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Bravi ragazzi da città folli
06 feb 2018
06 feb 2018
I Crips e i Bloods non sono solo una certa faccia dell’America: sono anche parte dell’NBA.
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Bill Baptist/Getty Images
(foto) Bill Baptist/Getty Images
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La memoria è un po’ come la marea: viene e va. È un flusso continuo, instancabile, su cui non abbiamo nessun controllo. Nuovi e vecchi ricordi si infrangono sulla soglia della nostra coscienza come onde, e così ricordiamo cose che non sappiamo e sappiamo cose che non ricordiamo. Per questo motivo due settimane fa, quando ho visto Arron Afflalo tirare un pugno a Nemanja Bjelica durante Minnesota-Orlando, ho inconsapevolmente iniziato a canticchiare “I used to be jealous of Arron Afflalo / I used to be jealous of Arron Afflalo / he was the one to follow” senza rendermene conto. Non sapevo che canzone fosse e lì per lì non c’ho fatto caso. Solamente ore dopo, dal nulla, quel ricordo è emerso: “Black Boy Fly”. Questo era il titolo del pezzo che stavo cantando prima.In quella canzone Kendrick Lamar descrive il senso di invidia e frustrazione che provava nei confronti di Arron Afflalo, suo compagno di scuola alla Centennial High, che era riuscito a costruirsi un futuro migliore attraverso il basket. Kendrick, pur essendo poi anche lui fuggito e aver raggiunto un discreto successo, parla a nome di tutti quelli che invece sono rimasti perché non hanno i mezzi per andarsene dal ghetto. Più in generale, all’interno del suo album “good kid, m.A.A.d city”, K-Dot in quella realtà ci si immerge e torna in superficie solo per darne uno spaccato crudo e vero: è un mondo a sé, dove anche se si ha un qualche talento o una forte determinazione è comunque difficile uscirne fuori.

Foto di Andrew D. Bernstein / Getty Images

Molti giocatori NBA vengono da lì, dalle quelle stesse strade e da quegli stessi quartieri. Sono cresciuti in mezzo alle stesse gang, alcuni addirittura hanno un passato da gangbangers. I Crips e i Bloods non sono solo Compton e una certa faccia dell’America: sono anche parte dell’NBA.m.A.A.D city

If Pirus and Crips all got along

They'd probably gun me down by the end of this song

Seem like the whole city go against me

Every time I'm in the street, I hear

YAWK! YAWK! YAWK! YAWK!

Negli anni ‘50 e ‘60 il razzismo in America era un dato di fatto, un qualcosa di solido e duro contro cui inevitabilmente si andava a sbattere, come l’asfalto. Sono gli anni di Martin Luther King e la lotta per i diritti civili, delle lunghe marce, della protesta non violenta. Ma sono anche gli anni di Malcom X e della nazione dell’Islam, della denuncia della violenza ingiustificata contro i neri “by any means necessary”. Sono anni in cui lo stato americano, attraverso progetti urbanistici come la Section 8, cerca di allontanare il crimine dalle principali città creando delle periferie abbandonate a loro stesse. Sono, infine, anni in cui se sei nero non puoi neanche mandare i tuoi figli agli scout perché lì non ce li vogliono, e tenerli lontani della strada allora diventa quasi impossibile. Quelle generazioni nascono rinchiuse in un ambiente ostile e povero, destinate a inseguire un modello di vita che non fa che peggiorare la situazione. Socialmente, è un disastro.È in risposta a tutto questo che vengono create le prime associazioni giovanili per afro-americani, inizialmente più simili a club che a delle vere e proprie gang, ma il passo è breve. Nel 1969 Raymond Washington e Stanley “Tookie” Williams hanno appena 16 anni quando, proprio per proteggersi da quell’ambiente, fondano i Crips in quell’ammasso slabbrato di strade, quartieri e grattacieli che è Los Angeles. La gang cresce, si allarga in fretta e in in pochissimo tempo controlla lo spaccio di pcp (cioè la fenciclidina, una sostanza allucinogena sintetica), marijuana e anfetamine. In meno di dieci anni i Crips si prendono la città. I pestaggi ingiustificati e i cadaveri per strada diventano però troppi: Los Angeles non è più sicura. La situazione diventa talmente insopportabile da spingere le altre gang ad allearsi. I ragazzi di Compton creano la Piru Street Gang dopo gli attacchi alla Centennial High — la stessa scuola di Afflalo e Lamar — e poco dopo si uniscono ad altri gruppi locali, fondando i Bloods. Se i Crips erano una reazione ad un sistema, i Bloods erano una reazione alla loro violenza. Inizia così una guerra che va avanti tutt’ora: blu contro rossi, rossi contro blu, come un gigantesco serpente che si divora la coda.Poi in pochissimo tempo, tutto cambia. Nel 1979 Raymond Washington viene ucciso e Tookie Williams finisce in carcere per omicidio. Senza un leader i Crips sbandano e perdono ogni controllo, iniziando feroci faide intestine mentre la guerra contro i Bloods s'inasprisce. Il sangue chiama solo altro sangue. L’arrivo del crack negli anni ’80 riesce a rendere ancora più confuso e violento quel caos: il numero di morti per abuso di sostanze cresce enormemente, così come il numero di quelle violente. In tutto questo i profitti dello spaccio permette alle gang di espandersi ad altri mercati e ad altre città in una forma malata di franchising, raggiungendo infine la forma che hanno ora. Era l’America di Ronald Reagan, della crack epidemic in cui molti giocatori NBA degli ultimi ’30 anni sono cresciuti, ma oggi le cose non sono poi così cambiate. Crips e Bloods sono ancora realtà da cui è difficile fuggire.La maggior parte dei giocatori NBA viene da contesti violenti e poveri, spesso senza una famiglia su cui poter contare, come se fosse necessario passare attraverso una certa quantità di inferno prima di poter diventare professionisti. Ho scelto cinque storie per raccontare come nasce il rapporto tra NBA e le gang.Sing About Me, I’m Dying Of Thirst

“My mind is really distorted, I find nothing but trouble in my life

I’m fortunate you believe in a dream this orphanage we call a ghetto is quite a routine”

Zach Randolph è cresciuto senza un padre a Marion, Indiana, una città famosa principalmente per aver ospitato uno degli ultimi linciaggi del Ku Klux Klan negli anni ‘20. Sua madre, per quanto si impegnasse lavorando, non riusciva a dare ai suoi quattro figli tutto quello di cui avevano bisogno: Randolph era conosciuto come “Crusty” proprio perché possedeva solamente un paio di jeans e quindi non li toglieva mai. In un ambiente simile, senza un punto di riferimento chiaro, perdersi era facile: la prima volta è stato arrestato per aver cercato di rubare un altro paio di jeans, finendo in custodia cautelare per trenta giorni; poi, a 16 anni, ha rubato tre fucili d’assalto per rivenderli e dare parte di quei soldi a sua madre. Quando lo polizia ha bussato alla sua porta Randolph si è scusato e ha riconsegnato le armi, conscio della piega che stava prendendo la sua adolescenza. Per quanto avesse successo nel basket (da lì a poco sarebbe andato a giocare per la Michigan State University di Coach Izzo) non riusciva a prendere le distanze da quello stile di vita, e la cosa non è cambiata neanche una volta entrato in NBA tra Portland, New York e Memphis, dove solo negli ultimi anni ha riabilitato la sua nomea trovando finalmente una casa stabile dove essere amato.

Foto di Garrett Ellwood / Getty Images

Non c’è mai, come si suol dire, limite al peggio. Caron Butler è nato a Racine, Wisconsin, in una situazione familiare e in un ambiente simile a quello di Z-Bo. L’assenza di suo padre era compensata dalla presenza di suo zio Jimmy, il principale spacciatore della zona che, se da una parte si prendeva cura di suo nipote, dall’altra ha dato sin da subito una chiara direzione alla vita di Butler. A 12 anni aveva già comprato la sua prima pistola con i soldi che aveva guadagnato spacciando e tre anni dopo un agente gli aveva puntato un revolver alla testa, arrestandolo a scuola davanti a tutti i suoi compagni. Il passo successivo non poteva che essere un centro di recupero per delinquenti.Nel frattempo Stephen Jackson è cresciuto senza un padre e con un nonno in carcere, a Port Arthur, Texas, dove, come lui stesso ricorda, il 60% degli abitanti è composto da gangbangers. Nel suo quartiere essere un membro di una gang faceva parte dell’educazione e dello stile di vita dei ragazzi che ci abitavano, di fatto colmando il vuoto lasciato da molte famiglie inesistenti. Per questo Jackson è un Blood da quando ha 9 anni, nonostante suo fratello sia morto su quelle stesse strade. Non c’erano alternative né per lui né per gli altri: sono tutti cresciuti in un sistema che si tramanda di generazione in generazione fagocitando padri e figli. È un mondo che, tuttavia, cerca anche di proteggere i suoi membri più virtuosi da quel tipo di vita proprio perché vuole che abbiano successo. Se ce la fanno loro, tutto il sistema vince. Molti amici di Jackson si rifiutavano di coinvolgerlo in molte attività della gang proprio perché sapevano che lui poteva avere un futuro migliore attraverso il basket e allo stesso modo i Crips hanno sempre protetto DeMar DeRozan. Durante la sua adolescenza a Compton nessuno poteva avvicinarsi a lui o alla sua famiglia — non perché non sapesse difendersi, anzi, ma perché aveva talento e non volevano che lo sprecasse. Di fatto i Crips hanno permesso a “Deebo” — questo il suo soprannome da ragazzo — di diventare DeMar DeRozan, un titolare all’All-Star Game della NBA.

Non è quindi un caso che, spesso, dopo aver segnato canestri importanti faccia ancora gesti tipici dei Crips (foto di Vaughn Ridley/Getty Images).

Ma quella vita a volte chiama ancora: è come il canto delle sirene, difficile non ascoltarlo. Non tutti resistono e molti si buttano in mare. Dopo la morte di suo fratello, Stephen Jackson trovava intollerabile l’idea che qualcuno a lui caro potesse essere in pericolo in sua presenza. Era un pensiero per lui insopportabile che l’ha spinto sempre nella direzione sbagliata mentre cercava di fare la cosa giusta. Per questo ha seguito Ron Artest dopo che questi era stato colpito sugli spalti del Palace di Auburn Hills durante “the Malice at the Palace”, la più grande rissa della storia del basket americano tra giocatori e pubblico. E sempre per questo pochi giorni dopo, in uno strip club di Indianapolis, ha sparato un colpo di pistola in aria nel tentativo di salvare un altro suo compagno che stava venendo minacciato da un uomo armato. Jackson era perseguitato dal suo passato.Lo stesso vale per Z-Bo. Spesso, durante la sua carriera, ha dimostrato di avere ancora la stessa mentalità di quando era un ragazzo di Marion e frequentava le compagnie sbagliate, come quando pochi mesi fa è stato arrestato a Los Angeles insieme a dei suoi amici per possesso di marijuana e spaccio, trovandogli addosso quasi 30 grammi d’erba — un fatto incomprensibile visto il suo contratto biennale da 23 milioni di dollari appena firmato con i Sacramento Kings. Nessuno, tuttavia, è mai stato attratto da quella vita come Javaris Crittenton.Crittenton viene dalle periferie di Atlanta e, nonostante un’infanzia complicata, era stato scelto al Draft con la 19^ scelta assoluta dai Lakers nel 2007, per poi essere scambiato nel giro di un anno prima a Memphis e poi agli Washington Wizards. Già dalla sua prima stagione era entrato in contatto con i Crips di Los Angeles e si era comprato un’arma per la difesa personale, cosa tra l’altro abbastanza normale, ma la situazione è degenerata solamente al suo arrivo a Washington, dove ha incontrato Gilbert Arenas. Ad entrambi piaceva giocare d’azzardo: una sera, nel volo di ritorno da una trasferta, i due iniziano a litigare durante una partita a carte e in un attimo passano alle minacce. All’allenamento successivo Arenas si presenta con tre pistole e le mette in mostra in spogliatoio, invitando Crittenton a scegliere quella con cui gli avrebbe sparato. A quel punto Javaris tira fuori la sua, la carica e la punta contro Arenas. Solamente l’intervento di Caron Butler evita la sparatoria. L’NBA li sospende entrambi per l’intera stagione e Crittenton viene tagliato dagli Wizards, ritrovandosi così senza un contratto e credibilità. La sua carriera è di fatto finita, non gli resta che tornare ad Atlanta.

Foto di Ned Dishman / Getty Images

Le cose però non vanno come sperato. Una volta tornato in città viene subito preso di mira dai Bloods locali e viene derubato più volte, perdendo così la macchina e diversi gioielli. Quella però non è una cosa che si può lasciar correre. Così, una sera, aspetta che uno dei suoi rapinatori esca di casa e, passando con la macchina, gli spara. Solo che Crittenton lo manca e colpisce invece la sorella del suo obiettivo, poi morta in ospedale. Una settimana dopo il suo nome è su ogni notiziario: la polizia ha trovato polvere da sparo nel suv nero che Crittenton aveva noleggiato la sera stessa dell’omicidio. Tutte le prove portavano a lui ma l’arma del delitto però non viene trovata e mancano testimoni attendibili, così Javaris riesce a pagare la cauzione. È di nuovo libero, ma terribilmente indebitato per pagare le spese del processo. L’unica possibilità per saldare i debiti è attraverso un conoscente ad Atlanta che lo mette in contatto con un uomo che trasporta grossi quantitativi di droga da una parte all’altra del paese. Javaris, da prima scelta al Draft NBA, si riduce a fare il runner. La DEA però è sulle tracce di quell’uomo e da lì a poco arriva anche a Crittenton, arrestandolo a casa sua nel gennaio 2014. Questa volta la condanna è definitiva: 23 anni di carcere.RealL’NBA non ha un vero e proprio problema con le gang, anche se sicuramente ci sono stati dei casi. Il problema è invece un altro e riguarda lo sport americano più in generale: le principali leghe sportive americane sono infatti costituite da atleti che vengono dalle stesse realtà disagiate che sono state descritte nelle righe precedenti. Se da una parte questo è un bene perché permette di dare una possibilità a persone che altrimenti non ne avrebbero, dall’altra non viene fatto abbastanza per migliorare una situazione che persiste. E spesso non si è capito come affrontarla.Nel 2008 l’NBA aveva multato per 25.000 dollari Paul Pierce perché durante una partita aveva fatto un gesto tipico dei Bloods. L’intenzione della lega era quella di prevenire l’emulazione e di far capire che simili comportamenti non sarebbero stati tollerati, ma in realtà questa decisione ha portato solamente più attenzione a un fatto che sarebbe dovuto essere ignorato (ed è infatti questa l’attuale politica della lega). Il caso di Pierce è emblematico e mostra chiaramente il problema: non bisogna multare un giocatore perché ha ancora atteggiamenti che dimostrano un passato di affiliazione — ammesso poi che ne abbia avuto uno —; piuttosto bisognerebbe garantire delle alternative alle gang ai ragazzi e alle ragazze che provengono da contesti disagiati.L’NBA in particolare è molto attiva nel sociale e agisce sia attraverso canali più istituzionali, con programmi come NBA Cares, sia attraverso le singole istituzioni fondate dai giocatori per aiutare le comunità in cui sono cresciuti — ma è evidente che non basta, proprio perché una lega professionistica sportiva ha un limitato raggio d’azione. Senza voler cercare di fare qui discorsi ben più lunghi e complessi, per migliorare la situazione è necessario un intervento di più ampio respiro che, senza alcun dubbio, gioverebbe sicuramente sia all’America in sé che alla salute dell’NBA e dello sport americano in generale. Sarebbe una vittoria per tutti.

"If I don't hear from you by tomorrow, I hope you come back and learn from your mistakes. Come back a man, tell your story to these black and brown kids in Compton. Let 'em know you was just like them, but you still rose from that dark place of violence, becoming a positive person. But when you do make it, give back with your words of encouragement, and that's the best way to give back”.

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