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Andrea Beltrama
Questi Philadelphia 76ers sono una contender per il titolo?
27 feb 2023
27 feb 2023
Embiid e soci avrebbero tutto per giocarsela, ma ancora sembra mancare qualcosa.
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Andrea Beltrama
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IMAGO / Icon Sportswire
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“Riusciremo mai a batterli?” Dimenticato Ben Simmons e accettato, molto a fatica, il risultato del Super Bowl, l’attenzione della Philadelphia sportiva si è spostata tutta sulle prospettive future dei Sixers. Un interrogativo che, in tempi recenti, si è sublimato in un’ossessione, per una tifoseria che senza ansia proprio non riesce a stare: sconfiggere i Boston Celtics. Attuali leader della Eastern Conference e vincitori senza appello delle prime due sfide stagionali, anche quando hanno giocato in formazione rimaneggiata. E soprattutto usciti vittoriosi dalle ultime due serie di playoff disputate tra le due squadre, nel 2018 e 2020, con un perentorio 8-1 che non fa parte dei ricordi belli. E così, dopo larocambolesca vittoria contro i Memphis Grizzlies, la sfida di sabato sera — la prima della stagione a Philadelphia — non poteva arrivare in un momento più scenico. Proponendo quello che gli ottimisti sperano sia un antipasto della finale di Conference; e che i tifosi più pragmatici aspettavano come il momento della verità per capire meglio le reali ambizioni di questi Sixers. È finita male, con la consueta dose di melodramma: una sconfitta a fil di sirena che ha mostrato, nell’arco di una serata, tutto il meglio e il peggio di questi Sixers, gettando nello sconforto la tifoseria e rinforzando ulteriormente l’ambivalenza che continua a circondare le ambizioni di questa squadra. Tanto talento, sprazzi esaltanti e la mostruosa onnipotenza di Joel Embiid da una parte; fragilità difensiva, poca continuità e una panchina che troppo spesso finisce sott’acqua dall’altra. E così è cresciuto ulteriormente lo scetticismo di fondo che da qualche settimana contraddistingue la percezione degli uomini di Doc Rivers. Sentimento curioso, per una squadra che in stagione ha vinto tanto — o comunque tanto quanto ci si aspettativa — e che ha portato a casa 27 delle ultime 35 partite. Eppure giustificato, nei confronti di un gruppo che, anche nelle vittorie, ha spesso suscitato qualche perplessità, accanto a momenti di genuina esaltazione. E così, la domanda che continua ad aleggiare e alla quale nessuno può rispondere è la stessa che circola da anni a questa parte: questi Sixers possono davvero giocarsela per il titolo? Risposta breve: forse sì, ma manca ancora qualcosa.

Corrente alternataConsistency. Ovvero, la capacità di rendere con continuità, senza sbalzi, in maniera costante. Assieme a legacy, forse la parola più inflazionata nei salotti illuminati della NBA. Ma, per i Sixers, rappresenta pure la carenza più gravosa dall’inizio della stagione, manifestandosi in maniera suprema nel rendimento della difesa. Che ha alternato momenti di efficacia a collassi improvvisi, spesso inspiegabili. Si è visto bene nel terzo quarto contro i Celtics, quando una partita apparentemente in pieno controllo è sfuggita via all’improvviso. Senza peraltro che l’avversario nemmeno accennasse a cambiare ritmo. Colpa di una serie di buchi difensivi in rapida successione, peraltro nei primi secondi dell’attacco, che hanno permesso ad Al Horford di segnare nel giro di un minuto tre comodissime triple consecutive, complicando una situazione favorevole e apparecchiando la tavola per la sconfitta finale. E si è visto altrettanto bene in molte delle vittorie a cavallo di gennaio e febbraio, arrivate al termine di partite in cui, per un periodo più o meno esteso, i meccanismi difensivi sono sembrati quelli di una partita di pre-season. Come nella vittoria interna contro i Brooklyn Nets di fine gennaio, cui è stato concesso il 65% dal campo; o il primo tempo del duello tra candidati MVP contro i Denver Nuggets, in cui Jokic sembrava in grado di permettere ai compagni di prendere un tiro comodo come e quando voleva. Difficile dare la colpa ai singoli, tanto diffuse sono state queste difficoltà. Al punto che, con l’eccezione del sempre ossessivo PJ Tucker, tutti i membri del quintetto sono sembrati piombare in questi momenti di vuoto.Di pari passo con i buchi difensivi è stata lampante, sino ad ora, l’incapacità di controllare le partite. Al punto che, nel 2023, gran parte delle sconfitte è arrivata dopo una pesante rimonta subita: +21 buttato via contro i Magic, +20 con i Knicks, +15 con i Celtics, oltre al +25 dell’intervallo con Cleveland, quando il patatrac è stato evitato per un soffio. In maniera simile, buona parte delle vittorie sono arrivate dopo rimonte o parziali in extremis, compressi nella parte finale dell’ultimo quarto. Come contro i Nets (due volte), i Nuggets, i Grizzlies. E così, al netto dell’esaltazione per questi momenti di fuoco, la sensazione non è quasi mai stata quella rassicurante di una squadra che centellina le energie e piazza la zampata quando è necessario; bensì quella di colpi di coda estemporanei e un po’ casuali, sufficienti per sfangarla nella maggior parte dei casi, ma preoccupanti in proiezione futura, quando nelle partite che conteranno davvero sarà più difficile permettersi di andare a corrente alternata senza pagare dazio. Vero è che, nell’ordine generale delle cose, passaggi a vuoto e momenti favorevoli si sono in sostanza controbilanciati. Ma limitare gli sbalzi, da qui ad aprile, sarà vitale. In questo senso, le ultime 23 partite di regular season, di cui ben 15 da affrontare in trasferta, saranno un banco di prova importante: ci saranno solo ed esclusivamente avversari in lotta per i playoff o il play-in, tra cui due volte i caldissimi Bucks, da sfidare in entrambe le occasioni a Milwaukee, oltre a un’altra rivincita contro i Celtics, sempre al Wells Fargo Center. MVP MVP Joel Embiid, se possibile, ha ulteriormente alzato il livello del suo gioco. In una stagione in cui è stato sostanzialmente bene fisicamente, ha mostrato ulteriori progressi nelle letture sugli aggiustamenti delle difese avversarie, che hanno provato in qualsiasi modo a limitarlo, senza mai dare l’impressione di riuscirci. A questo si è aggiunta la capacità di fare la differenza anche in serate negative al tiro. Come nella battaglia recentemente vinta contro i Memphis Grizzlies, in cui ha compensato agli errori al tiro con un lavoro sporco in area che ha permesso ai suoi di rimanere aggrappati alla partita, e imponendo livelli di intimidazione che hanno mandato in tilt l’attacco degli avversari nei momenti decisivi. La spettacolare stoppata su Ja Morant, destinata a rimanere negli highlights della stagione, è stato solo il frutto più visibile di un lavoro instancabile, e che in buona parte non è finito sul foglio delle statistiche. E così, alla soglia dei trent’anni, il camerunense sembra aver raggiunto la maturità agonistica, soprattutto a livello mentale. Gioca tranquillo, con i nervi sotto controllo. Mostrando la consueta gamma di emozioni, ma senza mai andare sopra le righe. E simulando una certa indifferenza verso quella che, da qui ad aprile, sarà un altro tormentone nei discorsi sulla NBA, dai bar ai salotti TV: è finalmente arrivato il suo turno di vincere l’MVP? In una lotta che si annuncia serrata — Jokic, Antetokounmpo, e Jayson Tatum sono tutti dei candidati legittimi — è stato bravo a tenersi lontano dal chiacchiericcio. Così come, almeno in pubblico, ha liquidato con freddezza la mancata nomina per il quintetto da titolare dell’All-Star Game. La sensazione è che la sua testa sia giustamente focalizzata su altro. Assieme all’integrità fisica, per cui vengono accese ogni giorno file di ceri nelle chiese di Philadelphia, il suo atteggiamento da leader in missione è uno dei motivi di ottimismo più importanti per i tifosi.

Proprio lo strapotere tecnico e fisico di Embiid, però, evidenzia un altro motivo di preoccupazione. Tolto lui, anche per brevi momenti di riposo, il rischio di imbarcata continua a essere troppo alto. Colpa di una panchina che, finora, si è comportata egregiamente quando i titolari mancavano e tutti hanno avuto minuti; ma che ha reso molto meno con i ranghi completi e i tempi centellinati. Arrivati a inizio marzo, di fatto, Embiid non ha sostanzialmente un cambio. Bocciato Montrezl Harrell, sfiduciato Paul Reed — ed escludendo improbabili prodezze da parte del nuovo arrivato Dewayne Dedmon — le scelte di Rivers suggeriscono che l’assetto più plausibile, da qui alla fine, sarà mettere PJ Tucker da centro e Tobias Harris da 4. Almeno per i minuti iniziali degli ultimi quarti nei quali Embiid riposa. Ma più in generale, tutte le riserve dei Sixers hanno vissuto a sprazzi, mostrandosi spesso inadeguate per reggere l’urto offensivo delle controparti avversarie. Pur con fiammate importanti da parte dei singoli — tra cui i momenti di furia offensiva di Georges Niang e Shake Milton, finito però fuori dalla rotazione — è stata proprio l’assenza di coesione della seconda linea come collettivo a destare le maggiori perplessità. Anche a seguito della scelta di Rivers di spostare Tyrese Maxey nel ruolo di sesto uomo per rinforzare l’impatto offensivo dalla panchina. Anzi, proprio Maxey sta attraversando un momento difficile, faticando a trovare con continuità il rendimento che lo aveva reso una delle note più positive della scorsa stagione — e aveva spinto i Sixers a tenerlo fuori da ogni richiesta di scambio nelle trattative per sbarazzarsi di Simmons. Dopo una prima parte di stagione notevole, ha chiuso febbraio con meno di 16 punti di media — 6 in meno di quelli nel 2022 — e il 42% dal campo, facendo registrare pure la percentuale da tre più bassa della stagione (33%, a fronte del 45% dei primi due mesi). Normale che, con il rientro di Harden e l’assenza di guardie tiratrici pure, soffra la concorrenza di giocatori con caratteristiche simili alle sue. Ma con un minutaggio comunque abbondante, non può bastare la scusa di partire dalla panchina per spiegare la sua flessione. Considerati i limiti difensivi, dovrà tornare a essere il creatore dal palleggio effervescente ammirato nella prima parte di stagione per ridare spessore alla panchina e rendere l’attacco dei Sixers meno prevedibile. Fattore HA fronte degli aspetti da sistemare, e lasciando da parte Embiid, quello che sembra invece funzionare meglio è invece la chimica del resto del quintetto base. La differenza più ovvia, rispetto alla scorsa stagione, ha un nome e un cognome: James Harden, che negli ultimi due mesi di stagione ha finalmente mostrato con costanza la qualità che ci si aspettava. Merito della crescente intesa con Embiid e compagni, giocoforza cresciuta nel corso della prima stagione trascorsa a Philadelphia per intero. Ma pure merito di una evidente rinascita del fisico e della mente, evidentemente tirati a lucido con il dovuto rigore dopo le esibizioni un po’ zoppicanti degli scorsi playoff. Il giocatore che faticava a battere l’uomo dal palleggio, andava a sbattere contro gli aiuti, e a volte sembrava passare la palla per liberarsi della frustrazione di non riuscire a concludere, è parso ringiovanito di qualche anno. Gambe reattive, accelerazioni dal palleggio efficaci, e l’inebriante sensazione di guardare i canonici dieci palleggi sul posto, e sapere che qualcosa di bello sta per accadere. Per non parlare del brivido di vederlo difendere forte — e spesso con risultati più che accettabili — aggirandosi per il campo con un linguaggio del corpo consono alla tensione del momento. E così, l’indolenza cui ci aveva abituato ha lasciato il posto a un’inedita presenza mentale, apprezzata in particolare con le giocate sporche nei momenti decisivi. Come il tuffo con recupero e assist con cui ha suggellato la spettacolare rimonta di giovedì sera contro i Memphis Grizzlies. Recuperata la forma fisica, Harden è riuscito a dare ai Sixers le due dimensioni di cui avevano disperatamente bisogno: playmaker pronto a imbeccare Embiid quando i due sono i campi assieme; e leader dell’attacco quando il camerunense è in panchina a rifiatare.

Al fianco di Harden, è cresciuto anche il livello di Tobias Harris. Frequente bersaglio dei mugugni del Wells Fargo Center, complice un contratto oneroso e la tendenza a perdere di aggressività nei momenti cruciali delle partite, l’ex Tennessee ha compiuto un passo in avanti importante a livello mentale. Abbracciato con gioia il ruolo di terza — a volte quarta — opzione offensiva e prosperando nei buchi lasciati aperti dalle difese grazie al suo gioco multi-dimensionale, che gli permette di punire da fuori, attaccare la difesa in recupero, ma anche essere pericoloso spalle a canestro. Liberato dalla pressione di essere il secondo violino di Embiid, Harris si è trasformato, mostrando una convinzione che raramente si era vista in precedenza. Considerando la sua versatilità difensiva, che gli permette di giocarsela contro la maggioranza delle ali piccole e forti, la sua crescita è stato un valore aggiunto importante, seppur meno celebrato di quello portato da Harden. A fianco a lui, sia PJ Tucker che De’Anthony Melton hanno dato quello che ci si aspettava: botte, difesa ed esperienza il primo, spesso utilizzato in marcatura strategica contro l’attaccante avversario più pericoloso; e un accettabile diversivo offensivo il secondo, arrivato nell’anonimato più generale, ma riuscito a ritagliarsi un ruolo. In generale, è proprio nella crescita del supporting cast di Embiid uno dei motivi di ottimismo più importanti nei confronti di una squadra che continua a non sembrare ancora pronta a compiere l’ultimo passo. Ma che non è mai parsa così vicino a esserlo.

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