State – drammaticamente ultima per defensive rating, mentre il net rating è migliore solo di quello di Grizzlies e Kings – tanto che Draymond Green non ha usato molti giri di parole: «Al momento la nostra difesa non esiste, credo che al momento non sappiamo proprio cosa sia la difesa». Non è l’assenza di Curry che può cambiare le cose in tal senso: anche nei momenti più aulici, coprire le lacune difensive del numero 30 era uno dei focus della banda di Kerr. E non è Curry il fattore che causa il 52.1% dal campo che la squadra concede in questo inizio di stagione, decisamente la percentuale peggiore di tutta l’NBA. 

 

Per dare un’idea: l’anno scorso concedevano il 44.4% agli avversari su 90 tiri di media, praticamente lo stesso numero di conclusioni che hanno subito in queste quattro partite. Quel sistema di aiuti, rotazioni e cambi sistematici non può essere ripetuto dalla sera alla mattina con altri giocatori che hanno molto meno talento di chi li ha preceduti. Ecco che dunque il ko di Curry chiama più responsabilità per gli altri (a partire da D’Angelo Russell) in attacco ma non cambia il discorso per l’aspetto difensivo che a prescindere avrebbe avuto bisogno di maggior lavoro e accorgimenti diversi.

 

Come trasformare una tragedia in opportunità

Nelle ultime sette partite ufficiali i Warriors hanno perso per infortunio Durant, Thompson e Curry, come se tutta la sfortuna di cinque anni si fosse condensata in una grandinata acida. Ora che la favola si è infranta, anche le speranze di fare i playoff crollano miseramente. Diventa allora una stagione fondamentale per lavorare con più tranquillità sui giovani – sono in nove nel roster ad avere meno di 23 anni, come ci tiene sempre a ricordare Kerr – senza l’assillo del risultato da raggiungere ad ogni costo. Dal momento che qualità dei nuovi arrivi e ambizioni di post-season 2020 paiono due binari paralleli destinati a non incontrarsi, con le seconde che vanno in archivio forse i primi potranno lavorare senza troppe ansie. 

 

La frattura della mano sinistra di Curry ha squarciato il sottile velo che copriva Golden State, un velo che probabilmente non permetteva di comprendere in pieno la vera realtà della NBA, per riprendere le parole di Kerr. Ora non c’è più modo di nascondere la situazione, ora c’è paradossalmente la possibilità di focalizzarsi meglio su cosa c’è da fare senza pensieri del tipo “Oh, tanto c’è Steph, ci pensa lui”. Tenendo tuttavia conto che figuracce come quelle fatte fin qui – 37 punti in un tempo ad Oklahoma City prendendone 70 e 46 in un tempo contro Phoenix subendone 72 con un parziale di 30-1 – non sono comunque le benvenute, a maggior ragione per una franchigia che ha una luminosa storia recente e che ha investito tantissimi dollari nel nuovo impianto con tutto quello che ha comportato in termini economici e architettonici.

 

Curry non era ancora uscito dal campo per farsi medicare che il dibattito era iniziato a ritmi vorticosi: gli Warriors ora tankeranno? Proveranno a perderle tutte per tenersi la scelta protetta 20? Faranno come i San Antonio Spurs che nel 1997 persero David Robinson per infortunio e si ritrovarono con la scelta numero 1, ovvero con Tim Duncan? A parte che un Duncan all’orizzonte non sembra esserci, parliamoci chiaro: ce li vedete gli Warriors passare un’intera annata a non giocare? Ce li vedete Green e Kerr dare qualcosa in meno per arrivare dietro tutti? Non è quello a cui ci hanno abituato negli ultimi anni, né il modo in cui approcciano la pallacanestro. Poi magari alla fine avranno un record migliore solo di una-due-tre squadre perché il talento, specialmente se Curry dovesse saltare interi mesi di regular season, è quello che è. Ma non certo perché l’avranno studiato a tavolino.

 

 

Tags : golden state warriorssteph currysteve kerr

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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