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Dario Vismara
A vent’anni dal Flu Game
14 nov 2017
14 nov 2017
Cosa si prova a rivedere con gli occhi di oggi una delle gare più memorabili di Michael Jordan?
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Dario Vismara
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Nella storia di tutti gli sport ci sono certi momenti e in particolare certe partite che stabiliscono un “prima” e un “dopo” nella storia di un atleta, di una squadra, o dello sport stesso. Quel tipo di partite per cui non c’è bisogno nemmeno di ricordare l’anno, o il mese, o il giorno: bastano poche parole per far capire immediatamente di cosa stiamo parlando. Le sette lettere che compongono le parole “Flu Game” accendono nelle teste degli appassionati di basket un ricordo istantaneo: chiunque le associa a una delle più memorabili partite della carriera di Michael Jordan, una di quelle prestazioni per cui la gente si innamora dalle pallacanestro e non se ne stacca più per il resto della vita. Una di quelle partite che creano letteralmente una Leggenda, che se non esistessero le prove video probabilmente ce le tramanderemmo per via orale.

 

Per la carriera del 99% degli atleti professionisti sarebbe impensabile una prestazione come quella fornita da Michael Jordan l’11 giugno 1997. Eppure, nonostante rappresenti un momento fondamentale dello sviluppo della sua carriera, non è nemmeno il primo ricordo che associamo a MJ, superato dal tiro decisivo nell’ultima partita della sua esperienza con la maglia dei Chicago Bulls (un anno dopo su quello stesso campo,

e vincere il sesto titolo della sua carriera), ancora oggi uno dei momenti più iconici in assoluto della storia dello sport. Eppure in molti associano a quella partita la propria infanzia legata alla pallacanestro: io stesso non sarei qui a scrivere ora se un collega di mia madre non mi avesse regalato la videocassetta di

gara.

 

Ma per qualche motivo in tutti questi anni in cui scrivere di pallacanestro è diventato il mio lavoro non sono mai andato a riguardare quanto era successo quasi un anno prima, su quello stesso parquet del Delta Center di Salt Laker City, in occasione di Gara-5 della serie finale del 1997. Rimedierò adesso, riguardando a vent’anni di distanza un momento fondamentale nella storia del basket, cercando di trarre qualche indicazione sia sulla prestazione individuale leggendaria di Jordan, sia sul modo in cui si giocava a basket due decenni fa.

 



Per comprendere a pieno la portata di quel momento bisogna prima fare qualche passo indietro. Se due squadre si presentano sul 2-2 in una serie al meglio delle sette partite, è consuetudine ormai consolidata definire quella gara come “Pivotal Game”, quella in grado di far girare la serie da una parte o dall’altra: è la partita che metterà sulla racchetta di una delle due squadre il primo match point, nella partita successiva. Un altro detto su questo genere di partite è che “una serie non comincia davvero fino a quando una squadra non vince in trasferta” — oppure, sempre per usare il gergo tennistico, non le “strappa il servizio”. Per queste ragioni Gara-5 tra Utah Jazz e Chicago Bulls era la partita più “pivotal” possibile, visto che possedeva entrambi questi elementi: le squadre erano sul 2-2 e i Bulls erano in trasferta a Utah. In aggiunta a questo, la partita era carica di un investimento emotivo semplicemente spaventoso.

 

A riguardare le immagini oggi, la prima cosa che colpisce è l’intensità: il pubblico del Delta Center sente che è arrivato

, che la squadra ha trovato il modo di sconfiggere quei Chicago Bulls che sembravano imbattibili e che, per la prima volta nella storia della franchigia, avrebbero davvero potuto vincere il titolo NBA. I Jazz, guidati dall’MVP in carica Karl Malone e un John Stockton al picco della sua carriera, avevano pareggiato in Gara-4 una serie che era cominciata male per loro, con la sconfitta in Gara-1 dovuta a un

di Michael Jordan e il sostanziale dominio subito nella seconda gara allo United Center di Chicago. Nello Utah, però, le cose erano cambiate, e nel finale di Gara-4 Stockton aveva marchiato a fuoco la sua serie realizzando “The Pass”, un rischiosissimo passaggio di oltre 20 metri per il quale bisogna avere non solo una mente e una visione superiore al 99% della razza umana passata, presente e futura, ma anche due attributi di un certo livello.

 


Stockton-to-Malone al suo picco assoluto.


 

Forti di quel ricordo e di una condizione fisica generalmente superiore rispetto agli acciaccati Bulls, il pubblico dello Utah fa scoppiare i decibel del Delta Center tanto da rendere insopportabile il rumore ai presenti — avversari o bambini che siano. Per dare ulteriore carica ai mormoni era stato chiamato nientedimeno che Michael Buffer, l’

del wrestling diventato immortale al grido di “

” — anche se, come fa notare Federico Buffa durante la telecronaca per Tele+2, «non ce n’era veramente bisogno». Ma va bene anche quello: sugli spalti sono convinti di avere la squadra migliore e di poter infliggere ai Bulls la prima striscia di tre sconfitte consecutive dopo quasi sei anni — anche perché gira la voce che le condizioni di Michael Jordan siano tutt’altro che perfette.

 



Se tutto quello che è successo a MJ tra Gara-4 e Gara-5 succedesse nel 2017, non si parlerebbe d’altro in tutto il mondo per ogni singola ora di accompagnamento alla palla a due. Invece — stando a quanto mi ha detto Flavio Tranquillo, presente al Delta Center di fianco a Buffa per la telecronaca della gara — le notizie che arrivavano erano decisamente scarne: a malapena un fogliettino in cui si faceva riferimento a una gastroenterite, ma oltre a quello si brancolava quasi nel buio, tanto è vero che nello stand-up registrato prima qualche ora prima della diretta quasi non fanno riferimento al fatto che MJ possa non esserci. Nello speciale “Buffa Racconta — Michael Jordan” viene descritto come, sfruttando la vicinanza della postazione di telecronaca dal campo da gioco, Buffa stesso prima della partita aveva fatto avanti e indietro per controllare le condizioni di Jordan: «Era un varano di 1 metro e 96: non muoveva un muscolo, neanche quelli involontari. Ho guardato Flavio e gli ho detto: ‘E quando mai gioca questo’. E invece ha giocato».

 



 

Le immagini testimoniano un MJ dall’espressione cadaverica, priva della classica forza vitale che sprigionava il suo sguardo. Chiariamoci, era sempre carismatico e imponente (anche perché decisamente più grosso di quanto me lo ricordassi), ma più simile a un involucro di Michael Jordan senza Michael Jordan dentro, una specie di statua di cera estremamente realistica, ma tutto sommato falsa. Quando si alza per l’entrata in campo, subissato dai fischi di paura del Delta Center, sembra poter vomitare da un momento all’altro davanti ai compagni: ogni singolo passo sembra rappresentare la sua personale Via Crucis.

 

Quando viene giocata la palla a due, ovviamente, manda a segno il primo pallone che gli passa per le mani — ma non appena la telecamera stacca su di lui sembra già esausto come fosse all’ultimo quarto. I Jazz, sfruttando l’euforia di un ambiente carico a pallettoni che riempie di errori l’inizio di partita (3/10 combinato al tiro per le due squadre), prendono il controllo della gara: grazie a un Karl Malone da 13 punti nel primo quarto e l’involontario vantaggio di un Jeff Hornacek costretto alla panchina dopo nemmeno un minuto di gioco per due falli in rapida successione (su questo torneremo poi), la squadra di coach Jerry Sloan si spinge fino al massimo vantaggio sul +16 — e Flavio e Fede sono sconvolti da quanto male stanno giocando i Bulls, che letteralmente sembrano essersi dimenticati come si gioca a pallacanestro, come se i Monstars avessero rubato loro il talento.

 



 

Qui Steve Kerr lancia un pallone sulla spalla di Kukoc tipicamente da Golden State Warriors quando non hanno voglia di impegnarsi sul serio.


 

Jordan è sudato come se gli avessero tirato un secchio di acqua addosso e sulla sua fronte si creano quattro rughe ogni volta che viene inquadrato, come uno che non dorme da troppe ore e si sforza di tenere gli occhi aperti combattendo contro i segnali che gli lancia il suo corpo. Ciò nonostante, dosando le forze e cercando di capire su quali parti del suo corpo può contare lungo tutto il primo quarto, rimane nella gara: nel momento in cui Malone segna il primo “and-1” emotivo che fa esplodere il Delta Center, va immediatamente a spegnere il pubblico segnando il tiro dalla media distanza che tiene i suoi disperatamente a contatto. La sua capacità di “riconoscere il momento” è sempre stata sovrannaturale, ma riuscire a farlo in quelle condizioni fisiche è ciò che rende questa partita un trattato psico-motorio prima ancora che sportivo: come ha detto Buffa, sempre nello Speciale, «Non si è mai visto un uomo che mettesse il corpo al servizio della propria mente e viceversa in quel modo».

 

Una delle cose che più mi ha sorpreso nel rivedere la partita con gli occhi di oggi è la difficoltà che hanno i Bulls nel creare occasioni di tiro facili per Jordan. Nel corso della gara Tranquillo e Buffa parlano spesso di quanto le penetrazioni di MJ siano la chiave per mandare in crisi la difesa dei Jazz, e di come i suoi viaggi in lunetta siano fondamentali per abbassare i ritmi della gara, ma il motivo dei mancati fischi non sta tanto in un diverso metro arbitrale tra Chicago e Salt Lake City, quanto nel fatto che nell’attacco di Chicago

.

 



 

Nel 1997 MJ è alla soglia dei 34 anni e perciò nella fase spalle-a-canestro della carriera, ma neanche ai tempi migliori sarebbe riuscito a penetrare trovandosi in mezzo costantemente due lunghi piantati sulle tacche come in questa occasione. Oggi quei giocatori non sarebbero lì, o ce ne sarebbe solamente uno nel cosiddetto “dunker spot”, rendendo le spaziature decisamente migliori creando un sentiero più facile verso il ferro.


 

Non riuscendo a creare nulla a metà campo, complice uno Scottie Pippen in difficoltà spalle a canestro a inizio gara, Phil Jackson — che ovviamente non chiama un timeout neanche quando lo svantaggio va oltre la doppia cifra — cambia la strutturazione dei quintetti andando “piccolo”. Con Luc Longley pressoché impresentabile e Dennis Rodman con problemi di falli (oltre che nullo o quasi in attacco), Coach Zen inserisce prima il sesto uomo Toni Kukoc e poi Jud Buechler, ma riesce soprattutto a cavalcare qualche insperato insperato in post basso con Brian Williams. (Piccola nota a margine: il lungo, palesemente sovrappeso ma fondamentale in quella corsa playoff, è poi diventato noto con il nome di Bison Dele ed è tragicamente scomparso a Tahiti: la sua storia è stata raccontata in maniera magnifica

qualche anno fa. Sì, salvatelo sul vostro Pocket).

 



A cambiare l’inerzia della gara, però, è il rientro in partita di Scottie Pippen, che con un quintetto più leggero in grado di marcare più uomini inizia a muoversi in difesa provocando gli stessi danni di Godzilla che si muove per la città di Tokyo. Sfruttando il riposo di Malone e successivamente il suo terzo (e stupido) fallo di frustrazione, i Bulls si rifanno sotto grazie alla cara, vecchia difesa-e-contropiede: i Jazz non riescono più a imporre la superiorità atletica sul perimetro anche perché Hornacek viene rimesso in campo, e per Pippen è fin troppo facile scegliere come e quando raddoppiare sulla palla.

 



 

Pippen è semplicemente onnipresente: perfino uno come John Stockton perde la concentrazione dopo che si ritrova la sagoma del 33 davanti, commettendo una delle sei palle perse del quarto che rimettono in gara i Bulls (con MJ che dimostra, schiacciando al volo, di aver definitivamente riavviato il motore del suo corpo).


 

Proprio sotto questo aspetto bisogna fare un piccolo distinguo. Ai tempi la difesa a zona era considerata illegale, perciò ai difensori erano concesse solo due scelte: rimanere a distanza di una “zona” dal proprio uomo anche quando questi era totalmente innocuo (ad esempio Greg Ostertag fuori dalla linea da tre punti), oppure portare un raddoppio molto forte sulla palla.

 

Pippen era assolutamente incredibile nel giocare su questo sottile equilibrio, “ballando” tra la marcatura individuale e il momento più giusto per usare le sue doti atletiche e rendere un inferno la vita del portatore di palla. E se era così dominante nel 1997 (peraltro giocando su qualche piccolo acciacco fisico), viene da chiedersi che cosa potrebbe fare oggi in un’era in cui la zona non solo è consentita, ma è addirittura basilare per fermare i sofisticati attacchi contemporanei.

 



 

Facciamo un breve salto in un momento chiave dell’ultimo quarto per vedere il modo in cui si mette in marcatura su Ostertag (peraltro autore di una grande gara a rimbalzo) dopo una situazione di gioco rotto, ma non appena vede Hornacek libero sul perimetro è clamoroso nel costringerlo a mettere palla per terra, invitarlo verso l’aiuto e poi stopparlo.


 

La cosa che più mi sorprende oggi è quanto i Bulls fossero una squadra enormemente più difensiva che offensiva, e di come con la difesa siano riusciti a rimettere in piedi una partita in cui sembravano morti e sepolti — anche, va detto, per le scarse capacità di lettura di Jerry Sloan, che insiste fin troppo con quintetti con due lunghi come Foster e Ostertag mentre i Bulls volano in campo aperto.

 



 

Alcune azioni del secondo quarto, come questa, sarebbero realizzabili dai Golden State Warriors oggi: mettete Iguodala al posto di Pippen e Thompson al posto di Kukoc (3/3 da tre, tutti in transizione) e le immagini sembrano uscite da una gara qualsiasi alla Oracle Arena.


 

Al contrario, Chicago mi è parsa molto meno entusiasmante in attacco al di là della grandezza individuale di Pippen e Jordan. Probabilmente le condizioni ambientali in cui si giocava e quelle in cui versava MJ non forniscono il banco di prova ideale per trarre conclusioni sull’Attacco Triangolo, ma in questa particolare partita le azioni veramente riuscite secondo i dettami di Tex Winter si conteranno sulle dita di una mano, perse tra un’infinita sequenza di palloni giocati in post basso senza un reale motivo apparente (persino per Luc Longley!) e un tiro difficilissimo costruito in proprio da MJ contro la difesa competente di Bryon Russell (per il quale non si può non provare un minimo di compassione umana visto il compito improbo che gli spettava).

 



 

Non trovando particolari sbocchi vicino a canestro o scarichi per i compagni che sembrano essersi dimenticati come si gioca, Jordan fa affidamento al suo lavoro di piedi e al suo tiro in sospensione per creare attacco in proprio: la fluidità e la velocità di questo movimento sono, semplicemente, poesia in movimento.


 

Detto questo, i Bulls hanno passato la gran parte del secondo tempo ad appoggiarsi in post quasi ad ogni azione, specialmente per cavalcare il

tra Pippen e Hornacek, il quale gli rendeva non solo una dozzina di centimetri, ma almeno altrettanti di chili. Quella tattica se non altro ha permesso a Jordan di replicare quanto fatto nel primo tempo: nel terzo quarto MJ costeggia la partita limitandosi a soli due punti, come se stesse cercando di riattivare il suo corpo dopo la pausa dell’intervallo in vista del gran finale.

 



Il grande rammarico per gli Utah Jazz, quello per il quale hanno mancato il titolo NBA sia nel 1997 che nel 1998, sta tutto nell’ultimo quarto giocato contro i Bulls. Pur avendo di fronte una squadra con chiari limiti strutturali nel proporre cinque giocatori che potessero attaccare e difendere allo stesso livello, oltre che la rarissima opportunità di poter attaccare un Jordan non al massimo in una gara di Finale NBA, i Jazz non hanno avuto la bravura di riconoscere e sfruttare i

a favore, continuando a rimanere nel loro spartito con una capacità di improvvisazione pari a zero — un difetto che nei playoff non si può permettere nessuno, tanto oggi quanto allora.

 



 

Nell’ultimo quarto sostanzialmente non hanno fatto altro che cercare ossessivamente di liberare un quarto di campo in post persino quando Malone era in panchina. Qui Stockton invece di attaccare Kerr in un pick and roll gioca verso Antoine Carr che perde malamente il pallone: in transizione i Jazz si accoppiano malissimo e lasciano a MJ la comoda tripla del pareggio a quota 77 con un parziale di 6-0.


 

È proprio per situazioni come queste che, anni dopo, sul

scriveranno che gli allenatori dei Bulls «ritenevano i Jazz estremamente prevedibili. Quello che per loro funzionava sera dopo sera contro squadre normali durante la regular season non funzionava più in serie prolungate contro grandi difensori. Il prezzo della disciplina sta proprio in un gap di creatività, nella capacità di improvvisare, che mandano gli attacchi ordinati in una situazione di scacco matto». Ai Jazz è mancato il killer instinct nell’uccidere un avversario sanguinante tanto nel 1997 quanto nel 1998, scavandosi da soli la fossa in cui poi Jordan è poi passato per dar loro l’ultima spintarella.

 



 

Idem come sopra, con l’aggravante che Hornacek, in una brutta serata al tiro, non si fida di se stesso pur avendo un Jordan letteralmente per terra e riconsegna palla a Stockton per l’ennesimo pallone gettato nelle fauci dei Bulls, che tornano in attacco sbadigliando.


 

La qualità della pallacanestro complessiva giocata, quando si vanno ad analizzare tutte queste piccole cose al microscopio, è per la verità piuttosto bassa: per carità, stiamo pur sempre parlando dell’ultimo quarto di una Gara-5 di Finale NBA in un ambiente tesissimo e il pallone che pesa come un macigno, perciò aspettarsi un’esecuzione certosina sarebbe impossibile. Però siamo comunque lontani rispetto a quello che i nostalgici-ad-ogni-costo vogliono farci passare: sarò giovane e ingenuo io, ma questa pallacanestro non è migliore rispetto a quella che viene giocata oggi, pur con tutti gli indiscutibili difetti dei giocatori contemporanei.

 



 

Qui basta un raddoppio forte di Pippen e una serie di rotazioni fatte nemmeno così puntualmente per costringere Malone a un pessimo tiro, peraltro con ancora 7 secondi sul cronometro per poter creare qualcosa. Tutto l’ultimo quarto dei Jazz, volendo, si può riassumere in questo attacco.


 



Ovvio che in un contesto di lucidità così scarsa, un giocatore del livello assoluto di Jordan — che sarebbe un dominatore in qualsiasi epoca, sia chiaro — faccia tutta la differenza possibile anche nelle condizioni in cui versava.

 



 

Osservate quanto sia congestionata l’area e quanto poco venga creato dall’attacco Bulls in questa azione, e poi ammirate cosa ne tira fuori MJ nel momento più difficile della gara dopo una tripla di Stockton.


 

Il culmine della partita di Jordan e degli errori dei Jazz viene toccato però sul tiro decisivo, che arriva a seguito di un errore dalla lunetta di Jordan recuperato dallo stesso, su cui manca un costosissimo tagliafuori.

 



 

Ai Bulls basta eseguire un abbozzo di schema isolando i suoi due migliori giocatori su un lato per tirare fuori un tiro ad alta percentuale — anche per il suicidio di Bryon Russell che, di sua spontanea volontà, va a raddoppiare sul post lasciando libero Jordan. Alla fine la scelta di coach Sloan di insistere su Hornacek, in chiara difficoltà contro Pippen, gli si è ritorta contro, per quanto l’errore maggiore rimanga dello sciagurato Russell — e della grandezza di Michael Jordan, che non avrebbe sbagliato quel tiro neanche tra un milione di anni.


 

Il fatto che sul possesso successivo, quando c’era meno da pensare e più da trovare punti veloci, Stockton faccia una cosa moderna (un “

” sul pick and roll centrale, una penetrazione contro Kerr e Longley e uno scarico per due comodi di Ostertag) aggiunge solamente ulteriore beffa a una gara ormai persa — anche perché Malone, pur di non commettere il sesto fallo, fa una scelta egoistica e regala altri due punti ai Bulls, che di fatto chiudono la gara.

 

Secondo il racconto di Tranquillo, solamente dopo quella azione — vedendo MJ tenuto in piedi a braccia da Pippen mentre rientrava in panchina — si è davvero reso conto delle condizioni in cui si stava Jordan. E anche tutto il resto del mondo, successivamente, ha appreso dell’intossicazione alimentare dovuta a una pizza avariata ingerita due sere prima, che lo avevano portato a chiamare il suo trainer personale, Tim Grover, nel cuore della notte dicendogli solo: «Sto morendo».

 

Ormai, dopo averli sentiti decine di volte, tutti quei dettagli — Jordan che viene ritrovato in posizione fetale in mezzo al vomito, le ore febbrili attaccate alle flebo, il pre-partita passato in una stanza buia a

tutta la gara — sono entrati nell’immaginario collettivo al punto da sembrare, come dicevamo all’inizio, parti di una leggenda piuttosto che dalla realtà. Ma quello che Michael Jordan è riuscito a fare è dannatamente

, anche a vent’anni di distanza, e continuerà ad alimentare l’epica della sua figura ancora per molti, molti anni.

 

 

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