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Solo - a LeBron James Story
28 mag 2018
28 mag 2018
LeBron James, mai così uomo solo al comando, è riuscito per l’ottavo anno consecutivo a trascinare i compagni fino alle Finals
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In questa stagione, raggiungere la cima della montagna salendo dalla parete Est ha significato arrampicarsi lungo un crinale irto come poche volte in passato. Per arrivare a respirare l’aria rarefatta delle NBA Finals e provare a sfidare i titani in cammino da Ovest, Boston Celtics e Cleveland Cavaliers sono passati attraverso un primo turno sfiancante, per poi riprendere fiato in un illusorio intermezzo al passaggio successivo. Imboccato l’ultimo tornante, entrambe le squadre hanno rispettato un copione che voleva l’equilibrio regnare in quello scontro che, non fosse stato per il ginocchio sinistro di Kyrie Irving, avrebbe potuto trasformarsi nel tanto atteso potenziale primo capitolo della saga LeBron versus Kyrie cominciata la scorsa estate. Gara-7 è stato quindi l’approdo logico di una battaglia annunciata, atto finale a cui le due pretendenti sono arrivate con presupposti alquanto diversi.

Quasi un miracolo, parte prima

Che i Celtics, privati di Gordon Hayward dopo pochi minuti dal fischio d’inizio della stagione e di Irving sul finire della regular season, non avrebbero in teoria dovuto arrivare a una vittoria dalle Finals è opinione condivisa. Tra la teoria e la realtà, tuttavia, è subentrato il lavoro di un autentico fuoriclasse della panchina di nome Brad Stevens. Boston ha costruito le sue fortune in questi playoff tra le mura del TD Garden, dove prima della sfida di ieri notte vantava un record di dieci vittorie e zero sconfitte. Allo stesso modo, nella serie con Cleveland i biancoverdi si sono dimostrati imbattibili sul parquet di casa, dove a fare la differenza è stata soprattutto l’intensità a rimbalzo. Se infatti le percentuali dal campo di Terry Rozier e compagni non hanno subito variazioni tra vittorie (43.7% con il 34.3% da tre) e sconfitte (43.8% e 34.6% da tre), la media dei rimbalzi catturati è calata drasticamente nelle partite giocate in Ohio, tutte perse, passando da 46.3 a 34.

Paradossalmente, a risentire meno dello sbalzo tra casa e trasferta sono stati i due giovanissimi Jaylen Brown e Jayson Tatum, migliori marcatori in maglia Celtics capaci di garantire continuità al tiro e contributi su entrambi i lati del campo in tutte e sei le partite fin lì disputate. Al contrario Al Horford, ancora difensiva e barometro tattico della squadra, nel confronto con i vice-campioni ha confermato la tendenza a crollare lontano da Boston. L’enorme differenziale del suo rating difensivo rilevato tra le sfide vinte (85.9) e quelle perse (115-9) traccia con nettezza l’influenza che l’ex Atlanta Hawk ha esercitato sul risultato delle singole gare.

Quasi un miracolo, parte seconda

Il cammino di Cleveland nella post-season, volendo vedere, non è stato poi così diverso rispetto a quello dei ragazzi di Stevens. Se è vero che i Cavs hanno strappato tre vittorie in trasferta contro una sola dei Celtics, va detto che due di queste sono maturate a Toronto nei meandri di una serie finita prima ancora di cominciare. A differenza di Boston, però, a sancire il successo di LeBron e compagni nella serie è stata la percentuale dal campo, eccellente nelle vittorie (48-8% con il 42.5% da tre) e pessima nelle sconfitte (41.3% e 25.3% da tre). Le percentuali registrate nelle sei gare contro i Celtics hanno confermato una tendenza già evidente in stagione regolare e acuitasi con l’inizio dei playoff.

Tutto questo ammesso e non concesso di attribuire un significato alle statistiche di squadra, perché, quest’anno come non mai, i Cavs sono arrivati laddove LeBron James li ha portati. Le sue statistiche personali nelle prime sette sfide della serie recitano 33.6 punti di media, tirando con il 53.6% dal campo e il 41% da tre, 9 rimbalzi e 8.4 assist a fronte di 5.7 palle perse, rimanendo in campo per più di 41 minuti a partita. Sono, in buona sostanza, le surreali medie tenute in questi playoff, con un notevole incremento dell’accuratezza nel tiro dalla lunga distanza nel momento più difficile (34.1% la media considerando i turni contro Indiana e Toronto). Nella serie, l’unico compagno in doppia cifra di media per punti è stato Kevin Love (12.5), uscito però anche lui nelle ultime due gare per una commozione cerebrale. Per il resto, a parte George Hill (9.6) nessuno ci si è nemmeno avvicinato. Non va meglio se si considerano gli assist serviti ai compagni, dove il secondo dietro a James è sempre Love con 2.3 di media. Dopo aver giocato la sua centesima partita della stagione, dopo aver guidato la lega sia in regular season che nei playoff per minuti giocati, quello che si è aperto davanti a LeBron è un territorio inesplorato anche per lui. Al di là delle considerazioni astratte, questo supporting cast si è rivelato il più scarso di cui ha potuto disporre nella sua carriera, per distacco il peggiore da quando è salpato verso South Beach nel 2010, ovvero da quando ha regolarmente portato le sue squadre alle Finals.

La gara-7 degli assenti

Il primo obiettivo di serata per coach Tyronn Lue è quello di bilanciare l’abitudine, ormai consolidata per i Celtics, a giocare nonostante le assenze. Privi delle loro due stelle acquisite in estate, Horford e compagni hanno avuto il tempo e la bravura di adattarsi a un contesto tecnico più volte mutato nel corso della stagione, basando tutto sulla loro incredibile versatilità difensiva. Non che i Cavs, la cui identità veniva stravolta in dirittura della trade deadline lo scorso febbraio, siano alieni al cambiamento; tuttavia l’assenza forzata di Love, alla cui uscita dal campo dopo soli cinque minuti in gara-6 aveva fatto seguito un’eccellente prestazione dell’eterno incompiuto Jeff Green, ha forzato il coach di Cleveland a modificare u quintetto ormai testato dalle battaglie precedenti.

Confermato Green, ex della serata, dall’altra parte Stevens ha risposto con un’altra conferma, ovvero Aron Baynes subito sul parquet. I due hanno cominciato marcandosi reciprocamente, un mismatch che due sere prima aveva detto bene ai Cavs. La consueta intensità mostrata dai Celtics segna un inizio concitato, dove James punisce i cambi che lo lasciano in isolamento contro i lunghi avversari.

La replica di Boston è tutta nel talento e nell’arroganza di un ragazzo da poco divenuto ventenne e alla sua prima esperienza ai playoff.

Il tema tattico del primo quarto vede Stevens ribaltare a proprio favore un espediente usato dal coaching staff avversario durante la serie. Quello che i Cavs hanno fatto a Terry Rozier, forzando i cambi difensivi per sfruttare il vantaggio in termini di stazza dei loro esterni, i Celtics lo hanno replicato con George Hill, non avendo neanche il lento Kevin Love da poter puntare. Tatum, Brown e Horford hanno trovato così punti facili in avvicinamento al canestro. Il libero di James che porta i suoi in momentaneo vantaggio sul 16-15 è solo il terzo sorpasso in una serie dove chi si è portato avanti da subito ha poi mantenuto il vantaggio fino alla fine. Lue a quel punto ha deciso, al contrario di quanto fatto in precedenza, di non raddoppiare su Horford che dal post ha distribuito per i compagni o segnato nei pressi del ferro. Il 9-0 di parziale che chiude il primo quarto spinge Boston al controllo della gara, perdendo il primo pallone solo dopo 17 minuti abbondanti di gioco. In quel momento in cui avrebbero dovuto ammazzare un avversario sanguinante, però, la mano dei ragazzi di Stevens si è raffreddata improvvisamente e Cleveland, in un modo o nell’altro, è rimasta attaccata alla partita ritrovando J.R. Smith, autore finalmente della sua prima tripla della serie al TD Garden.

L’assist di LeBron, neanche a dirlo, è cinque stelle extra lusso.

Il territorio del Re

Dopo l’intervallo lungo, come si conviene ai canoni di una gara-7, le difese sono salite di un livello e gli attacchi sono scesi di almeno un paio, dando vita a una gara tanto intensa quando brutta esteticamente. Con un Terry Rozier inguardabile (2/14 al tiro di cui 0/10 da tre dopo i 27 di gara-6), i Celtics hanno trovato l’unico appiglio per creare attacco in quello che, ormai è chiaro a tutti, resta il loro miglior giocatore, e solo incidentalmente è anche il più giovane a roster.

Dall’altra parte LeBron ha provato a caricare i compagni, fino a quel momento piuttosto spaesati, distribuendo palloni che andrebbero ascritti alla categoria “James per il sociale”. La strategia del Re però funziona e i Cavs piazzano un parziale di 8-0 che li porta in vantaggio sul 55-51 e l’inerzia improvvisamente in loro favore. In quel momento la gara si accende: prima James perde un pallone con leggerezza per poi effettuare un recupero con inchiodata su Rozier che, al netto della generosa quantità di mano colpita dal Re commettendo fallo, quell’età e a questo punto della stagione non dovrebbe essere nemmeno immaginabile.

Nonostante il vantaggio di tre punti maturato nella terza frazione, l’ultimo quarto non si apre bene per Cleveland che rimedia un’infrazione di metà campo per effetto della pressione difensiva biancoverde. Non bastasse, Horford esalta ulteriormente il pubblico di casa realizzando l’alley-oop con fallo che porta a 17 i suoi punti nella gara, di cui però solamente tre sono arrivati nel secondo tempo. Il sorpasso Celtics è il primo registrato nel 4° quarto in tutta la serie, mentre Tatum e Brown continuano a giocare palloni dall’enorme peso specifico con naturalezza surreale per la loro età. Nel frattempo, James commette il suo quarto fallo e quando mancano 7 minuti alla sirena finale la sfida è in perfetto equilibrio. LeBron, preso in marcatura singola da Horford, segna subito un canestro che porta il suo marchio distintivo, avendo ormai reso automatico quel difficilissimo appoggio al tabellone in controtempo (chiedere a Toronto per informazioni).

La risposta della squadra di casa è ancora una volta nelle mani del rookie col numero zero, che prima schiaccia in faccia a LeBron, senza risparmiarsi l’esultanza euforica gridata all’orecchio del Re, e quaranta secondi dopo segna una tripla che fa esplodere il TD Garden e mette di nuovo avanti i Celtics con l’inerzia dalla loro parte a sei minuti dalla fine.

Jeff Green, autentica monetina lanciata in aria da coach Lue sperando nel buon esito della scommessa, raffredda gli animi con una tripla dall’angolo di importanza capitale. Marcus Morris invece si produce nella miglior difesa possibile su James, ma i Cavs trovano comunque la via del canestro sull’asse LeBron-Thompson che da gara-3 in poi ha fatto male ai Celtics, non fosse altro per le attenzioni che LeBron chiama ogni volta su di sé. Coach Stevens a quel punto ha provato a rimettere in campo Rozier per Brown, puntando su un quintetto con maggiori qualità di trattamento palla e tiro dalla distanza. Il tentativo di recupero, però, cade nel vuoto perché i due minuti finali sono territorio esclusivo del Re. Il leader dei Cavs, che fin lì aveva dato qualche segnale di stanchezza — e vorrei vedere, dopo non aver riposato neanche un secondo — nella selezione dei tiri e nelle letture offensive, regala le due giocate in campo aperto che sigillano il risultato, mostrando una lucidità di lettura e un’accelerazione che non dovrebbe essere permessa a un essere umano con quelle responsabilità sulle spalle.

Solo

Gli splendidi ragazzi di coach Stevens si fermano a un passo dalla vera gloria. Poco importa, perché quello che hanno fatto vedere lungo tutta questa stagione tormentata dagli infortuni non può che rappresentare la base su cui costruire un futuro radioso. Oltre a un’identità di squadra distintiva come poche, l’impressione è che questi Celtics possano attendere con tranquillità il rientro di Hayward e Irving, forti della convinzione di aver pescato in Tatum una stella di assoluta grandezza e che il loro allenatore trovi un modo di rendere utile in campo anche l’ultimo dei panchinari.

Cleveland, dall’altra parte, soffrendo come solo una squadra che si nutre di drammi può fare, arriva ancora una volta in finale. Anche a questo giro, i Cavs partono svantaggiati contro le corazzate della Western. Ora come non mai, tutto il peso del destino grava sulle spalle di LeBron James, deus ex-machina che con il suo straordinario talento è riuscito a compensare le tante falle di un roster oggettivamente mediocre. Considerato l’arco ormai ampio della sua carriera, risulta difficile collocarvi la recente impresa: utilizzando un paragone forse improprio con la storia dell’arte, si potrebbe azzardare che laddove i due titoli vinti con gli Heat hanno rappresentato il suo Cenacolo e la sua Monna Lisa, e quello con Cleveland del 2016 la sua Cappella Sistina, questi playoff potrebbero essere considerati la sua Guernica. Un’opera sofferta, contraddittoria, dalla simbologia forte quanto spiazzante, un capolavoro destinato a rimanere potentissima allegoria negli anni a venire.

Apparso tanto felice quanto esausto al fischio finale di gara-7, in questo momento diventa difficile pensare che James possa disporre delle energie necessarie a colmare il gap di talento e fisicità con chi uscirà vincente tra Golden State e Houston. Tuttavia questo è un ragionamento che inevitabilmente parte da parametri umani, proprio quei parametri che ora più che mai dovremmo aver capito non risultano applicabili a LeBron. La barriera che traccia il confine tra possibile e impossibile lui l’ha già varcata, a noi poveri mortali non rimane che restare svegli ancora per qualche notte, in attesa di stropicciare gli occhi dalla meraviglia.

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