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Andrea Beltrama
Filadelfia a lutto
14 feb 2023
14 feb 2023
Abbiamo visto il Super Bowl in un bar della città sconfitta.
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Andrea Beltrama
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Charles Baus / IMAGO
(foto) Charles Baus / IMAGO
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They greased the poles. Hanno spalmato il grasso sui pali. A Philadelphia, l’ansia per la storia si sublima così. Evocando un’inutile misura di ordine pubblico — come se bastasse dell’olio biodegradabile a scoraggiare i tifosi dall’arrampicarsi sui lampioni— e diventata il simbolo della trepidazione collettiva. Quella del non succede, ma se succede che da queste parti segna l’avvicinamento verso le grandi occasioni. Fotografia perfetta di una città scaramantica e pessimista, ma dove a dominare, alla fine, è sempre la mistica speranza di potercela fare. Quella che a volte esalta, ma più spesso ammazza. Come sanno bene i tifosi locali, che aspettano da quattro anni l’occasione per riversarsi in massa lungo Broad Street, il viale a quattro corsie che taglia la città, per festeggiare un titolo della propria squadra. Rimanendo però fregati, anche questa volta. Era a successo in autunno, quando i Phillies, la squadra di baseball, era approdata miracolosamente alle World Series. È successo ancora domenica, e questa volta in maniera immensamente più dolorosa. Quando lo slancio degli Eagles verso il Super Bowl si è fermato a pochi centimetri dal traguardo, al termine di una sconfitta bruciante.It’s a Philly thingE dire che era tutto partito da una serata di festa. Due domeniche fa, dopo la comoda vittoria con cui gli Eagles si erano aggiudicati la qualificazione al Super Bowl, non erano stati solo i semafori a essere presi d’assalto; un gruppo di tifosi si era arrampicato su una pensilina dell’autobus, sfondandola dopo pochi secondi. Alla faccia delle raccomandazioni della commissaria della polizia — peraltro di nome Outlaw, con un notevole tocco di surrealismo— che aveva chiesto ai cittadini di «mostrare alla nazione come si può festeggiare in maniera responsabile». Un appello tragicamente inascoltato, mentre fino a tarda notte i tifosi hanno bloccato il traffico, in preda al delirio collettivo. Filo conduttore di immagini e video, lo slogan its a Philly Thing, scelto dagli Eagles per accompagnare la propria corsa nei playoff. Quattro parole che colgono l’attaccamento di Philadelphia a un’identità propria, originale: quella di città grezza, sanguigna, felicemente disfunzionale. E dunque orgogliosamente diversa da New York, la vicina ingombrante, detestata, e ben più rilevante sulla scena globale.Da quella serata, lo spasmo dell’attesa è montato a ritmo crescente. Grattacieli illuminati di verde; chiusure anticipate dei supermercati; giurati che urlano go Birds, il grido di battaglia degli Eagles,per rispondere presente all’appello del giudice in tribunale. E soprattutto, i vessilli della squadra in rapido esaurimento, con i prodotti ufficiali gradualmente soppiantati da quelli contraffatti, venduti agli angoli delle strade più trafficate. Un’occasione che ha messo in mostra lo spirito imprenditoriale di vari personaggi locali, che ci sono attrezzati con i furgoni a noleggio della U-Haul, normalmente usati per i traslochi, per crearsi un magazzino ambulante da cui vendere le magliette. 30 dollari l’una, pagate con versamento elettronico, direttamente dal telefono. Ha apprezzato anche l'autista dell'autobus che in settimana ha interrotto la corsa per assicurarsi il proprio cimelio, nell’indifferenza generale dei passeggeri. Ordinaria amministrazione, in una città fiera di essere stramba.La stanza dietro è da sfigatiMezzogiorno. Al calcio di inizio mancano oltre sei ore. Cherry Street Tavern, la bettola all’angolo con la 22esima strada, inizia a riempirsi. Si passa da una porta angusta, anonima. Potrebbe essere quella di uno sgabuzzino, se non fosse per il cartello “bagni solo per i clienti” malamente appeso con lo scotch. Varcata la soglia, si viene risucchiati in un vortice spazio-temporale. Una manciata di tavolacci, piastrelle esagonali, uno specchio sorretto da colonne ioniche; e due telefoni fissi misteriosamente appesi alla parete. Se non fosse per un paio di foto di Bob Dylan, potremmo tranquillamente essere agli inizi del Novecento. Anche perché, di fatto, nulla è cambiato da allora. Le uniche modifiche ci furono durante gli anni proibizionismo. Quando il bar venne trasformato in un barbiere, e per abbeverarsi bisognava entrare in uno ripostiglio sul retro ben mimetizzato. Ma dalla riconversione a taverna, tutto è rimasto immutato. Persino le televisioni, piccole e appese ad altezze da torcicollo, sono di un’epoca passata. Ma se questo posto è uno dei più amati di Philadelphia, è anche merito di questa resistenza che contrasta con la gentrificazione circostante.All’ora di pranzo, i locali si sono già appostati al proprio tavolo. Possibilmente, lo stesso a cui erano seduti per il Super Bowl del 2018, quando si materializzò il trionfo. Dal bancone arriva un flusso continuo di birre e panini al roast beef. Secondo varie fonti, il più apprezzato della città. Due fette di pane a racchiudere una pila di carne alta quasi dieci centimetri, talmente fradicia di sughetto da inzuppare tutto il pane attorno, generando un’esperienza multisensoriale che rasenta la perfezione. E dire che appena ventiquattr’ore prima, tra gli stessi tavoli, regnava una pace bizzarra. C’era solo lo sparuto viavai di chi era venuto per una bevuta veloce. Tra questi, un tifoso consumato dalla tensione si era messo a guardare la partita dei Flyers, la decadente squadra di hockey di Philadelphia. «Non me ne frega niente del colore preferito di Jalen Hurts, o di tutte le manfrine della vigilia» aveva dichiarato, addentando il panino. «Guardo sto schifo perché almeno stacco il pensiero». Poi si era raccomandato. «Arriva per mezzogiorno. Se no ti fanno andare nella stanza dietro. E la stanza dietro è da sfigati». Si riferisce al salone adiacente al bar, dove finisce chi non trova posto nella sala principale. È uno stanzone spoglio, unicamente decorato da una bandiera del Vaticano. Sembra un sala giochi dell’oratorio cui hanno rubato i biliardini. Un luogo punitivo, da evitare a ogni costo.

Foto di Livia Garofalo.

La previsione dell'uomo, del resto, non fa una grinza: all’una di pomeriggio non si trova più posto, nemmeno nella sala sul retro. It’s nerve-racking, «l’attesa è snervante» ripete il padrone della bettola. Un uomo d’altri tempi, come il locale; barba lunga, sorriso caloroso. L’unico che può permettersi di non indossare una maglietta degli Eagles ed essere comunque benvoluto. Gira nervosamente tra i tavoli, lo straccio che ballonzola sul retro, pronto ad tamponare i boccali che si rovesciano. Il telefono d’epoca squilla a ripetizione. «No, nessun costo d’ingresso» risponde lui a quella che è sempre la stessa domanda. «Ma sbrigatevi». Il bar è uno dei pochi a Philadelphia a non avere un biglietto per vedere la partita. In molti locali del centro, si arriva a pagare anche 50 dollari per entrare. «Noi non facciamo queste cose» dice lui. La musica— essenzialmente, Bruce Springsteen pre-anni 90 con qualche pezzo altrui buttato nel mezzo — è un sottofondo lontano, coperto dalle voci di un pubblico variegato. Ci sono ottantenni, boomer, studenti universitari, bimbi tenuti in spalla, ognuno come se fosse nel salotto di casa propria. Mentre dentro alla taverna gli effluvi di birra e sudore salgono di tono, le strade si svuotano. Dell’effervescenza del mattino non è rimasto molto. “Il Super Bowl è una festa religiosa” titola il Philadelphia Inquirer, il giornale principale della città, in un pezzo che documenta le chiusure anticipate dei negozi del centro. L’America si ferma, recita invece il luogo comune, un po’ retorico, spesso deriso. Ma oggi, tutto sommato, nemmeno lontano dalla verità.Elaborare il luttoSette di sera. Dopo un’attesa infinita, che alcuni avventori ingannano lanciandosi una palla da football che rischia in più occasioni di frantumare un bicchiere, finalmente si gioca. C’è l’inno nazionale. Nick Sirianni, coach degli Eagles, tradisce una lacrima, prontamente inquadrata. Succede a 3800 chilometri da Philadelphia; eppure, la scena infonde speranza a tutto l’ambiente, spingendo il pubblico di Cherry Street Tavern a rispondere con un boato, che diventa delirio quando gli Eagles partono a razzo, e sembrano prendere il controllo delle operazioni. Touchdown immediato, un altro poco dopo. Ognuno celebrato dal coro d’ordinanza, come allo stadio. Kansas City fatica, sembra sul punto di crollare. E quando Patrick Mahomes zoppica verso la linea laterale, poco prima dell’intervallo, l’impresa sembra davvero vicina. Partono grida di giubilo, insulti, diti medi rivolti allo schermo. Il terrore nei confronti del fenomenale avversario si esorcizza così, nella maniera più umana. Anche da questa parte dell’Oceano. Poi, nell’indifferenza generale, Rihanna sale sul palco. L’halftime show è più che altro un pretesto per prendere una boccata d’aria, nonostante il diluvio. L’ultima chance di farlo, prima di una ripresa che si annuncia intensissima.

Foto di Livia Garofalo.

Proprio come era arrivato, l’entusiasmo evapora. Non è tanto il touchdown immediato di Kansas City a spegnerlo, quanto la constatazione che Mahones gioca, e sembra stare bene. L’inerzia della partita cambi e, con essa, l’atmosfera nella taverna. L’infinito attacco degli Eagles nel terzo quarto viene vissuto con una strana tensione. Alla fine arrivano tre punti, meglio che niente. Ma la trasformazione del calcio porta sorrisi sforzati, intrisi di preoccupazione. A comandare è la paura per quello che sta per arrivare. A cavallo di terzo e quarto periodo, i Chiefs imbastiscono due attacchi da manuale, che ribaltano completamente le sorti dell’incontro. Dal giubilo, si passa al panico. Gli Eagles vanno sotto, la partita scappa di mano. Ma prima di soccombere, c’è ancora una cartuccia da sparare. Un attacco da otto punti riporta il punteggio in parità. A pochi minuti dalla fine, è ancora tutto da decidere. Ed è in questo momento che la tensione si sgonfia, nel modo più avvilente. Una chiamata dubbia degli arbitri permette ai Chiefs di tenere il possesso fino alla fine. Per chiudere il discorso basta un calcio da posizione favorevole. Si concretizza inesorabilmente, come una sentenza di morte annunciata. Partita finita, Super Bowl perso. Il vicino di posto, che poche ore prima stava pregustandosi il giorno di festa post-vittoria, si precipita fuori, seguito da molti altri. La bettola si svuota in un amen. Nessuno ha il coraggio di guardare la premiazione. Fuori piove, tira vento, fa un freddo che taglia la faccia. Dopo una settimana primaverile, l’inverno è improvvisamente tornato. I marciapiedi sono invasi da frotte di persone vestite di verde. Escono dai bar e dalle case. Quasi nessuno parla. Sembra una scena di un film di zombie, se non fosse per le sporadiche imprecazioni che rompono il silenzio. Fuck the refs! Fuck the Chiefs! Ma sono litanie, più che grida di rabbia. A Broad Street qualcuno ci va lo stesso. Per smaltire l’alcol, o per elaborare il lutto. Ma nonostante la pioggia abbia lavato via il grasso, sui lampioni non si arrampica nessuno. Almeno fino alla prossima illusione.

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