Nel mondo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, George Martin chiama “Knights of Summer” il gruppo di cavalieri che sostenevano Renly Baratheon nella sua rivendicazione del Trono di Spade come legittimo erede. I cavalieri dell’estate erano “giovani e forti, pieni di vita e di risate”, “ubriachi di sogni e di canzoni, uguali a tutti gli altri ragazzi che credono di essere invincibili e immortali”. In un mondo come quello di Westeros, in cui le stagioni potevano durare decenni, loro non avevano mai dovuto affrontare i dolori della guerra nelle loro vite: avevano vissuto solo in tempo di pace e di estate, di vivacità e di freschezza, al contrario di chi aveva dovuto vivere sulla propria pelle dolori e sofferenze della guerra che aveva dato il trono a Robert Baratheon. Volevano conquistare il mondo e non avevano alcun dubbio che ci sarebbero riusciti, ballando e prendendo in giro chiunque si sarebbe opposto alla loro avanzata.
Per molti versi, i Memphis Grizzlies di questa stagione sono i cavalieri dell’estate della NBA. Pur avendo alle spalle una sconfitta al torneo play-in nella bolla di Orlando e un’eliminazione al primo turno nei playoff della scorsa stagione, di fatto vengono ancora considerati come dei debuttanti alla post-season, specialmente dopo aver concluso una regular season esaltante da 56 vittorie e 26 sconfitte, buone per il secondo miglior record di tutta la NBA. Ma ancor più dei risultati che sono riusciti a raggiungere, è il modo in cui lo hanno fatto ad aver sovvertito molte delle convenzioni a cui siamo abituati.
In una lega che bolla quasi automaticamente i giovani come destinati a perdere, i Grizzlies hanno vinto con il secondo roster più giovane ai nastri di partenza della stagione. In una NBA che cerca di concentrare il talento in pochi giocatori e poi di arrangiarsi come si riesce nel resto del roster con contratti al minimo salariale a veterani il più delle volte bolliti, loro possono vantare 15 giocatori in grado di tenere il campo in ogni situazione, tanto da avere un record di 20 vittorie e 2 sconfitte senza il loro miglior giocatore a disposizione. In una NBA fortemente a trazione perimetrale, schierano quasi sempre due lunghi in campo contemporaneamente e, soprattutto, sono estremamente deficitari al tiro da tre sia in termini di volume (solo Chicago ne ha tentate meno di loro in stagione) che di percentuali (fuori dalla top-10 pur chiudendo con il quarto miglior rating offensivo della NBA).
A questo si aggiunge poi lo stile assolutamente unico che i Grizzlies hanno ogni volta che scendono in campo. Per come sono fatti ogni loro partita è un fiocco di neve: tutte sono diverse eppure finiscono per avere in un modo o nell’altro dei momenti che si assomigliano tra loro. Sono talmente esuberanti, aggressivi, atletici, attivi, che diventa impossibile giocare degli schemi o eseguire normalmente. Mettono la partita su un piano talmente primordiale nel fare a gara a chi corre e salta di più da rendere la sfida per forza di cose una contesa di alti e bassi, di giocate sensazionali e di errori macroscopici, di zompi insensati e di tagliafuori persi per mancanza di attenzione.
In 48 minuti di Memphis, specialmente in questi playoff, può succedere tutto e il contrario di tutto: possono realizzare come subire un parziale di 10-0 in ogni momento; possono mettere assieme un possesso difensivo perfetto e uno in cui salta tutto per aria dopo neanche un passaggio; possono essere perfettamente verticali e disciplinati così come commettere fallo su qualsiasi cosa si muova. Per come sono fatti è difficile che una loro partita sia brutta, è altrettanto difficile che sia “bella”, ma è certamente impossibile che sia noiosa.
L’estetica dei Grizzlies quando scendono in campo
In inglese esiste l’aggettivo youthful, liberamente traducibile come pieno di gioventù. I Grizzlies lo sono in tutto quello che fanno, prendendo l’eredità di chi è venuto prima di loro — cioè i vari Zach Randolph, Marc Gasol, Tony Allen e Mike Conley, i Quattro Cavalieri del Grit & Grind — e remixandolo in maniera completamente nuova, pur mantenendo inalterato lo spirito di fondo. Anche questi Grizzlies giocano duro e forte ogni possesso, vivono di rimbalzi offensivi, palle perse forzate, canestri in contropiede e trangugiando una hustle play dietro l’altra come le ciliegie che si trascinano dietro il pubblico. Ma ci aggiungono la spensieratezza tipica di chi si ritrova ad avere vent’anni e svariati milioni di dollari nel conto in banca in questi anni ’20: ad esempio cominciando a ballare prima ancora che il compagno cominci a tirare.
Ora immaginatevi Zach Randolph che lo fa prima di una tripla di Mike Conley e provate a non ridere.
C’è anche un aspetto puramente estetico delle loro gare che li rende unici e riconoscibili. Quando indossano le meravigliose divise blu della City Edition di questa stagione, indossano tutti degli accessori giallo-fosforescente in pendant con gli inserti della maglia — che siano sleeve per le braccia o calzamaglie per le gambe. Se ci fate caso, tutti hanno una o più gambe coperte da questi accessori, come se fosse un oggetto comunitario con cui fare ancora più gruppo e risaltare ancora di più in campo e sui teleschermi, come se fossero pezzi di un’armatura che hanno deciso di tingere dello stesso colore perché fa figo.
L’unico che se ne discosta è Kyle Anderson, che all’interno di questa squadra si conferma ancora una volta di più un ossimoro che cammina. Un giocatore talmente lento da essere soprannominato “Slow-Mo”, che non avrebbe cittadinanza in una squadra così esuberante e veloce, e che invece risulta indispensabile proprio per la sua lentezza e la cerebralità della sua pallacanestro. Un effetto straniante come un abate amanuense finito non si sa come in un gruppo di 17enni che vogliono bere le birrette e perdere tempo incontrandosi con gli scooter nello stesso identico posto ogni sera d’estate.
Joe Murphy/NBAE via Getty Images
Al centro di tutto questo discorso c’è ovviamente Ja Morant, probabilmente il giocatore più cool della NBA e degno erede di Allen Iverson (per stessabenedizione di AI) per la gioiosa sfrontatezza con cui scende in campo. I suoi salti basterebbero da solo a renderlo un giocatore imperdibile, e della sua mano sinistra abbiamo già scritto abbastanza, ma molto della sua stessa estetica è dovuta anche alla criniera di treccine che ormai sono parte fondativa del suo brand (davvero, qualcuno riesce a immaginarselo con un’altra acconciatura adesso?Le foto di quando li teneva corti sembranoappartenere un’altra persona) e accompagnano i suoi movimenti elettrici ovunque si muova per il campo — specialmente quando prende velocità per attaccare andando a sinistra, oppure quando vira al centro dell’area per creare spazio al suo floater.
Quanto diventano più belli questi canestri con quella massa di capelli che si muove attorno a Ja come se vivesse di vita propria, come fossero serpenti attorno alla testa di Medusa?
Impazzire per gli errori dei Grizzlies
Ciò che rende fenomenale Morant riesce a nascondere solo fino a un certo punto anche le sue mancanze in altre parti del gioco, a partire dalla metà campo difensiva. Ci sono momenti in cui la difesa di Memphis diventa una selva selvaggia di braccia e atletismo come gli Oklahoma City Thunder di Russell Westbrook e Kevin Durant quando erano giovani, e altri in cui invece sembrano dimenticarsi come d’incanto che per vincere a pallacanestro bisogna parlarsi in difesa. Il finale di gara-2 contro Golden State è un microcosmo di tutto questo: Morant ha segnato tutti gli ultimi 15 punti dei suoi inventandosi un canestro più incredibile dell’altro in attacco, ma ha anche sulla coscienza tutti i tiri che gli Warriors sono riusciti a prendersi e, per sua fortuna, solo in parte segnare.
Si può subire un canestro del genere in un momento così delicato di una partita di playoff?
In una recente intervista con Zach Lowe, Brandon Clarke ha rivelato come Morant nel finale di gara abbia chiesto ai suoi compagni di dare il massimo in difesa e che poi ci avrebbe pensato lui in attacco. Una promessa certamente mantenuta, ma molto della maturazione dei Grizzlies passa soprattutto dalla maturazione di Morant nella propria metà campo, dove non sarà mai un cagnaccio perché il suo lavoro è fare altro, ma dove deve esercitare un esempio maggiore visto la leadership emotiva e tecnica che il suo talento gli impone.
Già solo un numero maggiore di queste giocate aiuterebbe. Morant viene colpito in pieno da uno dei mortiferi blocchi ciechi di Steph Curry e Otto Porter ha una finestra temporale comodissima per ricevere e segnare, ma Damion Lee ha una frazione di secondo di ritardo e Morant è ghepardesco nell’avventarsi su quel pallone e nel mantenere l’equilibrio per non uscire dal campo.
I difetti di Morant non sono comunque esclusivi. Tutti i Grizzlies — a partire da Jaren Jackson Jr., che commette fallo ogni volta che si muove per il campo — sembrano attratti dal pallone come falene e cercano di recuperarlo il più in fretta possibile mettendo una pressione a volte esagerata sugli avversari, spesso finendo per perdersi l’avversario alle spalle. Solo che hanno anche l’atletismo per sopperire ai loro errori con giocate atletiche sensazionali, capaci di creare un contesto caotico e confuso nel quale sguazzano, volando in campo aperto dove solo ingiocabili.
Le tre stoppate di De’Anthony Melton in gara-2, una più importante e sensazionale dell’altra. Dopo una serie in cui non ci ha capito niente contro Minnesota finendo fuori dalla rotazione, coach Jenkins lo ha ributtato nella mischia e ora è un elemento imprescindibile per innalzare ancora di più il livello atletico di ogni contesa. E il fatto di essere fresco, così come Ziaire Williams tornato in gara-2, fa tutta la differenza del mondo.
Ci sono momenti in cui l’esuberanza atletica di Memphis quasi dà un fastidio epidermico a Golden State. Gli Warriors in questa serie sembrano uno di quei gruppi di 30/40enni, amici da una vita, che in un torneo estivo di calcetto si ritrova davanti una squadra di ragazzini che non hanno idea di come si “gioca”, ma che vanno al doppio della velocità e picchiano dal primo all’ultimo minuto. Il classico avversario che magari poi riesci anche a battere, ma che quando ti svegli il giorno dopo ti ritrovi con tutte le giunture che chiedono pietà, e allora ti mette davanti al fatto compiuto che stai invecchiando e che non c’è niente che tu possa fare per evitarlo.
L’inverno sta arrivando
“Cavalieri dell’estate” non è un appellativo che i seguaci di Renly Baratheon hanno dato a loro stessi. È Catelyn Stark nel secondo libro della saga, Lo scontro dei re, a definirli così: in un dialogo con un altro personaggio dice «Provo pietà per loro perché non durerà. Perché sono i cavalieri dell’estate… ma l’inverno sta arrivando», prevedendo la fine imminente delle loro illusioni e il triste ritorno alla realtà come per lei lo era stato la morte del marito Ned.
Con ogni probabilità, l’inverno sta per arrivare anche per questi Grizzlies. Non solo perché Golden State è una squadra più forte, talentuosa ed esperta, più abituata a certi palcoscenici e con più consistenza nelle due metà campo, come ha dimostrato nelle prime due gare della serie al di là dell’1-1 attuale. Ma anche perché, per come è fatta la NBA, non è detto che questa squadra possa rimanere assieme a lungo. Kyle Anderson e Tyus Jones sono in scadenza, Steven Adams e Dillon Brooks lo saranno l’anno prossimo, Ja Morant e Brandon Clarke potranno firmare un’estensione quest’estate e Desmond Bane nella prossima. Tenerli tutti quanti sarà costoso e difficile per la dirigenza dei Grizzlies, che se non altro si è portata avanti con il lavoro facendo firmare un contratto intelligente a Jaren Jackson Jr., pagandolo di più nell’immediato e andando a scendere negli anni futuri. Ma è un attimo ritrovarsi con il cap alle stelle e uno spogliatoio in cui, invece di giovani affamati, ci sono ragazzi milionari che si sentono appagati.
Sono passati dieci anni da quando Durant, Harden e Westbrook si affacciarono per la prima volta alle Finali NBA nel 2012. Eravamo convinti che sarebbero andati avanti a dominare la Western Conference assieme per un decennio, invece dopo pochi mesi avevano già cominciato a sfaldarsi. Perché come tutte le cose belle, squadre del genere rischiano di essere effimere: un lampo capace di squarciare in due la lega e di dissolversi nel nulla. Nelle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco Renly Baratheon viene ucciso nella sua stessa tenda da un’ombra evocata da riti oscuri e i cavalieri dell’estate, senza la loro guida, finiscono per perdersi esattamente come si erano creati. Magari questi Grizzlies sorprenderanno tutti e batteranno anche Golden State — mai porre limiti alla sfrontatezza e all’esuberanza —, ma anche se così non fosse, la stagione 2021-22 della NBA non può essere raccontata compiutamente senza parlare di Ja Morant e della banda di giovani spregiudicati che lo accompagna.
Si ringrazia Laura “La Madre dei Draghi” per la consulenza sul mondo di George Martin.