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VHS: gara-1 delle Finali NBA 1992
26 mar 2020
26 mar 2020
Chicago Bulls contro Portland Trail Blazers e la bizzarra incoronazione di Michael Jordan.VHS: gara-1 delle Finali NBA 1992
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Addentrandosi nei meandri della composita agiografia che accompagna il culto pagano di Michael Jordan, è difficile stabilire quali siano gli avvenimenti davvero cruciali che ne hanno scandito la parabola. L’abbondanza di prestazioni e momenti indimenticabili rende la cernita complicata, soprattutto man mano che lo scorrere del tempo cristallizza la grandezza di ogni singolo canestro, di ogni azione, di ogni trionfo. Tuttavia, scorrendo tra le citazioni più frequenti, è piuttosto chiaro l’ordine di preferenza adottato da fedeli e frequentatori occasionali: l’ultimo tiro contro gli Utah Jazz che suggella il secondo three-peat, lo stoico Flu Game e il famoso The Shot ai danni di Craig Ehlo. Oppure, ancora: l’altro the shot, quello che regala il titolo NCAA a North Carolina, le vittorie agli Slam Dunk Contest del 1987 e del 1988, i 63 punti rifilati ai Boston Celtics nei playoff del 1986 o i 43 segnati con la maglia degli Wizards a 40 anni suonati.

È raro che sia qualche altro episodio a intrufolarsi in questa lista, anche se spunti e argomenti per metterne in discussione la legittimità non mancherebbero. Tra i passaggi spesso trascurati c’è gara-1 delle Finali del 1992, quella passata alla storia come The Shrug Game. E se le ragioni dietro a questa poca attenzione vanno ricercate proprio nell’abbondanza di cui sopra, ciò non toglie che la partita inaugurale della serie che porterà i Chicago Bulls al loro secondo titolo si configuri come un caso esemplare di sottovalutazione storica.

In retrospettiva, è proprio in quella partita - o meglio, nei primi due quarti di quella partita - che nasce il mito dell’imbattibilità di Jordan. Nei 24 minuti che aprono le Finals prende forma quell'aura mistica che si rivelerà essenziale per annichilire prima i Blazers e poi gli altri avversari che negli anni si frapporranno tra i ragazzi di Phil Jackson e il Larry O’Brien Trophy. È durante quei due quarti che in tutta la NBA, tra chi è sul parquet e chi osserva sugli spalti o davanti al televisore, si fa largo la convinzione che quando in campo c’è Jordan la vittoria, la sua vittoria, sia una conseguenza logica, un destino ineluttabile.

Annientamento

A quasi trent’anni di distanza, il successo dei Bulls si è trasformato un pronostico scontato, quasi ovvio, ma a tarda primavera nel 1992 la prospettiva è un po’ diversa. Certo, Chicago arriva dal primo titolo della sua storia, conquistato un anno prima contro i Los Angeles Lakers in evidente declino, e da una regular season chiusa con un record di 67 vittorie e 15 sconfitte. I playoff, però, sono stati tutto fuorché una passeggiata: dopo un agevole primo turno contro Miami, le sfide vinte in sette e sei gare rispettivamente contro Knicks e Cavaliers si sono rivelate autentiche battaglie. Jordan è reduce dal terzo premio di MVP, il secondo consecutivo, è senza alcun dubbio l’uomo immagine della lega e il giocatore più forte e popolare del pianeta, ma ora che è arrivato in cima alla montagna deve dimostrare di saperci restare.

Dall’altra parte della contesa, poi, c’è Portland, che una finale l’ha persa due anni prima contro i Pistons e che arriva da tre serie di playoff vinte con autorevolezza contro Lakers, Suns e Jazz, l’alta nobiltà della Western Conference. Quella allenata da Rick Adelman è una squadra esperta, può godere del miglior backcourt della NBA con Terry Porter e Clyde Drexler, e vanta un roster profondo a cui non difettano atletismo e tecnica individuale.

Insomma, a livello di talento il divario complessivo tra le due contendenti, se esiste, è minimo. E l’inizio della partita conferma l’equilibrio e, ancor di più, avvalora la tesi secondo cui i Blazers non hanno nessuna intenzione di recitare la parte della vittima sacrificale. Tra il tifo infernale di un Chicago Stadium arrivato al 244° tutto esaurito consecutivo, Porter e compagni premono subito sull’acceleratore imponendo il loro ritmo di gioco. Certo, come in uso all’epoca entrambe le squadre cercano di entrare in partita servendo i centri, i non irresistibili Bill Cartwright e Kevin Duckworth, ma Portland prova a correre in contropiede appena si presenta la possibilità, nel tentativo d’impedire alla difesa avversaria di schierarsi.

Il piano partita architettato da Adelman prevede continui tentativi di spingere Jordan verso il centro dell’area, porzione del campo in cui il 23 dei Bulls si trova di fronte una selva di corpi in movimento e braccia alzate. L’idea sembra funzionare: Jordan forza due triple che finiscono sul primo ferro, Scottie Pippen sembra limitato dai guai alle caviglie e ai gomiti che lo tormentano dall’inizio della post-season e l’umore di coach Jackson appare poco Zen quando Chicago lascia suonare la sirena dei 24 secondi senza nemmeno riuscire a lanciare la palla verso il canestro. I Blazers, dall’altra parte, segnano i primi sette tiri presi e a metà primo quarto il punteggio dice 17-9 in favore degli ospiti.

Adelman non poteva sperare in un inizio migliore, ma le certezze dei suoi cominciano a sgretolarsi quando Drexler, titubante se uscire o coprire la linea di penetrazione, lascia due metri di agio a Jordan che segna la sua prima tripla. L’effetto sulla partita è immediato: palla persa dei Blazers e 2+1 di Jordan che comincia nell’opera di abuso psico-fisico ai danni di Drexler. Tutto d’un tratto anche Pippen si scioglie e le sue lunghe leve occupano tutte le linee di passaggio, sporcando e spostando a favore dei Bulls ogni palla contesa. E sono proprio di Pippen i due assist millimetrici che trovano Jordan libero dietro la linea dei tre punti: canestro e ancora canestro. Quando mancano 3:27 sul cronometro del primo quarto Portland è ancora avanti 25-20, il livello fisico della partita sale vertiginosamente e la quantità di contatti ammessa, filtrata attraverso il metro arbitrale di oggi, appare quasi inverosimile.

Drexler, dopo la terza bomba di Jordan, decide di uscire sul suo diretto avversario non appena riceve fuori dall’area. Non è chiaro se si tratti di una decisione autonoma o generata da un’indicazione arrivata dalla panchina; quello che è chiaro è che così facendo Drexler consente a MJ di mettere palla a terra e puntare al ferro, con risultati che definire rivedibili è un generoso eufemismo.

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Colpa di Drexler o di Adelman? La risposta conta relativamente poco, perché la verità è che il Jordan del 1992 è un rebus offensivo senza soluzione.

I Bulls sorpassano 29-28 per poi chiudere il quarto sul 33-30. MJ, contro la squadra che - è bene ricordarlo - gli aveva preferito Sam Bowie al Draft del 1984, va in panchina a riposarsi dopo una prima frazione da 18 punti e 7/12 dal campo.

Senza di lui l’attacco passa dalle mani di Pippen e, a testimonianza dello strabiliante talento di quello che rimane il giocatore più sottovalutato di tutti i tempi, la manovra di Chicago non ne risente più di tanto. La partita si trasforma in un duello dal mid-range, impostazione tattica che vista oggi risulta ancor più inverosimile del generoso metro arbitrale, e sono i Bulls a prendere il vantaggio. In campo con la maglia dei Blazers, però, c’è Terry Porter, un giocatore che sembra arrivare dal futuro per la capacità di leggere la difesa avversaria e per la voglia di prendersi un tiro alla prima occasione. A Danny Ainge rimane poco oltre alla cattiveria agonistica, ma Cliff Robinson ne compensa la scarsa mobilità con una spavalderia e una verticalità non comuni.

La second unit tiene Portland in partita, almeno fino al rientro in campo di Jordan. Il cronometro dice che ci sono ancora 6:30 ancora da giocare quando l’MVP in carica segna in fadeway sulla testa di un Drexler sempre più frastornato. Il punteggio, in realtà, dice 47-45 per i padroni di casa, lasciando tutto ancora da decidere, solo che i sei minuti successivi scavano un distacco così profondo da risultare impossibile da colmare - mentalmente ancor prima che nel punteggio.

Jordan segna la sua quarta tripla di serata approfittando del ritardo in uscita di Ainge e i Bulls vanno avanti di 7, costringendo Adelman al timeout. I Blazers ne escono con le idee poco chiare: la difesa rimane indecisa tra il collassare nel pitturato per negare a Jordan l’accesso al ferro e l’uscire sul perimetro nel tentativo di non concedere tiri aperti. Lo spettacolo offerto da Portland, visto con il giusto distacco temporale, appare tanto grottesco quanto, in un certo senso, commovente: i movimenti dei singoli difensori sembrano limitati, come se un elastico invisibile li costringesse al continuo andirivieni tra l’area piccola e la linea dei tre punti. La paura di Jordan crea forse più danni di Jordan stesso e l’indecisione concede ai Bulls di esplorare con agio le loro seconde e terze opzioni, rendendo l’attacco fluido e a tratti implacabile. La quinta tripla di MJ arriva dopo un rimbalzo in attacco, la sesta su un’uscita poco tempestiva di Robinson. È il momento della scrollata di spalle, di cui parleremo meglio tra poco, ma è soprattutto il momento in cui i Blazers perdono la partita e, di fatto, anche la serie.

Durante il timeout chiamato da Adelman le telecamere indugiano sul volto di Drexler e l’espressione della stella di Portland vale davvero più di mille parole e analisi tecniche. Porter e compagni sono sotto 66-49 nonostante abbiano tirato fin lì con un eccellente 62% dal campo, ma neanche una schiacciata feroce di Robinson e una tripla sbagliata da Jordan prima dell’intervallo lungo cambiano la sostanza dei fatti. Al di là dei 15 punti di distacco, se si trattasse di pugilato i primi due quarti si chiuderebbero con un K.O. tecnico. Ma lo sport praticato sul parquet duro del Chicago Stadium è il basket e ai Blazers tocca sottoporsi ad altri 24 minuti di supplizio prima di poter cominciare a pensare a gara-2. MJ rientra negli spogliatoi e il suo tabellino dice 14/21 da due e 6/9 da tre per un totale di 35 punti. È un record, non il primo e nemmeno l’ultimo della sua carriera, e cancella il precedente di punti segnati nella prima metà di una gara delle Finals che apparteneva alla leggenda gialloviola Elgin Baylor contro i Boston Celtics nel 1962.

Come Jordan ha frantumato il record trentennale di Baylor.

Sindrome da stress post-traumatico

La seconda parte della partita è poco più di un lungo garbage time, anche se la qualità degli interpreti in campo ne rende assolutamente godibile la visione. I Blazers sembrano vittime di quello che potremmo definire come disturbo da stress post-traumatico, quasi incapaci di mettere in pratica anche i gesti tecnici e i movimenti più elementari. Adelman prova a scombinare le carte in tavola togliendo a Drexler il compito di contenere Jordan e assegnando la marcatura della stella dei Bulls a Jerome Kersey e Danny Ainge. La mossa funziona soprattutto perché MJ, una volta messo al sicuro il risultato, decide di mettere in mostra la versione ecumenica del suo repertorio e si dedica a servire i compagni (chiuderà la partita con 11 assist, dopo essere stato l’unico dei suoi in doppia cifra al termine dei primi due quarti). La mossa di Adelman, tuttavia, sortisce anche l’effetto di demoralizzare ulteriormente Drexler, che si porterà dietro le scorie di gara-1 per tutto il resto delle Finals.

Il punto esclamativo sulla vittoria dei Bulls lo mette ancora una volta Jordan, con l’ultimo canestro dal campo della sua partita che vale l’85-58 per i campioni in carica.

Magic, a bordo campo per NBC insieme a Marv Albert e Mike Fratello, rivela d’aver programmato il videoregistratore di casa con l’intenzione di custodire il VHS della partita e mostrarlo in futuro al figlio EJ, che nascerà proprio il giorno successivo, per fargli capire chi era Michael Jordan. Il 23 esce dal campo quando restano tre minuti da giocare nel terzo quarto: il parziale dice 30-9 per i Bulls e l’ovazione del Chicago Stadium è in tutto e per tutto assimilabile ad una liturgia pagana.

Da lì in poi, l’equilibrio di una serie comunque combattuta si reggerà sull’enorme talento a disposizione di Portland, senza però dare mai l’impressione di prevedere un finale diverso rispetto a quello che puntualmente andrà in scena una decina di giorni più tardi, con i coriandoli rosso-neri a svolazzare sulle spalle di Horace Grant e John Paxson.

Non un meme, il Meme

A prescindere dall’influsso sul resto della serie e, in parte, sul prosieguo del percorso intrapreso dai Bulls con il primo titolo vinto l’anno precedente, Gara-1 passa agli annali soprattutto per la scrollata di spalle di Jordan dopo la sesta tripla infilata sul finale del secondo quarto. Quel gesto, avvenisse oggi, non si trasformerebbe solo in un meme, diventerebbe in tempo zero il meme per eccellenza.

Da notare l’espressione sconsolata di Cliff Robinson, arrivato tardi a contrastare il tiro di MJ.

Quel gesto ha finito per creare una fiorente letteratura, ridda di teorizzazioni postume tra cui la più recente coinvolgerebbe Magic Johnson, destinatario della scrollata di spalle, il padre di Jordan e una interminabile partita a carte avvenuta la sera precedente. Altre speculazioni, più consolidate da un punto di vista storiografico, individuerebbero in Drexler il destinatario ultimo del messaggio lanciato da MJ, alquanto infastidito da un’opinione pubblica che, alla vigilia delle Finals, aveva osato mettere sullo stesso piano le stelle delle due squadre (il trollaggio di Drexler vivrà poi una fase ancor più acuta durante la comune permanenza tra le fila del Dream Team).

Ad ogni modo, l’ipotesi ancora oggi più plausibile è che si sia trattato di un gesto istintivo, timida conferma dell’emotività di Jordan, campione che ha costruito la sua epopea sul ferreo dominio del sistema nervoso, suo e altrui. E in effetti, a rivedere quella scrollata di spalle, si ha quasi la sensazione di trovarsi alle prese con un supereroe che fatica a controllare i suoi superpoteri. C’è della genuina incredulità in quel gesto e la reazione di Jordan è più comprensibile. Se infatti è possibile individuare un aspetto mediocre nel bagaglio tecnico di MJ si tratta proprio del tiro da tre punti, specialità in cui il 5 volte MVP ha tirato con il 32,7% in carriera. Per inquadrare nella giusta prospettiva la questione occorre tuttavia evidenziare come, all’epoca, le conclusioni dalla lunga distanza rappresentassero un dettaglio marginale del gioco. Giusto per avere un riferimento, nell’intera stagione regolare 1991-92 le triple tentate da Jordan erano state in tutto 27 (percentuale di realizzazione 27%), laddove al presente quel numero costituisce la media di triple prese a partita dalla squadra che in questa stagione ha sfruttato meno di tutte il gioco perimetrale, ovvero gli Indiana Pacers. Oggi come oggi, una prestazione da sei triple nei primi due quarti trova a malapena spazio tra gli highlights di un’anonima giornata di regular season, come avvenuto per l’esordio in maglia T’Wolves di Malik Beasley.

La rivoluzione dello small ball, nel 1992, è ancora lontana. Mike D’Antoni siede sulla panchina dell’Olimpia Milano e nemmeno immagina quanto le esperienze a Phoenix prima e a Houston poi cambieranno il gioco della pallacanestro. Nel 1992 Ray Allen, che frantumerà il record di Jordan con 7 triple nelle prime due frazioni di gara-2 delle Finals 2010, è un promettente liceale a Dalzell, South Carolina. Steph Curry, James Harden e Klay Thompson, che sublimeranno la nobile arte del tiro da tre, hanno rispettivamente quattro, tre e due anni.

Quella di Jordan in gara-1 delle Finals 1992 è una vera e propria cometa, preceduta solo da prestazioni di autentici specialisti come Michael Cooper nel 1987 e Bill Laimbeer nel 1990, entrambi a segno con sei triple in una gara di finale, e che resterà ineguagliata nel sistema astrale NBA per oltre 18 anni. Non solo: rivista oggi, la prestazione di Jordan smentisce, almeno in parte, un’altra delle concezioni assodate in merito ai Bulls dei due three-peat, ovvero la loro fedele osservanza della dottrina triangle offense predicata da Tex Winter. Per quanto, infatti, il triangolo costituisse l’alimento base della dieta seguita dall’attacco dei Bulls, risulta evidente come all’interno di quel sistema Jordan godesse della libertà assoluta di seguire il proprio istinto. Già nel 1992, quando ancora il mito della sua invincibilità era in fase di assemblaggio, nessuno nel coaching staff di Chicago si sognava di interferire con il flow of the game del numero 23. In quel confine labile tra il talento debordante di Jordan (e Pippen) e l’impostazione tattica di squadra, tra ciò che la memoria ricorda e ciò che viene tramandato a mezzo stampa, Phil Jackson costruirà una lucrosa carriera di santone/allenatore.

Contenuti extra

In aggiunta ai contenuti tecnici, la visione di gara 1 delle Finals 1992 offre anche spunti significativi che tratteggiano la distanza tra la NBA di allora e quella attuale. La produzione della partita, firmata NBC, regala momenti onirici come l’intervista allo chauffeur personale di Jordan a metà secondo quarto, nella quale veniamo a conoscenza dell’incontro casuale avvenuto tra i due perché, al suo atterraggio a Chicago dopo il Draft, nessuno dei Bulls si era premurato di andare all’aeroporto ad accogliere il nuovo arrivato.

A metà del terzo periodo, poi, viene intervistato Jordan senior che, evidentemente ben addestrato dall’entourage del giocatore, si premura di sottolineare come la prestazione monstre del figlio sia da attribuire al fatto che Michael ha bevuto, come sempre, il suo Gatorade. Infine, a metà dell’ultimo quarto, compare un’infografica relativa al peso di Jordan nell’attacco dei Bulls, primo, rudimentale tentativo di advanced analytics. Non bastasse, per tutta la durata della gara Albert, Fratello e Magic cercano di alternarsi in una sorta di andirivieni tra l’analisi tattica, abbastanza grossolana, e accenni di involontario cabaret, con tempi comici da migliorare ma anche con scatti notevoli, in particolare nei frammenti in cui Fratello non può fare a meno d’interrompere gli altri due dando vita a siparietti degni del “Processo del Lunedì” di biscardiana memoria.

Anche se forse non sono i Bulls migliori, ossia quelli del secondo three-peat, e se il risultato finale rimane in bilico per poco più di un quarto e mezzo, gara-1 delle Finals 1992 rimane una più che discreta gioia per gli occhi anche a distanza di quasi tre decenni. E, più di ogni altra cosa, rimane la spada nella roccia della mitologia jordaniana, laddove le sei triple con cui stende i Blazers rappresentano l’Excalibur che lo consacra Re incontrastato della NBA. È un’incoronazione strana quella di Jordan, a cui reagire con una scrollata di spalle, quasi faticasse lui stesso a rendersi conto della solennità del momento, ma quel trono se lo terrà stretto per lungo, lungo tempo.

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