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Come ti creo una dinastia, esegue Gregg Popovich
15 mag 2025
Le stagioni più significative di uno dei più grandi allenatori NBA di sempre.
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27 min
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Al crepuscolo degli anni ottanta, i San Antonio Spurs vivono una profonda crisi e rischiano la rilocazione in un'altra città. Le dimensioni ridotte del bacino di utenza e stagioni di mediocrità tecnica accendono l’interesse della famiglia Maloof (in precedenza alla guida degli Houston Rockets e poi dei Sacramento Kings) e di altri grandi gruppi, disposti a pagare la penale per il trasferimento della franchigia. Quando viene selezionato David Robinson nel 1987 come prima scelta assoluta, la proprietà è in preda alla disperazione. Il giocatore ha ancora due anni da spendere come riservista della Marina Militare degli Stati Uniti, per le regole NBA potrebbe entrare nuovamente nel draft nel 1989, senza alcun obbligo nei confronti degli Spurs. L’Ammiraglio, questo il suo soprannome, si convince a firmare e accettare il progetto tecnico dopo una corte di 20 mesi, con la garanzia di massicci investimenti e di un allenatore di spessore.

San Antonio aspetta il giocatore della provvidenza da almeno tre lustri, un tempo che rende trascurabili i due anni di attesa per vederlo giocare, un tempo che gioca a favore della franchigia e forse l’unica possibilità di metterlo sotto contratto. Uno degli elementi chiave dell’accordo (oltre a un ingaggio faraonico e diverse clausole capestro) come abbiamo anticipato, riguarda un grande coach. Larry Brown è il profilo ideale: fresco campione NCAA nel 1988 con i Kansas Jayhawks, ancora relativamente giovane ma già celebre e apprezzato, universalmente considerato uno dei migliori della sua generazione. Forse il suo più grande estimatore è lo sconosciuto Gregg Popovich, uno dei componenti della squadra di assistenti che lo segue in città (assieme a R.C. Buford!), la sua porta di accesso al mondo NBA.

Il proprietario Red McCombs entra velocemente in rotta di collisione con il carattere incostante di Brown, arriva vicino a un clamoroso licenziamento già alla fine del primo anno, scongiurato dal gradimento dello stesso Robinson per l’allenatore. Seguono diverse stagioni turbolente, con il gruppo che comunque scala i vertici della lega e si assesta vicino a uno standard di 55 vittorie stagionali. Mancano ancora diversi elementi per assaltare il titolo NBA, ma la squadra è ormai al riparo dal trasferimento e comincia ad attirare numerosi sponsor ed investitori locali, decisi a restare a San Antonio.

Alla prima avvisaglia di crisi di risultati, stavolta senza il veto dell’Ammiraglio a dargli man forte, Brown viene licenziato nel 1992. Red McCombs resta favorevolmente impressionato dal carisma e dal background militare (un must cittadino) di Popovich: quando un anno dopo cede la squadra a un gruppo guidato da Peter Holt e dal Generale Robert McDermott, lo raccomanda caldamente per gestire il front office, travolto dall’uragano Dennis Rodman.

Il vostro GM di fiducia.

I nuovi proprietari ingaggiano Popovich come General Manager nel 1994, strappandolo alla corte di Don Nelson, che nel frattempo lo ha inserito nel suo gruppo di assistenti come specialista difensivo. La priorità è quella di garantire stabilità alla squadra, priva di una precisa direzione tecnica e di una dirigenza di peso. Assume Bob Hill (discreta mente offensiva) come allenatore, affidandosi a una dritta dello stesso Brown, e richiama al capezzale degli Spurs anche R.C. Buford come responsabile dello scouting. Prova a mostrare i muscoli a Dennis Rodman con una serie incalcolabile di multe (per ritardi, condotta detrimentale, violazione del dress code, eccetera eccetera) e sospensioni che culminano con la inevitabile cessione ai Chicago Bulls. A conti fatti, una grande vittoria per il futuro di entrambi i contendenti.

Per curare al meglio gli interessi di una franchigia è necessaria una buona dose di spietatezza, da miscelare a un certo grado di decisionismo. Dietro la scrivania di General Manager Popovich soffre come un leone in gabbia, e dopo un paio di annate di alto profilo in stagione regolare culminate con delusioni ai playoff, si convince di essere lui uno degli ultimi tasselli necessari per far spiccare il volo alla squadra. Con una azione lampo raggiunge il gruppo in albergo, licenzia in tronco Bob Hill, che al principio del colloquio si aspetta una estensione del contratto, prende il suo posto e annuncia la notizia ai giocatori sul pullman che li sta accompagnando a una sessione di tiro. Un timing allucinante che sconvolge tutti i veterani.

È l’inizio di una carriera leggendaria, quella di Coach Pop, che ha portato a 1592 vittorie tra regular season e playoff sempre sulla stessa panchina. Una legacy straordinaria sia a San Antonio, dove ha creato la dinastia più significativa degli ultimi 30 anni di NBA, sia nel resto della Lega, dove oggi sono decine e decine gli allenatori e i dirigenti che hanno imparato da lui (il suo coach tree diretto o meno diretto è clamoroso). Ho cercato di ripercorre le tappe più significative di questa carriera, con pochi eguali nella storia del gioco.


STAGIONE 96/97, RECORD 20-62 (17-47 COME HEAD COACH) - LOTTERY NBA
La proprietà decide di concedergli carta bianca, a dispetto della scarsa esperienza in panchina (qualche anno come assistente del solito Larry Brown, oltre all’incarico da allenatore collegiale a Pomona-Pitzer) e nonostante i tifosi fossero legati a Hill, da lui brutalmente mandato via. L’occasione per mettere in piedi il colpo di stato è il pessimo rendimento stagionale, legato a una catena di infortuni. Popovich vuole cambiare la filosofia di gioco della squadra puntando tutto sulla identità difensiva e innovando radicalmente la figura dell’allenatore NBA: semplifica il libro degli schemi e comincia a gestire la franchigia con quello spirito paternalistico che poi diventerà il suo marchio. Vuole un estrema responsabilizzazione dei giocatori, impone loro una disciplina ferrea, basso profilo e sacrificio. Ha un approccio molto più avvolgente degli altri allenatori, la sua idea è davvero di creare un ambiente diverso.

La sua verve non cancella la situazione disperata del roster: 11 giocatori saltano almeno trenta partite di media per acciacchi di varia natura. Chuck Person salta l’intera stagione, Robinson manca per 76 gare e Sean Elliott è disponibile solo 43 volte. Il premio per questa stagione da incubo è la vincita della lotteria e il diritto a scegliere Tim Duncan al draft del 1997, e solo per questo dovrebbe essere considerata al pari delle migliori stagioni di sempre di Pop.

A prescindere dagli alti e bassi di questo primo anno, la NBA lo guarda con sospetto per lo sgambetto orchestrato a Hill che ha indignato ogni allenatore della lega e molti proprietari non mancano di far pervenire agli uffici di David Stern note di biasimo per il pericoloso precedente. Buona parte di San Antonio fatica a pronunciare correttamente il suo cognome di origine serba e spera apertamente che i buoni uffici del front office possano fruttare un nome di grido in panchina per il 1997/98. E invece è solo il primo passo di una leggenda.

STAGIONE 98/99, 50 GARE PER IL LOCKOUT: RECORD 37-13 - CAMPIONI NBA
Gregg Popovich sta ancora risciacquando i suoi panni in Arno (o direttamente sui bordi del vicino Riverwalk) ma il suo stile da allenatore è già inconfondibile, e la sua personalità ha già fatto breccia nei cuori e nelle teste dei suoi giocatori. In questo è aiutato dalla grande disponibilità tecnica e fisica di Tim Duncan e David Robinson, che insieme diventano le Twin Towers (dalla taglia fisica dei due).

"Pop", quello che diventerà il suo celebre soprannome, impiega diverso tempo per trovare il giusto compromesso tra una difesa arcigna e un attacco troppo asfittico, che si affida quasi totalmente alle giocate in post basso di Duncan. Le risorse offensive a disposizione sono limitate, anche a causa dei problemi alla schiena di Robinson e a quelli di salute sempre più gravi di Elliott. Il risultato è un avvio stentato che scatena le ire dei tifosi. Una testata locale promuove un sondaggio che diventerà celebre negli anni a venire: il 92% dei votanti lo vuole lontano dalla panchina dei San Antonio Spurs.

Quando si trova a una sola partita dal possibile licenziamento, una vivace riunione tra soli giocatori comincia a invertire la rotta: il roster decide di non voltargli le spalle. La squadra comincia a volare sulle ali di un crescente entusiasmo: le solite magie di Duncan spingono il gruppo, ma sono il jumper di Avery Johnson che diventa improvvisamente mortifero, la consistenza di Mario Elie, la leadership silenziosa di Steve Kerr e il sacrificio di David Robinson che si adatta a un ruolo di comprimario a essere necessari per trasformare l’annata in un grande successo.

Terminata la regular season con un crescendo rossiniano, i playoff diventano una marcia trionfale: un primo turno senza scossoni con i Timberwolves (3-1) e uno Sweep (4-0) ai danni dei Lakers dei giovani Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, ancora distanti dalla giusta chimica. Qualche grattacapo in più arriva dalla finale di Conference con i Portland Trail Blazers di Rasheed Wallace, una serie che si prospetta complicata e che viene indirizzata dall’indimenticabile Miracle Shot di Elliott in gara-1. Questo prodigio balistico è universalmente considerato l’atto fondativo della dinastia degli Spurs, termine che comincia ad affacciarsi sulla bocca degli appassionati texani con regolarità dopo le iniziali perplessità su Pop. I Blazers non si riprendono psicologicamente dalla vittoria thriller degli Spurs che passano per 4-0 e volano in finale ad affrontare i New York Knicks.

In finale le cose sono relativamente facili, grazie a un netto vantaggio in termini di stazza a causa dell’assenza per infortunio di Patrick Ewing, forse uno dei pochi lunghi in grado di impensierire l’egemonia delle Twin Towers di San Antonio. I Knicks - trascinati da Latrell Sprewell e Allan Houston, perfetti interpreti dello spirito combattivo ispirato da Pat Riley e da un giovane Jeff Van Gundy - danno vita a una serie combattuta, ma mai veramente in discussione (4-1 per gli Spurs). Popovich traghetta la prima squadra di origine ABA al titolo, legittima il suo status e trascina nel dimenticatoio il fantasma di Bob Hill, che lo ha perseguitato per due stagioni. Quando il nuovo millennio è ormai alle porte, gli Spurs vantano un allenatore vincente, Tim Duncan che è solo al principio della sua storia e una proprietà solida.

STAGIONE 1999/2000, RECORD 53-29 - PRIMO TURNO DEI PLAYOFF (4-1 PER I SUNS)
La pressione derivante dalla difesa del titolo innesta un corto-circuito che rischia di rovinare i progetti per il futuro e di minare la posizione di Popovich a lungo termine. Il rapporto con Tim Duncan è già ottimo, ma non è ancora simbiotico; il caraibico si guarda intorno e forse è il meno convinto di tutti sulla questione della potenziale dinastia. Emerge l’unico (storico) contrasto tra il giocatore e il front office: la nuova stella NBA è preoccupata per il numero di veterani presenti nel roster (ben 9 over30) e una certa riluttanza del suo allenatore per lo sviluppo dei prospetti. Pop sa di avere in casa R.C. Buford, un mago dello scouting, l’ennesimo discepolo di Larry Brown che si è trasformato in un prodigioso cacciatore di talenti, ma vuole massimizzare la finestra di titolo di David Robinson, ormai vicino ai 35 anni.

Buford ha già scelto Manu Ginóbili alla fine del secondo giro, ma l’argentino è ancora solo un'opzione esotica, insufficiente per fornire risposte a Tim Duncan. Elliott rientra a marzo dopo un trapianto di rene, situazione che contribuisce a creare confusione all’interno di una organizzazione che si divide tra la riconoscenza al giocatore e le perplessità legate alla sua condizione fisica. La stagione si trascina senza scossoni, ma diverse tensioni sotterranee in seno al roster guastano il clima per l'ennesima campagna da 50 vittorie.

Quando Duncan si infortuna al menisco del ginocchio sinistro mancano solo 4 partite ai playoff e la situazione rischia di precipitare: Popovich non vuole correre rischi e gli vieta di giocare acciaccato, mentre Tim si offre più volte di scendere in campo. Privi della loro stella polare, i texani si mostrano troppo fragili, uscendo al primo turno contro i Suns (4-1). In estate il caraibico deve rinnovare il contratto e si lascia sedurre dal progetto degli Orlando Magic. Dalla Florida mettono sul piatto la firma di Grant Hill e un ambiente dinamico che punta a costruire una delle squadre NBA più attrezzate e glamour dell’epoca moderna.

Duncan si impegna verbalmente, ma quando torna in città per preparare le valigie, David Robinson è pronto a intercettarlo all'aeroporto per un ultimo, disperato tentativo. L’Ammiraglio gli illustra la possibilità di costruire un progetto più fresco e convincente a San Antonio, rimarca le grandi potenzialità dell’organizzazione e l’unicità di Popovich che si sta evolvendo costantemente per assecondare un gioco sempre più dinamico e ricco di sfaccettature. Tim, che riconosce anche come il suo allenatore non abbia voluto compromettere la sua salute a lungo termine facendolo giocare infortunato, decide all’ultimo momento di rivedere la scelta e di restare in Texas. Le fortune della franchigia hanno origine in questo momento.

STAGIONE 2002/03, RECORD 60-22 - CAMPIONI NBA (ALLENATORE DELL’ANNO)
La squadra si salda al suo interno, eppure Popovich è visto con sospetto, e la NBA gli appiccica addosso l’etichetta di allenatore noioso. Phil Jackson non perde occasione per lanciare delle frecciatine e l’ex Dennis Rodman ha il dente avvelenato quando parla degli Spurs. I Los Angeles Lakers di Kobe e Shaq hanno preso il controllo della lega e la concorrenza arranca.

Incurante delle critiche, dopo due anni di lavoro l’organizzazione si presenta al via della stagione confermando il giovane Tony Parker in quintetto, firmando Manu Ginóbili e avviando con Duncan l’era dei Big Three, destinati a giocare assieme fino al 2016. Va quindi in archivio la breve e gloriosa parentesi delle Twin Towers, anche perché David Robinson ha solo una stagione di autonomia prima del ritiro a causa dei vari problemi fisici.

Buford contribuisce poi al lancio e alla formazione di una nutrita pattuglia di collaboratori e assistenti che forniranno un prezioso valore aggiunto. Cominciano a farsi strada Mike Budenholzer, che lavora a stretto contatto con Tony Parker, e Mike Brown che resta solo un triennio e origina idealmente l’incredibile coaching tree di Popovich. Tra le varie novità recenti ci sono da rimarcare anche le firme del giovane Stephen Jackson e di Bruce Bowen, arrivato in previsione di una serie playoff con i Lakers per marcare Kobe. Salvato da Pat Riley quando ormai è vicino ai 30 anni, alle sue spalle ha una lunga carriera di giramondo e una posizione NBA ancora precaria. Popovich nel giro di pochi mesi registra le sue spaziature e lo trasforma nel primo giocatore a cui viene applicata la targhetta di 3&D.

Trascinati dalla miglior versione di sempre di Tim Duncan, che vince il suo secondo MVP consecutivo, e dalla freschezza dei nuovi innesti, il 2003 è uno degli anni più belli per gli Spurs. I playoff sono una cavalcata esaltante: i Phoenix Suns (4-2), i Los Angeles Lakers (4-2) e i Dallas Mavericks (4-2) sono avversari coriacei, ma il titolo della Western non sembra mai davvero in discussione. In finale anche i New Jersey Nets di Jason Kidd e di Kenyon Martin si arrendono dopo sei intense partite, forse più combattute del previsto. Popovich vince anche il suo primo titolo di allenatore dell’anno e comincia ad assaporare il rispetto di una lega che lo ha osteggiato al principio e che si è progressivamente convinta del suo valore.

Sono ormai iconiche le sue sfuriate quando la squadra si rilassa colpevolmente, le espulsioni cercate ad arte per pungolare i giocatori e lo stile delle sue interviste diventa sempre più peculiare. Fa breccia anche nella cultura popolare del gioco, tradizionalmente terreno di conquista delle franchigie più celebri. Il mercato televisivo più piccolo del paese diventa un avamposto di ricerca e sviluppo del basket internazionale e anche le basi di una organizzazione sempre più strutturata cominciano a essere studiate e poi replicate in scala.

STAGIONE 2004/05, RECORD 59-23 - CAMPIONI NBA
Archiviata la stagione precedente per il clamoroso canestro allo scadere di Derek Fisher con 0.4 decimi sul cronometro, gli Spurs che si presentano all'appuntamento col propizio anno dispari affrontano un altro delicato momento di transizione. Fallito l’assalto in free agency a Jason Kidd che ha cambiato idea sulla firma all’ultimo secondo utile (più o meno sulla falsariga di Tim Duncan con Orlando), nell’estate del 2003 si è aperta una piccola frattura tra Tony Parker, scottato dal corteggiamento di Kidd, e Pop.

San Antonio prova sempre più spesso Ginóbili come play e Brent Barry fa capolino nel roster. Il fidanzamento tra l’esterno franco-belga e l’attrice Eva Longoria riporta poi alla mente della città l’affaire tra Dennis Rodman e Madonna, fattore che contribuisce a creare malumori.

Le incomprensioni tra i due non rallentano l’evoluzione tattica di un allenatore che, ormai affascinato dallo stile di gioco di Ginóbili, sta cercando di rivoluzionare il suo playbook fondato su una difesa stratosferica (da tempo con il miglior rating della lega) per infilarci l’inevitabile propensione ai palloni persi del fuoriclasse argentino. Duncan è in condizioni fisiche precarie per tutto l’anno a causa di una brutta fascite plantare e una serie ricorrente di distorsioni alle caviglie, ma a rinforzare il gruppo c’è anche la valigia dei trucchi di Robert Horry che spodestato da Karl Malone a Los Angeles ha deciso di portare i suoi talenti in Texas.

La squadra sfoggia una grande versatilità, è in grado di giocare a specchio con avversari di qualsiasi struttura grazie a una second unit che vanta una organizzazione che nessuna squadra sembra in grado di replicare. In finale di Conference si adattano allo stile run & gun dei raffinati Suns di Mike D’Antoni (realizzando 110 punti di media), ma sono altrettanto efficaci quando il terreno di scontro si sposta sullo stile grit & grind (85 punti di media) favorito dai Detroit Pistons in finale (85 punti di media).

L’atto conclusivo della stagione è forse la serie più combattuta e tatticamente magistrale del decennio, con lo scontro tra il maestro Larry Brown e lo studente Gregg Popovich. La disfida si risolve in sette gare con Manu accompagnato dalla sua leggendaria pettinatura fluttuante, capace di entrare presto sotto la pelle di una delle più grandi difese concepite in era moderna. Arrivano il titolo più amato dai Big Three, tutti nel loro prime, carico di significati, e la definitiva consacrazione.

L’annata evidenzia anche come il contributo del front office sia sempre più importante. A metà stagione viene acquisito via trade il centro Nazr Mohammed, fondamentale nella corsa playoff e strumentale per supportare un Rasho Nesterovic in difficoltà a gestire la pesante eredità di David Robinson. Questa stagione è forse l’ultima vissuta con piglio militare da Popovich che a seconda delle necessità non si fa problemi a cacciare persino le mogli, le fidanzate e i figli dei giocatori dall’albergo della squadra durante le finali per mantenere alta la tensione. Questa vittoria sblocca un Pop inedito e più attento alle esigenze dei suoi ragazzi, tanto che comincia a prendere piede la sua abitudine di invitare a pranzo ogni componente del roster, nei momenti più delicati della loro vita privata o semplicemente per discutere di tattica.

STAGIONE 2006/07, RECORD 58-24 - CAMPIONI NBA
Gli Spurs stanno vivendo il picco della Ginóbilimania e hanno cesellato definitivamente la loro identità offensiva sulle accelerazioni e le invenzioni dal palleggio di Manu. Nel 2006 la difesa mostra le prime crepe, e durante la serie playoff con i Dallas Mavericks fatica più del solito a contenere gli esterni avversari. Anche il rendimento di Robert Horry dopo i fasti del 2005 comincia a calare. La sconfitta contro Dallas arriva anche a causa di un’ingenuità dello stesso Ginobili, che si lascia attrarre dalla possibilità di una stoppata e finisce poi per concedere un gioco da tre punti a Dirk Nowitzki. Un errore che impiega mesi per metabolizzare, e che assorbe solo grazie al supporto della squadra, che passa l’intera estate a cercare di consolarlo e di ribadire a più riprese una fiducia immutata.

La campagna del 2007 è quindi carica di grande voglia di rivalsa, un carburante fondamentale per competere in una Western che è sempre più costellata di squadre di grande talento. La semifinale di Conference con i Phoenix Suns è lo snodo cruciale della stagione: in gara-1 gli Spurs sono capaci di capitalizzare al meglio l’infortunio al naso che limita Steve Nash, in una tiratissima partita. Gli incerti equilibri della serie sono condizionati dal fallo intenzionale di Robert Horry (due gare di sospensione) ai danni dello stesso playmaker canadese in gara-4: l’incidente genera un principio di rissa che porta alla squalifica di Amar'e Stoudemire e di Boris Diaw per una partita.

Il colpo è troppo duro da digerire per i Suns, che in buona sostanza affrontano la gara-5 senza i due lunghi capaci di ruotare in difesa su Duncan e si spengono lentamente in sei partite. Seppur tra i veleni, San Antonio avanza nel turno successivo dove affronta gli Utah Jazz (battuti per 4-2) di Deron Williams e Carlos Boozer, deficitari a livello di esperienza nonostante Jerry Sloan.

In finale c’è la prima sfida con Lebron James, che ha trascinato una squadra ancora immatura all’ultimo capitolo della NBA. La serie non ha praticamente storia (4-0), Tony Parker mette a ferro e fuoco la difesa dei Cleveland Cavaliers e conquista il premio di MVP delle finali, una prima assoluta per un giocatore di origine europea. Dal punto di vista simbolico è un passaggio di testimone verso il leader destinato a diventare la prima opzione offensiva e togliere pressione dalle spalle di Manu e Tim.

Popovich nel frattempo sta diventando sempre di più quella figura di riferimento per i suoi giocatori: non solo li allena, ma non trascura di stargli vicino anche nei momenti difficili e a prescindere dalla sua immagine pubblica, dove sfoggia con sempre più disinvoltura un grande sarcasmo, è il capostipite di quella che è diventata una famiglia allargata a tutti gli effetti.

STAGIONE 2011/12, 66 GARE PER IL LOCKOUT: RECORD 50-16 (ALLENATORE DELL’ANNO)
Dopo il titolo del 2007, Duncan e Ginóbili cominciano a sentire il peso degli anni e sembra impossibile replicare quella difesa quasi inespugnabile che da sempre è stata il suo marchio di fabbrica. Popovich, che ha sempre basato le sue fortune offensive sull’arte del contropiede e sulla metodicità delle triple dall’angolo, che ha sdoganato prima di tutti gli altri nella lega, vuole prendere ancora una volta in contropiede il mondo NBA, come all'inizio del millennio.

Decide di strutturare un impianto di gioco fluido, ritagliato sulle caratteristiche peculiari dei giocatori e di miscelare dei concetti classici NCAA come la Shuffle Offense rifinita da Dean Smith a North Carolina, con vari set offensivi più moderni di chiara origine europea, con un occhio di riguardo al basket greco e alle infinite variazioni concepite da Zeljko Obradovic per il pick & roll. Nel giro di un paio di stagioni mette a punto un sistema attentamente analizzato e poi a sua volta abbondantemente saccheggiato da allenatori come Steve Kerr e Erik Spoelstra.

La motion concepita degli Spurs comprende variazioni efficaci sia sul lato debole che sul lato forte, e nel corso degli anni si aggiusta per massimizzare le evoluzioni tecniche dei giocatori chiave. Tutto questo lavoro è valorizzato da Buford, che ha svecchiato il roster in modo sistematico (Big Three a parte, ovviamente) e ha già messo sotto contratto Danny Green, destinato a raccogliere e ampliare l’eredità di Bruce Bowen, ma soprattutto ha scambiato Kawhi Leonard per George Hill, una trade che fa le fortune della squadra già nel breve termine. La cessione di Hill crea dal principio qualche malumore di Ginóbili, estremamente legato sia all’uomo che al giocatore: Popovich interviene in prima persona per fugare ogni dubbio e riportare velocemente il sereno.

A guidare lo show c’è sempre Tony Parker, semplicemente nel momento più felice e prolifico della sua carriera, e determinato a vendicare gli anni in chiaroscuro seguiti al titolo del 2007. Il 4 Febbraio 2012, diventa il leader ogni epoca per gli assist della franchigia (4477) sorpassando Avery Johnson, aggiungendo poi 42 punti in una vittoria contro gli Oklahoma City Thunder che manda un chiaro messaggio al resto della lega. Gli Spurs vincono 50 partite nonostante il lockout e dopo qualche brutta esperienza ai playoff negli anni precedenti, sembrano pronti a interrompere l’egemonia dei Los Angeles Lakers e dei Boston Celtics. Arriva il secondo premio di allenatore dell’anno per Popovich, seguito nei primi turni da un paio di sweep consecutivi ai danni degli Utah Jazz e dei Los Angeles Clippers. La corsa verso il titolo si interrompe solo nelle finali di Conference contro i Thunder di Harden, Westbrook e Durant. Il meccanismo necessita ancora di qualche piccolo ritocco e di maggiore grinta.

STAGIONI 2013/15, RECORD 118/44 - FINALISTI E SUCCESSIVAMENTE CAMPIONI NBA
Il biennio magico degli Spurs è legato a doppio filo ai destini dei Big Three dei Miami Heat, che con Lebron James, Dwyane Wade e Chris Bosh provano a egemonizzare l’intero campionato. Popovich e il suo front office affrontano la corsa al titolo con rinnovata fiducia, un roster molto profondo (con anche l’aggiunta di Marco Belinelli) e un potenziamento della batteria di assistenti che culmina con la firma di Ettore Messina nel 2014. Tim Duncan vive una seconda giovinezza e si trasforma nel playmaker aggiunto, che innesca buona parte dei giochi, coadiuvato dal talento poliedrico di Boris Diaw che si è aggiunto al roster grazie ai buoni uffici di Parker, suo amico fraterno dalle nazionali giovanili francesi.

Il roster attira molte simpatie a livello internazionale, grazie alla composizione della squadra e allo stile di gioco sempre più europeo e accattivante per i tifosi dal palato fino. In patria la considerazione generale è più fredda, in parte per un lustro di playoff poco incisivi e in parte per la matrice offensiva di questo nuovo corso, giudicata più adatta alla stagione regolare che ai playoff. Lo scetticismo non manca e si comincia a parlare diffusamente della possibilità di un ritiro per Tim Duncan, che in realtà vuole vincere ancora almeno un anello ma si diletta a confondere giornalisti e gli addetti ai lavori come nel suo stile. Per rinforzare ancora la panchina c’è persino Stephen Jackson, recuperato via trade dai Pacers e chiamato a fare la spalla di Kawhi Leonard: l’esperimento dura poco più di una stagione per le rinomate (e reiterate) intemperanze caratteriali, a sostituirlo c’è un Tracy McGrady al suo ultimo ballo.

Gli Spurs affrontano la post season come un rullo compressore: impongono uno sweep ai Los Angeles Laker nel primo turno, vivono qualche piccolo scossone con i Golden State Warriors dei giovani Steph Curry e Klay Thompson (battuti 4-2) e annichiliscono i Memphis Grizzlies di Zach Randolph (altro sweep), incapaci di adottare le giuste contromisure per Tony Parker. La finale contro gli Heat (66 partite vinte in stagione) è un avvincente epilogo, con un'affascinante combinazione di vecchia e nuova scuola NBA, con la sfida a distanza tra i rispettivi Big Three e il duello in panchina tra Pop e la nuova stella Erik Spoelstra. La magia di Parker in gara-1 spinge in alto le quotazioni texane, nella parte centrale delle finali gli Spurs sono in vantaggio per 3-2 e sembrano in grado di capitalizzare il vantaggio acquisito. A sovvertire l’inerzia sfavorevole ci pensa Ray Allen che con la sua prodezza in gara 6 spinge la partita al supplementare e incrina in modo irreparabile la fiducia degli Spurs.

San Antonio riparte dalla sconfitta in Finale (prima e unica della gestione Pop) con la stessa determinazione del 2005, portando al massimo splendore l’efficacia della motion offense. Con l’arrivo della primavera il roster infonde il massimo impegno, il mese di marzo in stagione regolare finisce con un netto 16-0 di record. Gli Heat sembrano meno brillanti dell’anno precedente, ma per arrivare alla seconda finale consecutiva contro Miami, gli Spurs faticano più del previsto. Battono Dallas solo in gara-7 (4-3) e dopo essersi liberati dei Portland Trail Blazers (4-1), arrivano all'ennesima sfida con i Thunder per il predominio della Western Conference. La serie appare più incerta del previsto: OKC sfida con convinzione i limiti atletici della squadra di Popovich, a più riprese entra nella testa di una squadra che ancora rivive mentalmente il canestro di Ray Allen nei momenti di crisi. A ipotecare la sfida e indirizzarla verso il Texas sono però i vari guizzi di Tim Duncan, ormai rallentato da un atletismo declinante ma al massimo del suo splendore dal punto di vista delle letture.

La finale con gli Heat finisce in sole 5 partite, con una egemonia degli Spurs che non appare mai in discussione. Pop mette in scena una squadra che gioca con la melodia di uno Stradivari, sopravanzando facilmente i limiti della panchina avversaria grazie anche a un Ginóbili in stato di grazia. È il momento della definitiva consacrazione di Kawhi Leonard che vince il titolo di MVP e gioca una grande difesa su Lebron James, ultimo ad arrendersi in casa Heat. La vendetta è servita, per la franchigia arriva il quinto anello e per Popovich c’è da festeggiare anche il terzo titolo di allenatore dell’anno.

STAGIONE 2015/2016, RECORD 67/15 - SECONDO TURNO DEI PLAYOFF (4-2 THUNDER)
San Antonio tenta l’ennesima rivoluzione morbida con i Big Three ormai di supporto a Leonard e a LaMarcus Aldridge, arrivato nella free agency: forse la firma più prestigiosa proveniente dal mercato nella storia della squadra. Il gruppo sfiora le 70 vittorie, anche se impiega diversi mesi per carburare al meglio con la nuova strutturazione, sorretta dagli enormi sforzi fisici di un Duncan che ormai viaggia verso i 40 anni. Quando il caraibico è in buona forma, gli Spurs sembrano una macchina quasi perfetta ma una distorsione al ginocchio nella seconda parte di stagione ne compromette definitivamente la carriera e il successo del nuovo ciclo di Pop, inevitabilmente troppo esposto sotto canestro.

Enes Kanter/Freedom e Steven Adams evidenziano questa debolezza nei playoff, i soliti Thunder vincono la serie per 4-2, dominando il ferro e frantumando la finestra di titolo per San Antonio. Nonostante le 67 vittorie, il miglior record NBA è dei Golden State Warriors che con 73 successi lanciano un segnale inequivocabile al resto della lega. Gli Spurs archiviano questa annata con il miglior rating difensivo (Kawhi happens), il secondo posto nella speciale classifica della percentuale da due e da tre punti (dietro solo agli Splash Brothers) e un differenziale punti in abbondante doppia cifra. Si tratta dell’ultimo vero ballo per il sesto titolo: Tim si ritira dal basket giocato, Manu e Tony restano a dare manforte ma gli acciacchi e le varie crisi con Leonard, sommati all'ascesa di altre dinastie, aprono la strada a una inevitabile rivoluzione.

La stagione successiva, per la prima e unica volta dall’era post-Duncan, la franchigia supera il primo turno e si spinge fino alle finali della Western Conference dove incappa in un doloroso 4-0. Leonard si infortuna in gara uno ed esce dalla serie quando la squadra sta effettivamente dominando, alimentando più di un rimpianto. Gli Warriors del suo discepolo Steve Kerr, che lo ha accompagnato nel primo titolo, fanno scorrere i titoli di coda sugli Spurs competitivi.

EL JEFE
Nella offseason del 2018 avvengono cambiamenti epocali: Leonard chiede e ottiene la trade, spedito ai Toronto Raptors dopo una serie di incomprensioni con il tecnico e i giocatori della vecchia guardia. Insieme a lui salutano anche Manu e Tony e per la prima volta dal lontano 1997 non c’è nessuna traccia dei Big Three all’interno della squadra. Pop resta sulla breccia, come attesta il record vincente e l’accesso ai playoff con il settimo record, senza poter contare sul contributo di Dejounte Murray, infortunato al legamento crociato anteriore. San Antonio trascina quindi i Denver Nuggets di Nikola Jokic in gara sette, sfiorando uno storico upset che però non riesce.

Dagli anni venti del duemila la situazione diventa sempre più complessa, con il tentativo di mediare tra una immediata competitività sportiva e conciliare lo sviluppo di nuove leve destinate a scrivere il futuro degli Spurs. Va in ogni caso annotata la soddisfazione per la medaglia come allenatore della spedizione Olimpica a Tokyo. Quando DeMar DeRozan lascia gli Spurs nel 2021, si entra definitivamente nella fase della ricostruzione, un capitolo che vede ancora una volta Popovich protagonista della formazione sia tecnica che umana dei nuovi arrivati. L’uomo che ha cementato la migliore delle franchigie sportive dell’era moderna è rimasto a gestire con generosità, nel tentativo di non disperdere la filosofia costruita con il tempo.

Il destino ha voluto che il draft portasse in dote Victor Wembanyama nel 2023 e Stephon Castle nel 2024, entrambi rookie dell’anno, giocatori chiamati a rinverdire i fasti della dinastia. I problemi di salute (forza Pop!) lo hanno costretto a interrompere bruscamente la sua presenza in panchina, fino al ritiro di poche settimane fa, con il delfino Mitch Johnson pronto alla successione. Tuttavia non gli hanno fatto perdere la voglia di scherzare e di restare a contatto con il cuore delle operazioni della franchigia. Si apre a tutti gli effetti il capitolo El Jefe annunciato con il commovente supporto di Manu e di Tim, parte di quella famiglia ormai indissolubile.

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