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La leggenda dei 13 punti in 35 secondi
09 dic 2020
Il 9 dicembre del 2004 Tracy McGrady realizzava il più incredibile finale individuale di sempre.
(articolo)
15 min
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La vera differenza tra una persona normale e un appassionato di basket non è nella convinzione con la quale spezza il polso per indirizzare una cartaccia verso il cestino, o per come riesce a escogitare nuovi modi per rimanere in piedi la notte. La vera differenza è che per una persona normale 35 secondi sono poco più di metà minuto, mentre per un appassionato di basket sono il tempo che serve per scolpire per sempre il proprio nome dove né i dolori al ginocchio né quelli alla schiena potranno mai cancellarlo.

Per soli 35 secondi Tracy McGrady è stato il giocatore che doveva essere e che forse non è più stato, quello che doveva coprire lo spazio che intercorre tra il regno appena concluso di Michael Jordan e quello in divenire di LeBron James rivaleggiando da pari a pari con Kobe Bryant.

Negli anni del post Jordan, dove in molti si sono accalcati per provare ad estrarre la proverbiale spada dell’eletto, McGrady è sembrato uno dei pretendenti più credibili. Bastava guardarlo per un paio di azioni per riconoscergli un talento puro nel fare canestro con pochi pari nella storia della lega. McGrady viene paragonato dai media ad una versione migliorata di George “The Iceman” Gervin, l’elegante realizzatore degli anni ’80. Con raggio di tiro che si estende dietro la linea da tre punti, è più grosso e potente di una guardia e possiede un miglior trattamento di palla di un’ala di quel periodo, oltre ad avere un primo passo bruciante. All’epoca McGrady si definisce un giocatore versatile, uno che sa puntare al canestro e tirare da fuori, uno che può dare alla squadra quello che serve di volta in volta. Oggi si parlerebbe di come un vero e proprio wing creator, il prototipo di quello che diventeranno successivamente i vari Kevin Durant e Paul George.

In pochissimi anni McGrady era passato da essere un imbucato all’Adidas ABCD camp di Sonny Vaccaro quando era ancora uno sconosciuto prospetto liceale ad essere una stella a Toronto insieme a suo cugino Vince Carter, fino ad arrivare a due titoli di miglior marcatore NBA con la maglia degli Orlando Magic, diventando uno dei giocatori più elettrizzanti e divertenti della lega.

Il 9 dicembre 2004, quando al Toyota Center si gioca il derby texano contro i San Antonio Spurs, McGrady è a Houston da pochi mesi, scambiato per Steve Francis, Cuttino Mobley e Kelvin Cato, nel tentativo dei Rockets di dare una spalla a Yao Ming, prima scelta assoluta nel Draft 2002, e convincere il pubblico americano che non sia una mossa pubblicitaria. Dall’altra parte c’è la squadra che ha vinto il titolo nel 2003 e lo vincerà alla fine di quella stagione, nelle Finals con meno lustini di sempre, contro i Detroit Pistons.

La classica partita di metà anni 2000

Siamo appunto in uno dei periodo più bui della storia recente della lega, in piena transizione tra la muscolarità degli anni ‘90 e le spaziature degli anni ‘10. Rivedendo oggi la partita, si nota immediatamente come lo spettacolo del basket giocato non sia esattamente una priorità per i dieci in campo.

Per capire il contesto storico basta descrivere la prima azione della partita: con 8 secondi rimasti sul cronometro dei 24, McGrady si isola contro Bruce Bowen, una scena che vedremo spesso nel corso della gara, e il suo tiro dal palleggio con un piede dentro la linea scheggia appena il ferro e esce dal campo. Dall’altra parte gli Spurs aspettano che sul cronometro rimangano 4 secondi prima di far arrivare la palla a Tim Duncan spalle a canestro nel pitturato, il quale passa il pallone per la conclusione Nesterovic dai 5 metri che si stampa sul ferro. Non il miglior biglietto da visita per una partita che è passata alla storia.

Gli Spurs e i Rockets in quel momento storico non hanno niente di elegante e niente di divertente: puntano solo a toglierti piano piano la voglia di giocare visto quanto è difficile fare canestro con gli strumenti dell’epoca. La partita è un’orrenda danza con i pesi alle caviglie in cui ci sono troppi passaggi in lunetta per poter essere seguita con gli occhi incollati allo schermo. In questo contesto da basket a velocità rallentata ne esce benissimo Yao Ming, incontenibile sotto canestro con 27 punti (9/15 dal campo, 9/10 ai liberi) e 10 rimbalzi. Per quanto potrebbe dominare, il fatto però che abbia tentato solo 15 conclusioni è una vittoria per coach Popovich, visto che gli altri Rockets non riescono a segnare. Per dire nella partita fino all’ultimo minuto di gioco McGrady ha segnato 8 canestri su 25 dal campo, di cui 1/8 da tre.

Il fatto che McGrady abbia faticato nel corso della partita a segnare era però la norma contro questi Spurs, una squadra molto lenta, tutta costruita attorno ad una difesa tra le migliori viste in NBA. Popovich è ancora un allenatore difensivista, sembra proprio un altro coach rispetto a quello che successivamente svilupperà uno dei sistemi offensivi più divertenti da vedere, il famoso “Beautiful Game” che gli varrà il quinto anello della sua carriera. Se gli Spurs difensivamente sono quasi perfetti, in attacco sono problematici da veder giocare per gli standard attuali. Forse l’unico barlume di quello che saranno gli Spurs futuri è la libertà che per la prima volta Popovich concede a Ginobili in attacco.

Per il resto sono lenti e poco attenti alle spaziature in campo, sembrano quasi focalizzati unicamente nel far ricevere Duncan vicino a canestro e vedere in che modo la palla toccherà il tabellone prima di entrare a canestro. Il periodo storico è questo, Steve Nash e Mike D’Antoni si sono uniti solo ora e quindi la rivoluzione dei “7 seconds or less” non ha ancora impattato sulla lega. La finale NBA sarà proprio tra questi Spurs e i Detroit Pistons di Brown, un’altra squadra costruita su un sistema difensivo tra i migliori visti in quel decennio.

Ad aiutare i ritmi letargici in campo c’è il fatto che i Rockets sono una squadra che Jeff Van Gundy ha tirato su come una rocca difensiva. Sono la versione leggermente meno rifinita degli Spurs: una squadra di veterani, lenta nello stile di gioco, con una difesa di alto livello e con un attacco mediocre che si regge tutto sulle due stelle, di cui solo Yao sembra in forma in questa partita.

Entrando nell’ultimo minuto di gioco gli Spurs hanno tirato 26 su 76 dal campo, i Rockets da par loro 26 su 79. L’ultimo minuto però è il motivo per cui siamo qui, che inizia con San Antonio in vantaggio in doppia cifra per 74 a 64. Ma anche nell’ultimo giro di lancette le cose non sembrano cambiare per McGrady, il cui tiro non tocca neanche il ferro e viene salvata dal rimbalzo e canestro di Yao Ming. Sulla successiva rimessa poi Scott Padgett, un nome che di sicuro non vi ricordavate, ruba palla e segna a sua volta per portare Houston a -6 con 47.3 secondi sul cronometro. Immediatamente dopo Devin Brown segna i due liberi sul fallo dei Rockets sulla rimessa degli Spurs e lo svantaggio ritorna a 8 punti.

44.2 secondi: Rockets in svantaggio di 8 punti

«È in situazioni come queste che il miglior giocatore deve farsi avanti e provare a fare qualcosa» dirà McGrady davanti al microfono a fine partita. T-Mac si fa dare la palla dalla rimessa e parte contro Bowen che lo prende in 1 contro 1 a tutto campo. Bowen è probabilmente il miglior difensore sugli esterni al momento, McGrady però è uno che non si fa problemi a dover attaccare partendo dalla marcatura stretta e avanza inscalfibile proteggendo col corpo il pallone in attesa che un blocco gli tolga Bowen di torno. Alla fine riesce finalmente a forzare il cambio accoppiandosi sul perimetro contro Malik Rose, una cassapanca con la canotta numero 31 degli Spurs, che anche saltando non arriva a potergli contestare il tiro. È un canestro tutto sommato semplice per uno come McGrady, ma è quello che gli serve per aprire la striscia.

La palla entra con 35 secondi sul cronometro portando lo svantaggio a 5 punti. I Rockets fanno fallo sulla rimessa degli Spurs in modo da fermare il cronometro. Devin Brown mette entrambi i liberi, comunque tutto nella norma per Popovich e gli Spurs saldamente in controllo.

31.9 secondi: Rockets in svantaggio di 7 punti

Ancora palla a McGrady dalla rimessa, ancora Bowen a marcarlo dalla ricezione, ancora un blocco per toglierlo di mezzo. Stavolta davanti però c’è Duncan con la sua manona ma, se possibile, il risultato è anche migliore del precedente. Questa volta McGrady semina Bowen, che passa sotto al blocco possente di Yao Ming, poi davanti all’aiuto di Duncan prima lo manda fuori asse con una finta e dopo prende contatto con il corpo del difensore mentre effettua la conclusione. Un tiro da circo visto che la palla esce dalla sue mani mentre ha entrambe le gambe ancora piegate e sta cadendo all’indietro dopo aver sbattuto contro il tronco del numero 21. McGrady segna la tripla e può andare anche a segnare il libero supplementare.

In questo preciso momento tutti si accorgono che sta succedendo qualcosa di diverso, e quel gioco da 4 punti fa scattare la molla dell’attenzione. Chi ha vissuto questa partita dall’Italia l’ha fatto con in sottofondo Tranquillo e Buffa, immancabili compagni di telecronaca in quegli anni e le loro voci raccontano bene la rapidità con la quale le emozioni della partita cambiano d’intensità. Tranquillo in un nonnulla passa dal commentare i rituali liberi di Brown alla magia di McGrady che riapre una partita già chiusa a chiave: «11 su 12 ai liberi San Antonio, 0 su 0 Houston in questo quarto quarto. Non credo che serva altro per spiegare una delle chiavi della vittoria Spurs che si profila all’orizzonte. Adesso sono 3 possessi in meno di 30 secondi, Bowen mangia altri secondi a McGrady… che porta a casa il contatto! Manda per aria il pallone! Segna col fallo di Duncan! Adesso 78-74, se segna 78-75, tutto completamente da rifare! Incredibile tra l’altro McGrady». Interviene serafico Buffa: «Oh… beh… queste sono le classiche cose NBA fuori script». Il copione della partita diceva tranquilla vittoria Spurs insomma. Il gioco da 4 è il momento in cui il destino della gara si fa improvvisamente incerto.

Dopo il libero, gli Spurs rimettono il pallone tornando nella metà campo avversaria con 24.3 secondi sul cronometro. Si aspettano un fallo dei Rockets, ma Van Gundy non vuole spenderlo subito, aspettando il giocatore giusto su cui farlo e quel giocatore è Duncan. Duncan in quella stagione tira col 67% su 6.9 tentativi a partita, non è certo uno specialista, ma li segna entrambi redimendo un minimo l’errore sul canestro precedente di McGrady.

16.2 secondi: Rockets in svantaggio di 5 punti

Con 16 secondi sul cronometro Van Gundy spende il suo ultimo timeout per avere la rimessa a metà campo, esaurendo però ogni ulteriore possibilità di fermare la gara. McGrady sarà il giocatore a cui far ricevere la palla, lo sanno tutti i presenti al palazzetto e infatti nonostante lui si muova sfruttando un blocco su Bowen, riceve con i piedi accanto alla linea di metà campo, con Parker davanti e Bowen subito addosso per raddoppiarlo. T-Mac porta a spasso Bowen quel tanto che gli basta per arrivare fino alla linea da tre e poi si alza per tirare direttamente dal palleggio, quasi lanciandosi in aria. Un tiro con Bowen attaccato come un francobollo, con la sua mano a toccare il corpo di McGrady tutto il tempo per destabilizzarlo come solo Bowen sapeva fare, un tiro forzatissimo, che ovviamente entra per il -2.

Ci starebbe pure un altro libero supplementare vista la difesa aggressiva di Bowen ma gli arbitri lasciano giocare - siamo pur sempre nel 2004. Il palazzetto erutta, i compagni festeggiano, McGrady è invece con lo sguardo fisso sulla palla pronto a muoversi per la rimessa degli Spurs. Buffa nel replay dice che per lui McGrady fa soffrire Bowen anche più di Bryant: «Lo fa soffrire più di Kobe, per questa capacità di elevarsi, essendo più lungo e tirare da tre, cosa che Bryant farebbe più fatica a prendere come tipo di tiro».

11.2 secondi: Rockets in svantaggio di 2 punti

Gli Spurs hanno la rimessa dopo il timeout e devono sostanzialmente fare una cosa: perdere il maggior tempo possibile fino al fallo che inevitabilmente i Rockets andranno a commettere per mandarli in lunetta e poter poi riavere il pallone dell’ultimo tiro. A rimettere la palla in gioco è Brent Barry il quale ha diverse opzioni. Può passarla a Parker in punta, sfruttando magari il blocco di Malik Rose per farlo ricevere più libero, o può passarla a Devin Brown, che per ricevere libero può sfruttare il blocco di Tim Duncan e venire a prendere la palla vicino. A provare ad oscurare la rimessa di Barry c’è Yao Ming: la sua stazza però non aiuta Houston, visto che Barry dopo attimi di esitazione riesce a mandare la palla dove vuole, cioè le mani di Devin Brown, il miglior tiratore di liberi in campo con 8 canestri su 8 tentativi nei 26 minuti giocati finora. Brown deve soltanto perdere tempo, subire fallo e poi andare a segnare i due liberi per riportare a 4 il parziale.

Una giocata tutto sommato standard nei finali tirati, ma la pressione di sapere di dover subire fallo crea però il fattaccio. Brown palleggia spalle a canestro, si aspetta il tentativo di rubata o almeno il fallo da un momento all’altro, ma l’avversario alle spalle non lo tocca. All’arrivo del raddoppio di Yao dopo la rimessa, Brown si gira andando a sinistra e con sua sorpresa non c’è nessuno a proteggere il ferro. Il movimento della virata però è troppo veloce per il suo equilibrio e finisce rovinosamente a terra. Nessuno l’ha toccato, non c’è il fischio: Brown è pancia a terra e vede la palla andare piano piano verso l’ultima persona a cui dovrebbe andare, l’accorrente McGrady. La palla magicamente è attratta da chi la tratta meglio.

T-Mac si china a raccoglierla e poi si lancia palleggiando verso il canestro degli Spurs, con gli avversari che nel panico corrono a loro volta verso il proprio canestro, lasciando spazio all’avanzata del numero 1. Il più veloce in campo è Parker che però è troppo più piccolo di McGrady per poterlo tenere e finisce per scortarlo fino alla linea dei 3 punti, mentre i suoi compagni sperano solo di non essere loro nella zona da cui farà partire l’inevitabile tripla. Duncan corre guardando il canestro, Rose all’indietro con lo sguardo fisso sul numero 1, e i due si ostacolano a vicenda. Ma tanto McGrady ha già deciso da dove vuole far partire la tripla: una volta arrivato a metà campo cambia mano in corsa e si muove verso sinistra per andare verso il mezzo angolo, una delle zona da cui in allenamento si provano più tiri.

Davanti ha Barry, ma davanti è relativo, perché dal replay si nota come McGrady non stia neanche guardando il canestro prima di alzarsi per il tiro, e vista la velocità con cui passa dal palleggio al tiro il giocatore in maglia Spurs in realtà riesce a malapena ad alzare una mano a difesa del canestro. Barry è stato surclassato dalla velocità con cui Tracy ha raccolto il pallone per il tiro, uno stacco che porta lo stesso McGrady a galleggiare in aria per qualche frazione di secondo che sembra interminabile, tanto che rilascia la palla solo mentre sta già ricadendo. Il movimento lo porta a non poter avere una meccanica pulita: le due mani sono parallele e la destra è accanto alla palla invece che sotto, ma T-Mac riesce comunque a lasciare andare il pallone con un polso ben spezzato così da dargli una parabola pulita. La palla entra nel canestro senza neanche sfiorare il ferro. Per la prima volta può festeggiare anche lui.

Tranquillo è incontenibile: «Deraglia Devin Brown! Palla persa incredibile! Chance addirittura di vittoria per McGrady, che prende il tiro da treee… lo metteeee lo metteeee Tracy McGrady! Il più incredibile finale di sempre!» Va avanti così per qualche secondo. Quando termina c’è pausa scenica di un paio di secondi. «Do you believe in miracles?»

Questa è la frase intagliata da Federico Buffa da mettere come etichetta sulla cornice della partita. Si può immaginare l’abbia detta col sorriso beffardo stampato in faccia di chi sa di star raccontando qualcosa di miracoloso. Risponde a tono Flavio Tranquillo: «Questo non è un miracolo, è qualcosa di più. Ultimo tiro contro quattro difensori. Ma a quel punto, ormai, McGrady in condizione di vedere una vasca da bagno al posto del canestro».

Mentre tutti sono ancora increduli, McGrady interrompe la sua esultanza perché si accorge che Parker ha la palla in mano e sta andando verso il canestro per tentare un ultimo disperato tentativo. T-Mac ha l’istinto di difenderlo e gli si piazza davanti, costringendolo a tirare tutto storto in corsa dagli 8 metri con una parabola che non arriva neanche vicina a toccare il ferro mentre i compagni sono già tutti accorsi ad abbracciare il numero 1.

«È stata una cosa alla Michael Jordan, il più gran finale di partita che abbia mai visto» dirà a fine partita Steve Kerr, all’epoca commentatore della gara. Subito dopo il canestro vincente invece, mentre i replay si sprecano e il collega Marv Albert sta ancora celebrando la partita di McGrady sciorinando le statistiche, la prima cosa che gli viene in mente è parlare di chi ha lasciato prima il palazzetto. Riferendosi alle chiazze vuote tra gli spalti per quella tradizione molto americana di lasciare prima della fine della partita il palazzetto, che ha poi portata alla famosa situazione del tiro di Ray Allen in gara-6 delle Finals 2013 a Miami in un palazzetto con zone vuote. Lo stesso McGrady parlerà di questo nello spogliatoio a fine gara: «Per tutti i fan che se ne sono andati, ragazzi vi siete persi una grande partita». Non c’è malizia nelle parole di entrambi, solo la voglia genuina di condividere con più occhi possibili quello a cui hanno appena partecipato.

«È stato incredibile. Fine della storia. Certi giocatori prendono fuoco». Popovich prova a chiudere ogni analisi come uno ne ha viste tante e ne vedrà ancora tante su di un campo da basket, ma di situazioni così ne ha viste veramente pochissime anche lui. Pensare di mettere 4 triple in 35 secondi per andare a vincere una partita è una cosa che prima di McGrady non si era mai vista. Anche perché chi ha giocato o segue il basket percepisce che la palla pesa in modo diverso a seconda di cosa indichi il tabellone in termini di punti e di cronometro, e così anche il canestro che può sembrare improvvisamente più piccolo o più grande.

E anche se non ha vinto quanto il suo talento sembrava promettere, anche se non ha un anello al dito per dimostrarlo, l’eredità di McGrady per chi l’ha vissuto rimane una delle più grandi tra i giocatori di quegli anni. Perché è riuscito in pochi secondi a rendere tangibile qualcosa che chiunque abbia avuto una palla in mano e un canestro davanti ha sempre percepito: «Ho deciso di provarci, a quel punto sentivo che qualsiasi cosa avessi tirato sarebbe entrata. Il ferro sembrava veramente grandissimo».

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