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L'insostenibile leggerezza di Tim Duncan
25 apr 2016
25 apr 2016
La silente dominazione del campione dei San Antonio Spurs, che oggi compie 40 anni.
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«I'm not serious most of the time».

Tim Duncan

Tim Duncan ha solo due espressioni: una con il pallone e una senza il pallone.

Parafrasando la celebre frase di Sergio Leone su Clint Eastwood, è forse possibile riassumere la maschera caraibica del giocatore più singolare del basket statunitense, che oggi compie 40 anni. Un viso glaciale e monocorde, a tratti piatto e inespressivo, praticamente illeggibile. Una versione umana del triangolo delle Bermuda dove viene inghiottita qualsiasi forma di emotività e destrutturato qualsiasi tentativo di approccio umano, almeno in senso tradizionale. Un personaggio di culto degno di uno Spaghetti Western, catapultato nello sport più mediatico e sovraesposto del globo. Un mix di aspetti singolari più vicino alla penna di uno scaltro sceneggiatore di Hollywood che alla classica biografia sportiva.

Controcorrente, inaccessibile anche alla maggior parte dei compagni, un segnale analogico in un'era digitale. Un feroce resiliente della palla a spicchi. Un improbabile isolano “settepiedi” che ha incidentalmente riscritto lo spartito della storia NBA degli ultimi 20 anni. Ha travolto lo status quo dello sport “pro” americano in punta di piedi, rovesciando e interpretando a modo suo ogni consuetudine della lega. Mimetizzato mefistofelicamente dall'aura mediatica dei suoi rivali, protetto dall’ombra e dalla serenità garantita dai San Antonio Spurs, ha guidato un colpo di stato in piena regola. Più precisamente, ha condotto uno stato tropicale in miniatura contro delle superpotenze tradizionali, spesso con grande successo.

Ricordiamo che lui voleva fare il playmaker.

La clamorosa percentuale di vittorie ottenute nella stagione regolare dimostra un dato inequivocabile: ha dominato e amministrato la pallacanestro come un monarca assoluto, eppure in molti non se ne sono nemmeno accorti. Praticamente ha spadroneggiato in incognito. Una sorta di “Spectre” cestistica di grande successo, priva del gatto bianco di riferimento ma senza quel guastafeste di James Bond a sbarrare la strada. Un protagonista con i tratti tipici dell’antagonista.

La sua era trascende i numeri. La sua militanza in maglia neroargento ormai ha un età buona per prendere la patente, una longevità senza alcun precedente in era moderna. Giova in ogni caso ricordarli brevemente: 70% di vittorie senza mai mancare un appuntamento ai playoff; un minimo sindacale di 50 partite vinte in regular senza battere ciglio ad ovest, con l’ovvia eccezione della stagione del lockout del 1999; cinque titoli, più un’altra finale persa solo in gara-7.

Una gioiosa macchina da guerra.

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L’abbraccio al pallone, il suo classico rito pre-partita.

Gli Spurs sono stati una famiglia sportiva in piena regola, con i tre giocatori cardine Duncan-Parker-Ginobili a giocare ed evoluire insieme sul campo per ben più di 10 stagioni, sempre con lo stesso allenatore. Il tutto poggiato sulle solide spalle del primo, che ha sollevato il mondo della palla a spicchi facendo leva sui fondamentali e su una solidità umana e caratteriale fuori concorso. Rigorosamente senza farlo pesare, privo di spocchia e di arroganza. Spesso il termine inimitabile è clamorosamente abusato, in questo caso rischia di essere riduttivo.

“Blowhards, snobs, and narcissists: Interpersonal reactions to excessive egotism": no, non è il titolo di una monografia sulle vostre stelle di riferimento NBA, si tratta del lavoro di maggior spicco del caraibico ai tempi dell'Università. Ha cominciato a studiare la concorrenza per aggirarla sin dal principio, una sorta di riedizione duncaniana de L'Arte della Guerra del celebre generale Sun Tzu che sosteneva: “Conosci il nemico come conosci te stesso. Se ci riuscirai, anche in mezzo a cento battaglie non ti troverai mai in pericolo”.

Il suo complesso senso dell'umorismo è sempre stato un genuino mistero per la maggior parte degli addetti ai lavori, perfino quelli degli Spurs. Raramente si lascia avvicinare al campo di allenamento. Più in generale, la sua atipicità ha sempre messo in soggezione qualsiasi interlocutore occasionale, soggiogato dal carisma e dai modi apparentemente privi di un filo conduttore ben preciso. La sua aria grave e responsabile, perennemente tenebrosa, non celia in realtà quasi mai nulla di serio. O almeno lo vuol far credere.

Certamente per decenni è stato il nemico giurato degli editori e degli agenti pubblicitari. Il motto è sempre stato lo stesso: a parte le inevitabili e obbligate celebrazioni rituali di fine anno, il refrain che lo ha contraddistinto è stato: “No dai, nessuno vuole leggere qualcosa su Tim Duncan, anche ammesso di trovare qualcosa di interessante da scrivere. Dedichiamoci a qualcos'altro”. Negli ultimi dieci anni il fiore dei giornalisti NBA si è sempre tenuto rispettosamente alla larga dal tema, virando su personaggi meno complessi (e meno vincenti...), ma più sicuri in termini di “ritorno” mediatico. Come fosse un tema scontato, una certezza imprescindibile. Che vinca non fa più notizia. Non lo ha mai fatto.

Leggerezza e senso di responsabilità. Il caraibico ha sempre alternato toni e temi da divulgatore scientifico a quelli di un santone del gioco. Più spesso da animatore aggiunto. Non si ha mai la certezza su che tipo di Duncan si presenterà al campo la mattina. L’unico punto fermo è costituito dall’immutabilità della sua espressione, a prescindere dalla situazione e dall’umore. A volte coinvolto sotto ogni aspetto della vita dei compagni, a volte completamente silente e assorto nei suoi pensieri. Sempre connesso sul parquet, quasi mai all’esterno. Può motivare il gruppo nei modi più strani possibili: per diversi anni sulla presunta originalità dei suoi discorsi ai compagni sono fiorite delle storielle che hanno avuto grande successo sui giornali umoristici (The Onion su tutti), nemmeno fosse Woody Allen in pantaloncini. Unica certezza: quello che fa, funziona praticamente sempre.

Nella prima parte della carriera amava indossare i più improbabili bermuda che mente umana avesse mai realizzato e dissertare all’infinito sul suo film cult preferito. Un tormentone diventato rapidamente un classico. Ci sono diverse leggende metropolitane su questa controversa pellicola: si tratta di Surf Nazis Must Die, ambientato sulle spiagge della California, che è passato alla storia del Festival di Cannes nel 1987, anno della sua presentazione. Il critico di riferimento decise infatti di abbandonare la proiezione dopo una decina di minuti per protesta, scandalizzato dalla bassa qualità cinematografica del titolo. Per il caraibico si tratta del trash movie per eccellenza e secondo tradizione non manca di imporlo a selezionati compagni nelle lunghe trasferte ad Est. Qualche volta, nel momento più intenso degli allenamenti, rompe la sua glaciale riservatezza per parlare con trasporto della sua immancabile collezione di coltelli. Sostanzialmente un essere umano con un altro prefisso telefonico.

Alla fine della stagione 2004-2005 Duncan torna a Saint Croix nei luoghi d’infanzia con al seguito una troupe televisiva. A 3’28’’ il suo ex allenatore di nuoto mostra una foto della squadra di cui faceva parte Tim: deve indicarlo con il dito perché è mezzo nascosto in seconda fila accanto alla sorella. timido sin da sempre.

Da Saint-Croix con poco furore

Per capire il Duncan adulto dobbiamo giocoforza partire dal Duncan bambino e adolescente, con tre sliding doors che ne hanno segnato lo sviluppo emotivo e che lo hanno indirizzato verso il parquet.

Nato nell’isola di Saint Croix, arcipelago delle Isole Vergini Americane, per la precisione a Christiansted - da questi nomi capiamo che su queste affascinanti terre ci sono arrivati prima i francesi, poi si sono piazzati i danesi dietro regolare acquisto e infine gli yankee hanno piantato la stars and stripes, anche qui dopo versamento in contanti -, Timothy Theodore non inizia la sua vita sportiva con il basket, bensì con il nuoto. Il suo fisico alto e magro e la sua innata capacità di analizzare delle proprie prestazioni sin da bambino gli permettono di primeggiare con i coetanei e anche con quelli più grandi: nei 400 stile va che è una meraviglia. L’esempio della sorella maggiore Tricia, olimpionica a Seul ‘88 nei 100 e 200 dorso, è il punto di riferimento sportivo di Tim; la mamma, invece, gli fa da motivatrice. “Good, better, best. Never let it rest. Until your good is better, and your better is best”: è il motto che gli ripete senza sosta fino a che non mette radici nel cervello del giovane cruciano che nel giro di sei mesi, a cavallo tra il 1989 e il 1990, vede cambiare totalmente la propria vita e le proprie prospettive.

Prima sliding door: il 17 settembre 1989 l’uragano Hugo si abbatte sui Caraibi e tra i danni procurati c’è anche la piscina nella quale Duncan si allena. Ci sarebbe l’alternativa dell’oceano, ma gli squali non sono una compagnia gradita. Poi subentra un altro evento che gli fa decidere di abbandonare definitivamente il nuoto.

Seconda sliding door: il 24 aprile 1990, il giorno prima del 14esimo compleanno di Tim, mamma Ione muore per un tumore al seno. É una perdita enorme, alla quale il giovane Duncan reagisce a modo suo: nessuna lacrima, nessuna parola, nessuna emozione visibile. Il modo esteriore di reagire è passare ore e ore ai videogiochi. Si tiene tutto dentro, come ha sempre fatto e come continuerà a fare.

Terza sliding door: a seguito della scomparsa della mamma la figlia maggiore, Cheryl, torna a vivere nell’isola natìa insieme al marito Ricky Lowery. Per Tim non è un cognato con un passato qualsiasi: è stato playmaker alla Capital University a Columbus, Ohio. Già l’anno prima in casa Duncan da papà William era stato montato un canestro spedito dalla stessa Cheryl, ma è solo dopo la morte della mamma che Timmy si fa davvero sedurre. Con la palla in mano il giovane orfano trova (un po' più di) pace e serenità. Ricky gli insegna tutto: ball handling, passaggi, penetrazioni, uso del tabellone. Quell’uso del tabellone.

Screen is Tim’s best friend.

Tim deve tantissimo a Ricky, che di fatto è il suo primo allenatore: il numero 21 che lo accompagna da sempre è un omaggio al cognato, che lo indossava ai tempi del college. La strada è tracciata. E se c’è ancora qualche dubbio ecco che nel giro di qualche mese il già alto per la sua età Timmy cresce ancora di una trentina centimetri senza però perdere coordinazione corporea. È un atleta con i fiocchi, soprattutto con la testa. E non si accontenta mai. “Good, better, best” ce l’ha ormai scolpito nel DNA.

Quando nell’estate del ‘92 sulla sua isola arrivano giocatori NBA e freschi di NCAA per una partitella a metà tra promozione e allenamento, il sedicenne Duncan ha fatto così tanti progressi che lo mandano in campo senza pensarci troppo contro la seconda scelta assoluta di quel Draft, Alonzo Mourning. Tim gioca talmente bene che uno dei giocatori in “visita”, Chris King - lunga carriera in Europa con una fugace apparizione a Cantù -, chiama il suo ex allenatore a Wake Forest e gli dice più o meno: “Coach, so che stai cercando un centro da affiancare a Randy Childress e Rodney Rodgers. Beh, dovresti dare un’occhiata ad un ragazzone delle Isole Vergini”. Un riluttante Dave Odom segue il consiglio di King, va a Saint-Croix ed è amore a prima vista. Altri college avevano adocchiato quello spilungone timido e taciturno, ma Odom fa breccia nel muro duncaniano. Un anno dopo, Tim lascia la sua isola direzione Winston Salem, North Carolina.

In questo video che sprizza anni ‘90 da ogni elemento visivo e sonoro c’è il meglio del Duncan versione Demon Deacon e già degnissimo del soprannome “The Big Fundamental”.

Non vince il titolo, ma i quattro anni di permanenza a Wake Forest - a mamma Ione aveva promesso di laurearsi e non può, né vuole, venir meno alla parola data - sono comunque di tale impatto che Duncan entra nella storia del college, della conference ACC, dell’NCAA intera. In quattro anni di carriera collegiale il caraibico passa dallo status di “prospetto sperimentale” (tanto che dal principio coach Odom valutò la possibilità di escluderlo dal roster con il meccanismo della red-shirt) a “fidanzato” ideale degli appassionati di basket di ogni lido. È ovviamente la scelta numero 1 al Draft 1997: tutto sta a vedere chi sarà la fortunata sposa.

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Tim a Wake Forest.

Nonostante il 21.4% di possibilità, di gran lunga inferiori a quelle di Boston e Vancouver, la lottery premia San Antonio e coach Popovich può fregarsi le mani - a differenza di Rick Pitino, che ha appena mollato Kentucky direzione Celtics proprio con la speranza di scegliere Duncan. Secondo le cronache del tempo il caraibico, ormai convinto di un approdo a Boston all’epoca della lotteria, aveva nel frattempo comprato una serie di cappotti molto discutibili per affrontare il rigido inverno del New England. Dei capi di abbigliamento molto particolari, custoditi ancora gelosamente in un armadio di villa Duncan. Invece non gli servono a nulla, così come a nulla servono gli sforzi - compresa una telefonata molto insistente - per convincere Pop a mollare la prima scelta e quindi il #21: l’ex spia durante la Guerra Fredda è già in fase di studio per far convivere il giovane arrivato con la stella indiscussa della squadra, David Robinson.

Il risultato? Rookie of the Year al primo anno, con 3 voti su 116 non dati a lui, e titolo NBA con annesso MVP delle Finals il secondo, primo e finora unico sophomore a riuscirci. Che poi tre parole come “Most” “Valuable” e “Player” non rendono neanche l’idea di quanto Duncan abbia dominato quelle finali.

Per dire: in gara-5, quella decisiva, ne mette 31.

Già dai primi vagiti in NBA si capiscono due cose di Tim Duncan: riconosce d’istinto dove stia andando la partita e cosa bisogna fare per portarla a casa. È da subito il giocatore più determinante e allo stesso tempo meno personaggio di sempre: il primo biennio nella lega è semplicemente leggendario, ma come tradizione passa completamente sottotraccia; San Antonio decolla e ottiene di slancio il record NBA per il maggior numero di vittorie da un anno all’altro, chiudendo a 56-26. Tim mostra lampi di pura trascendenza fin dal primo mese di attività (operando ad esempio in trasferta una discectomia su Rodman a Chicago con 22 rimbalzi catturati) e si integra perfettamente con l’Ammiraglio sotto le plance. In attacco gioca ala forte (e pivot in difesa) e grazie alle sue doti di passatore innesca il compagno di merende con una serie di elaborati alto-basso dal post che risultano indigesti alla quasi totalità delle malcapitate difese della lega. Tolto Robinson, però, San Antonio dispone di un roster modesto, infarcito di mestieranti e di personaggi culto di vario genere: il caraibico con un incantesimo li trasforma in una corazzata in grado di macinare basket con grande disinvoltura contro squadre dal talento decisamente più rilevante. Gli Spurs puntano tutto sulla difesa, le alchimie strategiche di Popovich e su quel che resta dell’atletismo di Robinson, ma senza il giovane centro di gravità permanente avrebbero potuto davvero poco contro l’elite della lega.

Il numero 21 ha l’impatto di un nume sceso tra la mortale mestieranza del gioco. Salva la squadra dall’esonero probabile di Popovich dopo l’unico momento di flessione del biennio e nella stessa annata (in contumacia del momento magico di Sean Elliott nel Miracle Day) e conduce la franchigia texana al titolo del 1999, il primo post-Jordan. Domina con imbarazzante facilità le finali contro i Knicks imponendo una spietata dittatura in vernice, incanta con movimenti in post e lo fa con una modestia e leggerezza d’animo tali da lasciare perplessi. Accelera e rallenta il ritmo del gioco come fosse un DJ. Non fa giocate sopra il ferro per il pubblico, non concede quasi nulla allo spettacolo, è pura concretezza. Bank-shot, gioco dalla media, gioco in post, doti da passatore, difesa, istinto killer: sciorina un arsenale illegale con l’espressione distratta di un avventore occasionale di un bar.

È un U.F.O. della palla a spicchi, nel senso che è un giocatore ancora non identificato. Al secondo anno è già al top della lega, ma trascinare quasi da solo una franchigia NBA è comunque dura e Tim l’anno successivo comincia ad avvertire il peso della pressione e un certo senso di appagamento dei compagni. Gli Spurs faticano a gestire la sua insofferenza e quando per un infortunio è costretto a fermarsi e saltare i playoff del 2000, i suoi vengono spazzati via dai Suns al primo turno. Il rapporto tra lui e la squadra deve evolvere per reggere alla concorrenza e costruire una dinastia sportiva solida e possibilmente vincente. E anche il feeling con Popovich - nato da una lunga nuotata nell’Oceano quando il coach andò a trovarlo a Saint Croix prima del Draft - deve modificarsi. Un feeling naturale tra due persone cresciute in ambienti diversi, in modi diversi, con esperienze diverse ma con un approccio alla vita identico: poche parole, molto lavoro.

Il vuoto di sceneggiatura e il punto di svolta tra i due arriva appunto dopo lo sfacelo del 1999/2000. Ci sono diverse frizioni tra la giovane stella e il suo mentore: con il contratto da matricola in scadenza, il caraibico cede al fascino magnetico del suo agente Lon Babby e si lascia tentare da un approdo agli Orlando Magic, per andare a fare compagnia a Grant Hill. La franchigia della Florida vuole mettere sotto contratto due delle stelle più luminose della lega per provare ad instaurare una dinastia in piena regola facendo leva sul fatto che Tim non è felice del roster degli Spurs: troppi veterani, qualche incertezza di troppo nel piano di ricostruzione e un David Robinson ormai al viale del tramonto. Popovich si irrigidisce e rifiuta di corteggiare la propria stella, evitando di (secondo la sua logica) partecipare al clownesco show di reclutamento; sull’altro versante Orlando si veste a festa e lo accoglie come una rockstar.

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Timmy D, invece, di rockstar continua ad avere ben poco.

Il futuro è in bilico, per la prima e unica volta il duo prende strade apparentemente diverse. Il clima di rigida indifferenza peggiora rapidamente (anche la proprietà nero-argento non si lascia andare a sperticate dichiarazioni d’affetto), tanto da lasciare pochi dubbi sulla scelta del fuoriclasse a vantaggio dei Magic. A salvare la situazione è il (quasi) disperato tentativo dei compagni di squadra, con l’Ammiraglio in prima fila e il notabile aiuto di Sean Elliott e Malik Rose. Facile presumere il dialogo tra allenatore e stella al momento della firma.

“Pop, ho deciso di restare”.

“Ok, so che lo hai fatto apposta per tenermi sulle spine”.

Duncan si libera dello stato di allievo per ottenere quello di pietra angolare, facendosi coinvolgere in ogni aspetto del gioco e della gestione tecnica. Il sodalizio raggiunge il suo mix perfetto.

Costruire una dinastia

San Antonio ha salvato il suo futuro e si muove rapidamente per costruire attorno al suo pilastro. Urge un fuoriclasse della dirigenza per rinfrescare la squadra, e gli Spurs lo trovano in casa. L’abilità di R.C. Buford come general manager permette ai texani di mettere sotto contratto vere e proprie perle del gioco a prezzi di saldo e di assemblare il core più vincente dell’era moderna. Grazie al Draft e a geniali operazioni sottocosto, arrivano in rapida successione Tony Parker (pick n.28 al Draft), Manu Ginobili (pick n.57), Stephen Jackson (tagliato dai Nets e preso dal marciapede del mercato NBA), e cominciano ad accumularsi giocatori di contorno validi come l’ancora difensiva Bruce Bowen o la meteora “Speedy” Claxton. Due eliminazioni consecutive ai playoff per mano dei Lakers di Shaq e Kobe non mutano le strategie: i neroargento sono finalmente pronti ad affrontare il nuovo millennio e non si volteranno più indietro.

La stagione 2002/03 è una marcia trionfale: Duncan gioca il miglior basket della sua carriera fin lì - sì, è stato capace di migliorarsi: Good, better, best... - e si porta a casa il titolo di MVP della stagione, bissando il titolo dell’anno precedente. La squadra chiude la regular season a quota 60 vittorie e nei playoff a suon di 4-2 (tra cui i Lakers di Shaq e Kobe) batte tutti presentandosi alle Finals contro i New Jersey Nets come i logici favoriti. Jason Kidd e compagni, però, sono avversari durissimi che entrano sotto pelle degli Spurs e ne complicano il gioco. In gara-5, con la serie sul 2-2 e la partita in equilibrio, nel quarto periodo c’è un solo schema adottato: 4 down, ovvero palla a Duncan in post medio. La partita diventa un clinic del nostro, un Manuale da prendere e incorniciare. Ma non finisce qui.

Gara-6, Finals 2003. Duncan si trasforma in Michelangelo e tira fuori dalle mani un’opera d’arte: 21 punti, 20 rimbalzi, 10 assist e 8 stoppate. A 1:54 l’azione simbolo: neanche un suo errore lo ferma. Ah, ovviamente MVP delle Finali, ci mancherebbe. Dopo questa partita David Robinson può ritirarsi soddisfatto.

C’è un altro aspetto che arrivati a questo punto hanno tutti imparato: Tim reagisce alla sconfitta lavorando di più, sudando di più, allenandosi di più. Non c’è cosa più pericolosa che affrontare un Duncan reduce da una sconfitta. E non è un pericolo che si limita alla partita successiva. Quando nel 2004 i Lakers, di nuovo, eliminano gli Spurs - do you remember game-5? Canestro del sorpasso di Duncan a 4 decimi dalla fine e poi canestro di Fisher sulla sirena? -, l’unico pensiero del cruciano è la vendetta sportiva. La rivincita. Il riscatto. O se preferite l’anello. Talmente radicato in sé che la fascite plantare che lo tormenta per tutta la stagione viene trattata con regale indifferenza.

Ma se i playoff del 2005 sono quasi una formalità, la finale contro i Detroit Pistons è durissima: sette-battaglie-sette, la cui intensità traspare oltre gli schermi rendendo esausti anche i telespettatori. La storia di questa serie merita una trattazione a parte, così come la meriterebbe la gara 5 decisa all’overtime con una tripla di Horry lasciato senza un motivo logico da solo merita: noi ci limitiamo agli ultimi istanti della gara decisiva.

Tre ore prima della partita Tim Duncan va al palazzo per allenarsi esclusivamente sui tiri liberi, tasto dolente del repertorio cestistico e di particolare rilevanza nelle serate precedenti. Ha sempre la fascite plantare che lo tormenta, ma se non glien’è importato nulla finora cosa volete che gli interessi proprio quella sera. A poco più di un minuto dal termine va in lunetta sul +5 Spurs e fa 1 su 2. Può bastare così. Da lì in poi decidono Bowen in difesa e Ginobili, a dir poco monumentale in quella serie, in attacco. Timmy vince l’MVP un po’ perché ha un peso superiore a Manu, ma molto perché è la faccia degli Spurs: è l’uomo che a suo modo ha convinto i compagni a dare tutto per riprendersi l’anello, è l’esempio di come si possa e si debba andare oltre qualsiasi possibile alibi. Poi, solo poi, vengono i 21 punti e i 14 rimbalzi di media.

Il biennio successivo è praticamente un copia e incolla del precedente. La fascite non gli dà tregua, ma ancora una volta il caraibico va oltre il dolore anche se si deve arrendere ad un avversario, Dirk Nowitzki e i Dallas Mavericks, capace di gestire meglio il tempo nel momento in cui lo scorrere dei secondi si fa inesorabile. L’anno dopo, come nel 2005, non si fanno prigionieri. La partenza stentata? Nessun problema. Gli acciacchi? Tsè. Quando conta Duncan c’è. L’ostacolo più alto è la semifinale di conference contro la Phoenix Suns di D’Antoni, Nash e Stoudemire, tutti al loro top e a caccia del titolo. La serie svolta in Gara 4: San Antonio perde ma nel caos finale generato da Horry, Diaw e Stoudemire si beccano una giornata di squalifica. Su una Phoenix ridotta all’osso e in debito d’ossigeno, Duncan si avventa con due doppie doppie di fila per chiudere la serie: ha una missione da compiere, l’ennesima. La Finale è la più “semplice” di sempre: LeBron James non è ancora il padrone della Lega e i Cavs vengono asfaltati in quattro partite. È il punto più alto del silenzioso dominio duncaniano, tanto che il titolo di MVP delle Finali se lo porta a casa Tony Parker.

Legacy

Nel 2009 Sports Illustrated lo elegge miglior giocatore della prima decade del XXI secolo. Certamente per i titoli e per i numeri accumulati tra punti, rimbalzi, assist e qualsiasi altra cosa. Però ci dev’essere qualcosa di più, perché la concorrenza non manca ed è pure spietata. Ci dev’essere qualcosa che ha fatto solo Duncan che lo renda inimitabile. Cos'ha fatto sul campo, al di là dei freddi numeri, per meritarsi una poltrona già prenotata nella Hall of Fame?

Se prendiamo ogni singola caratteristica tecnica di Duncan possiamo trovare uno o più lunghi che sono o sono stati migliori di lui: più abili a prendere posizione a rimbalzo, più capaci di sovrastare fisicamente l'avversario, più bravi nel gioco in post basso, più tattici, più veloci, più potenti. Ma non troveremo nessuno con il pacchetto completo. Nessuno a parte Timmy. È ciò che lo ha reso e lo rende speciale, insieme a una comprensione del gioco e delle sue dinamiche che è proprietà esclusiva degli Eletti. Siamo alle prese con un eccellente difensore per letture e tempismo, un attaccante essenziale, un leader che trasuda carisma da tutti i pori con il solo esempio quotidiano. Un Vincente, un calmo e noioso Vincente (quasi-cit.). In poche parole: “The greatest power forward in NBA history”.

Il caraibico ha poi avuto il grande merito di evolvere il suo gioco e l’approccio con la squadra, mutandolo nell’ultimo lustro a seconda delle necessità e del declino fisico con camaleontica concretezza. Duncan è l’uomo squadra che tutti vorrebbero a fianco: può difendere senza chiedere il pallone in attacco per ere geologiche, lasciando spazio e vetrina ai compagni quando necessario; giudice e cassazione della difesa sul lato debole, passa come un play e tratta il pallone come una buona ala piccola; non salta praticamente mai a vuoto su una finta, ha sempre il controllo emotivo di compagni e partita. Più che a una partita di basket sembra disputare una competizione di scacchi. Non c’è ego nel suo DNA. Negli anni ha migliorato le sue qualità di leader vocale ed è lui a guidare movimenti e alchimie di uno degli apparati difensivi più efficaci del basket moderno. Un direttore d’orchestra esigente ma generoso, che ha compreso quanto siano diversi i musicisti da dirigere più adatti al sound contemporaneo.

C’è però un momento in cui l’aplomb va a farsi benedire. Gara-7, Finals 2013: con ancora il tiro di Allen di G6 ben vivo nella memoria, Duncan sbaglia un tiro che ha messo milioni di volte nella sua vita. Tornando in difesa dà una manata al parquet con una rabbia inaudita per lui. Il Larry O’Brien Trophy 2013 se n’è andato: la conquista di quello 2014 probabilmente nasce nello stesso momento.

Quello che il caraibico ha donato alla causa degli Spurs è stato idealmente ripagato dall’amministrazione controllata del suo crepuscolo sportivo. Se nella prima decade abbondante di carriera non ha mai potuto contare su un top-15 della lega a suo fianco, i texani nel corso degli ultimi anni gli hanno affiancato un team di estrema qualità e con un top 5 NBA (Kawhi Leonard) in fase di rigogliosa fioritura. Se escludiamo un paio di stagioni in cui Tony Parker si è avvicinato ai vertici assoluti della lega e i lampi di Ginobili ai playoff, Duncan ha sempre giocato con squadre di cui è stato l’essenziale spina dorsale. Ha tratto il meglio da ogni compagno di squadra e “addomesticato” idealmente le poche teste calde ingaggiate dai texani durante la sua era. Il titolo del 2014 è la somma ideale di questa piccola rivoluzione nerorgento: in caso di emergenza basta chiamare la palla in post per ricavare un piccolo viaggio indietro nel tempo. Prova ne siano i playoff dello scorso anno con i Clippers o il duello con Ibaka di pochi anni fa. Keep calm e palla a Timoteo.

Il ritiro

Abbiamo ormai perso il conto di quante volte a febbraio-marzo la voce sul ritiro imminente del caraibico si sia gonfiata a dismisura fino a scoppiare a giugno come un palloncino. Duncan è ancora lì, sempre lì, costantemente lì. Il fisico gli sta dando segnali che lui noncurante rispedisce al mittente e il bilancino con cui Pop lo utilizza è sempre più preciso e tendente al centesimo di secondo. Trascina una gamba da diverse stagioni e la schiena presenta il conto di tante battaglie. Eppure difensivamente resta un califfo nonostante i 40 anni. Tim è come quei bambini che alle giostre chiedono ai genitori di fare un altro giro e poi un altro e poi ancora uno e poi uno che ti giuro è l’ultimo e poi il prossimo e basta e poi ancora. E il genitore lo lascia fare perché in fondo non c’è nulla di male: lui si diverte, noi ci divertiamo a guardarlo felice.

Ovviamente, prima o poi, il momento del commiato arriverà e sarà oggettivamente un brutto colpo. Si chiuderà un’era ma non è detto che non se ne possa aprire un’altra: diversa, perché il nostro non avrà la canotta #21 addosso, ma è facile supporre che abbia le possibilità di essere una carriera comunque vincente. Per esempio potrebbe riciclarsi come critico cinematograf… No, forse questo meglio di no. Probabilmente riuscirà a sorprendere anche in giacca a cravatta, o magari con addosso una t-shirt in grado di esaltare la sua componente nerd e la fantasia del pubblico...

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...perchè lui è Timothy Theodore Duncan, e voi no.

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