
«Iniziamo a superare il fottuto primo turno». Rispondeva così Giannis Antetokounmpo a chi gli chiedeva, poco prima dell’inizio della stagione, quale fosse l’obiettivo dei Milwaukee Bucks nel 2025. Prudenza, dubbi, frustrazione, basso profilo, o forse un insieme di tutte queste cose - fatto sta, col senno di poi, che il greco non sbagliava a sviare le domande su Conference e NBA Finals, e a concentrarsi sul muro contro cui i Bucks si sarebbero schiantati per la terza volta. «Il fottuto primo turno».
Otto mesi e una regular season dopo quell’intervista, a Milwaukee i playoff sono durati quanto nel 2023 e nel 2024. Molto poco. Giusto il tempo di farsi liquidare dai Pacers di Tyrese (e John) Haliburton in cinque gare, autosabotandosi nel finale dell’ultima (ordinaria amministrazione per le avversarie di Indiana), e perdere Damian Lillard per un grave infortunio (il tasto più dolente). Un finale amaro che si porta dietro un cumulo di frustrazione di anno in anno sempre più ingombrante nei pensieri del due volte MVP prima che di chiunque altro.
Già durante il Media Day di settembre The Greek Freak sottolineava quanto «ogni anno sia prezioso», ora che ha scollinato i trenta. «Perché un giorno sarò 35enne, 38enne, il mio prime sarà finito, e non voglio trovarmi a pensare di non averlo sfruttato». Parole che potevano suonare minacciose già allora, e lo sono di certo dopo un epilogo simile di stagione. Il messaggio era fin troppo chiaro: di tempo sprecabile non ce n'è più, competere è un requisito minimo. Ma è altrettanto evidente che oggi i Bucks possano garantirgli poco o niente in tal senso.
L’estate in arrivo per Jon Horst, general manager storicamente vicino ad Antetokounmpo e fresco di estensione, non sarà la prima in cui misurarsi con gli “incentivi” per trattenere il greco nel Wisconsin. Era già accaduto in passato, e non casualmente le ultime due estensioni sono state firmate a distanza ravvicinata dalle manovre che hanno portato Jrue Holiday (2020) e Damian Lillard (2023). Il problema è che le fondamenta su cui poggia la franchigia oggi, e soprattutto i mezzi a sua disposizione, non sono più gli stessi.
Lo suggeriscono i risultati. Se tra il 2018 e il 2022 si collezionavano due secondi turni, una finale di Conference e un titolo, nel triennio successivo i Bucks hanno vinto la miseria di quattro partite nei playoff. In totale. È vero, si sono schiantati contro gli infortuni primaverili delle proprie stelle, una maledizione, prima ancora che sulle rivali della Eastern Conference; ma sono passati comunque dal gentlemen sweep contro gli Heat a due nette sconfitte con i Pacers, partendo rispettivamente da primo, terzo e quinto seed.
L’atmosfera dell’ultima stagionale al Fiserv Forum, un blowout segnato dall’infortunio in avvio di Lillard, ha raccontato tutta la distanza che si respira a Milwaukee dalla cavalcata del 2021. Nello spogliatoio dei Bucks c’era una scritta prima della palla a due: “15”, le vittorie mancanti per tornare nella terra promessa - una tradizione ereditata proprio dalla corsa di quattro anni fa, ma che da allora si è trasformata in una raccolta di crude istantanee.
Al netto di uno specchietto retrovisore che restituisce sempre meno immagini confortanti, l’orizzonte pare ancora più cupo e incerto. Da qualunque prospettiva si guardi: il lungo stop di Lillard, le incognite estive (oltre ai “Big Two”, solo Kyle Kuzma e il rookie Tyler Smith hanno un contratto garantito), l’aridità di asset commerciali (scelte al Draft, contratti appetibili, flessibilità salariale). La domanda sorge spontanea.
SIAMO AL CAPOLINEA?
«Quest’anno la mia prima sfida è rimanere sano», diceva Antetokounmpo nel 2024, reduce da due post-season in cui i suoi infortuni avevano compromesso le chances della squadra di competere. Stavolta la sfortuna lo ha risparmiato - Giannis era sano, eccome - ma ha colpito la co-star dei Bucks. La rottura del tendine d’Achille di Lillard è piombata come un macigno sulla serie con i Pacers e sulle prospettive a breve-medio termine della franchigia. La sua assenza dal campo - nella migliore delle ipotesi buona parte della prossima stagione - lascia infatti un solco profondo nelle certezze dell’organizzazione.
L’infortunio di Lillard, inutile girarci intorno, ha implicazioni drammatiche. Non solo per il diretto interessato, colpito a 34 anni da un problema che avrà un prima e un dopo nella sua carriera; è un duro colpo anche per Jon Horst, che da quell’injury report datato 28 aprile 2025 è passato da una posizione potenzialmente scomoda - in campo, nei libri paga e sul mercato - a una di disperazione, o quasi. Sullo sfondo, ma di fatto al centro di tutte queste dinamiche, c’è l'equilibrio più delicato: il commitment di un fenomeno generazionale nel pieno del prime fisico (30 anni) verso uno small market come Milwaukee.
Ogni discussione sul futuro del greco parte da un assunto quasi scontato, e cioè che la sua cessione non sia nei piani di Jon Horst. Non lo è mai stata, e non lo sarà finché non dovesse arrivare una richiesta esplicita da parte del giocatore. In caso contrario, al suo posto al centro dei Bucks non c’è data di scadenza.
Nell’ultimo decennio Milwaukee ha avuto infatti il privilegio, senza nemmeno pagare una chiamata in Lottery, di crescere in casa una delle stelle più luminose della lega. Un top-5 perennemente in aria di MVP (sempre tra i primi quattro dal 2019 in avanti) e con un posto fisso nell’All-NBA First Team (sette nomine consecutive), intorno a cui è stata costruita una contender e la vittoria di un titolo, abituandosi a rappresentare l'élite della lega. E per chi non gioca a New York, Los Angeles o San Francisco, fare tutto il possibile per mantenere questo livello, e quindi per preservare quel dono della sorte che è Giannis, è un imperativo. Un automatismo quasi, più che una scelta - o almeno, avremmo detto così fino all’affare-Doncic.
Come scrive Marc Stein, “Giannis è troppo importante per i Bucks, anche solo da un punto di vista finanziario”. Lo è per la nuova proprietà guidata da Jimmy Haslam, che nel 2023 ha rilevato la maggioranza della franchigia e dopo due anni non si augurerà certo la separazione dal miglior giocatore nella storia dei Bucks (e tanto altro fuori dal campo). Jon Horst ha fatto e disfatto il giocattolo a oltranza nelle ultime sessioni di mercato per prolungare la sua permanenza, muovendosi d’anticipo sul mercato e prevenendo ogni malcontento, senza risparmiare asset. Sono ben 25 le trade completate dal 2017, anno d’inizio del mandato di Horst e del MIP di Giannis, con 7 prime scelte cedute, una manciata di pick swaps e 18 second-rounders, più tutti i milioni di dollari sborsati in luxury tax.
In questi dodici anni Giannis non ha mai voluto cambiare aria. Adesso però un'altra stagione a livello MVP (30.4 punti, 11.9 rimbalzi, 6.5 assist, 1.2 stoppate a partita, con più del 60% dal campo per il secondo anno di fila e i migliori dati in carriera nel rapporto assist/palle perse e dal mid-range) è andata in archivio, e dolorosamente. Con il sospetto che possa essere un punto d’arrivo.
THE DECISION
«Questa è la mia squadra, e lo sarà per sempre», diceva Giannis al New York Times nel 2023, prima della trade-Lillard. «Non dimentico chi è stato al mio fianco, chi mi ha permesso di crescere e mostrare al mondo che persona sono davvero, chi mi ha dato una piattaforma. Ma dobbiamo vincerne un altro. Vincere un altro titolo viene prima di tutto: non voglio restare vent’anni nella stessa squadra senza un altro anello».
«Non risponderò in nessun modo a queste domande», diceva invece ai giornalisti che incalzavano sul suo futuro nella conferenza stampa dopo gara-5, il mese scorso. «Non lo farò, perché so già come va in questi casi: qualsiasi cosa io dica, verrà interpretata in qualche modo. Adesso so solo che vorrei essere ancora in corsa con la mia squadra nei playoff».
Stando a quanto riportato da Shams Charania, in questi giorni Antetokounmpo starebbe riflettendo sulla situazione propria e di squadra, “aperto a valutare alternative” nonostante i due anni (più uno) ancora sul contratto. Chris Haynes ha aggiunto che “in settimana è previsto un incontro con il front office” in cui Giannis dovrebbe rendere note le proprie volontà. E per il momento non è noto nient’altro, possiamo solo provare a immaginarlo.
Guardando al roster dei Bucks non si trova granché, Giannis a parte, su cui edificare speranze competitive. Di sicuro non per l’anno prossimo, con il 35% del salary cap occupato da un giocatore infortunato (non eleggibile per una DPE), una manciata di contratti garantiti (i quattro già citati in precedenza) e una marea di incertezze. Bobby Portis, Pat Connaughton e Kevin Porter Jr dovranno decidere se esercitare o meno la player option prevista dai rispettivi contratti; AJ Green, Andre Jackson Jr e Chris Livingston sono titolari di non-guaranteed deals; Ryan Rollins sarà restricted free agent, mentre Brook Lopez, Gary Trent Jr, Taurean Prince e Jericho Sims unrestricted free agent. Difficile immaginare chi tra qualche mese si potrebbe rivedere al training camp.
Se i Bucks decidessero e riuscissero a trattenere una buona parte del supporting cast, il conto potrebbe diventare salato - troppo per uno small market non competitivo? - e pericolosamente vicino alle soglie introdotte dal nuovo contratto collettivo, con le conseguenti limitazioni sul mercato. L’estremo caso opposto, un esodo di massa, porterebbe invece i Bucks sull’orlo del definitivo sgretolamento, dopo aver già salutato nelle ultime finestre di mercato alcuni volti del nucleo storico.
I contratti di Antetokounmpo e Lillard assorbono da soli 108 milioni di dollari annui, oltre due terzi del salary cap stimato per il 2025/26. “Dame” con i 54 garantiti la prossima stagione e una player option da 58.5 per la successiva, e ora con un lungo percorso riabilitativo davanti, è diventato una zavorra non da poco. In un universo parallelo in cui l’ex Blazer è rimasto sano e ha giocato questi playoff, forse i Bucks starebbero pensando di sondare il mercato per la point guard, al netto di un salario e di un’anagrafica di per loro poco appetibili; all’indomani dell’infortunio, però, muovere il suo contratto è diventata un’impresa pressoché impossibile. L’unica ipotesi sarebbe uno swap con Bradley Beal, diventato ormai il depositario di ogni trade rumor all’insegna della mancanza di alternative; ma si tratta di un affare improbabile per svariati motivi, tra cui il diritto di veto di cui gode la guardia dei Suns.
Le eccezioni a disposizione del front office dei Bucks - la trade exception da 7.2 milioni di dollari generata dall’affare-Middleton (concepito per alleggerire i libri paga e scendere sotto il second apron), la mid-level exception da 14.1 (utilizzabile anche per più giocatori) e la biannual exception da 5.1 - sono d’aiuto fino a un certo punto. I Bucks attualmente sono intorno all’86% del cap proiettato per il 2026 (155 milioni circa), ma la distanza dal first apron (189) potrebbe ridursi dopo una o due ri-firme dei contratti in scadenza, e con altri necessari innesti in free agency.
Dare una scossa non peggiorativa al roster, in queste condizioni, è evidentemente complesso. A maggior ragione perché del Draft capital che servirebbe a Jon Horst ormai non c’è neanche l’ombra, dopo anni di all-in per massimizzare le chances competitive di questo nucleo. Nel 2025 i Bucks dispongono di una sola scelta, la numero 47, e guardando avanti hanno il controllo delle proprie prime soltanto nel 2026, 2028 e 2030 - diritti non scambiabili (Stepien Rule) e tutti coinvolti in pick swaps sfavorevoli. La first round pick più vicina che si può includere in una trade è nel Draft 2031.
VINCERE VIENE PRIMA
Se l’unico desiderio di Antetokounmpo è competere con la maglia di Milwaukee, e se nonostante il ridimensionamento alle porte la fedeltà alla squadra che lo ha draftato è ancora in cima alle sue priorità, sembra esserci una sola strada percorribile: un gap year. Una stagione interlocutoria, cioè, in cui l’orizzonte competitivo è sospeso, attendendo il ritorno di Lillard, lavorando sullo sviluppo interno del talento e cercando nuovi sbocchi di mercato. Un po’ come abbiamo visto con Steph Curry e i Golden State Warriors nel 2021, per citare un esempio con lieto fine.
L’aumento del salary cap (10%) nell’estate 2026, l’inizio dell’ultimo anno di contratto di Lillard (58.5 milioni) e Kuzma (20.5) e la possibilità di impacchettare le scelte 2031 e 2033 sono tutti fattori che tra un anno restituirebbero margine di manovra al front office. A Giannis però sarebbe richiesto di pazientare un anno, o come direbbe lui sprecarlo. Peraltro senza nessuna garanzia sul rientro di “Dame”, sull’integrazione di Kuzma, sulla composizione del supporting cast e sulle possibilità di ambire, se non altro, a un posto nei playoff.
Una cosa è certa: un’annata di transizione stenderebbe a Giannis il tappeto rosso nella corsa all’MVP. In regular season quando ha avuto in mano le chiavi dell’attacco, senza Lillard, ha girato a 32.6 punti, 11.9 rimbalzi e 8.1 assist di media, con il 65% di true shooting; e nella striscia vincente a cavallo tra marzo e aprile, in sei gare di puro “Point Giannis”, la cifra degli assist è salita a 11.8 ad allacciata di scarpe, con tanto di career-high (20) sul campo dei Sixers. Ma è questo che vuole Giannis?
Nelle sue parole non c’è mai stata ambiguità: «winning comes first». E ora che Milwaukee gli può garantire meno che mai in tal senso, e posto che tra un anno la situazione potrebbe essere più o meno la stessa, cercare fortuna altrove è un’opzione concreta. Il che ci porta a tutte quelle domande che il pubblico NBA e gli addetti ai lavori si pongono freneticamente da qualche settimana, intasando le trade machine e facendo moltiplicare ipotesi e indiscrezioni di mercato.
TRADE MARKET: LE FAVORITE
“The whole league is on edge”, dice Marc Stein, l’intera NBA è in stato di allerta - e in effetti la lista di squadre che potrebbero attivarsi per Giannis in offseason è piuttosto lunga. C’è chi - come Boston e Cleveland ad esempio - è automaticamente fuori dai giochi, trovandosi sopra il second apron e non potendo quindi combinare salari, assorbire contratti di valore superiore a quelli in uscita, né includere proprie scelte in Draft lontani. Per il resto, prima ancora che dall’entourage di Antetokounmpo o dal front office dei Bucks venga lanciato un segnale di apertura, le gerarchie della corsa a The Greek Freak si stanno delineando.
Partiamo dalle fondamenta: per fare un serio tentativo è necessario un cospicuo arsenale di asset, tecnici e commerciali. “Qualsiasi pacchetto vi venga in mente, sarà necessario di più”, ha scritto l’insider Eric Nehm. E sulla stessa linea d’onda, scherzando ma neanche troppo, Bobby Portis ha detto su FanDuel TV che «chi pensa di scambiare per Giannis, deve essere pronto a dare via tutta la sua squadra». Un’esagerazione che non cade troppo distante dalla realtà.
Se il benchmark è Mikal Bridges - per cui New York ha ceduto quattro prime scelte non protette, una protetta top-4 e uno swap senza protezioni - il costo del greco è ben più alto. Almeno sette/otto prime scelte e uno/due giovani di alto profilo, secondo Brian Windhorst e altri analisti di ESPN, in aggiunta ai contratti necessari per il matching salariale. Ciò che Milwaukee chiederebbe in cambio, sostanzialmente, è il ripristino del Draft capital ceduto negli ultimi anni e un nuovo young core attorno a cui avviare la ricostruzione.
In cima ad ogni lista c’è San Antonio. Gli Spurs hanno asset, spazio e flessibilità per coltivare il sogno di affiancare il due volte MVP a Victor Wembanyama. I texani possono mettere sul tavolo le scelte numero 2 (Dylan Harper) e 14 (via Atlanta, di cui possiedono anche la prima non protetta nel 2027) del Draft in arrivo, insieme ad altre future (il serbatoio è pieno); e completa il quadro l’insieme di giovani di prospettiva e di contratti appetibili composto da Stephon Castle (Rookie of the Year), Jeremy Sochan e Devin Vassell, insieme al volume garantito da Keldon Johnson ed Harrison Barnes. Il tutto senza nemmeno considerare di cedere Wembanyama e Fox, e trattenendo una buona dose di scelte e giovani sulle rive dell’Alamo.
«Sarebbero immediatamente i favoriti per il titolo», ha detto un executive anonimo della Eastern Conference a The Athletic. «Con Giannis e Wemby, gli Spurs avrebbero due tra i migliori giocatori della lega, e il fit è buono. La difesa sarebbe dominante, segnare al ferro sarebbe difficile per chiunque, e in attacco con le giuste ali intorno potrebbero elevare il cinque-fuori visto con Brook Lopez ad un altro livello». Al di là del fit ideale, che offensivamente sarebbe tutto da dimostrare, alzi la mano chi non sarebbe quantomeno curioso di vedere un frontcourt del genere.
Segue a ruota un’altra franchigia texana, Houston. Anche i Rockets hanno tutto il necessario per imbastire una blockbuster trade, con una delle tante combinazioni possibili tra giovani (Jalen Green, Amen Thompson, Alperen Sengun, Jabari Smith Jr, Reed Sheppard, Cam Whitmore), contrattoni (Fred VanVleet, Dillon Brooks) e qualcuna delle tante scelte a disposizione. Se c’è una franchigia per cui sacrificare buona parte del proprio nucleo attuale avrebbe senso, quella è Houston, alla ricerca di una superstar con cui provare il salto da playoff team a contender.
Anche i Brooklyn Nets sono da tempo sul radar. Secondo il New York Post, Giannis è il loro “piano A” per i prossimi mesi (tre o quindici che siano), con buoni argomenti per nutrire speranze. Hanno spazio salariale (potrebbero assorbire, oltre a Giannis, uno o due pesi indesiderati), un lotto di first round picks impressionante (15 totali, tra Knicks, Suns e proprie) e altrettante scelte al secondo giro con cui fare gola ai Bucks; cui aggiungere qualche giovane (Nic Claxton, Noah Clowney, Cam Thomas) e il vantaggioso contratto di Cameron Johnson. Ma Brooklyn è una piazza che, ad oggi, non può garantire a Milwaukee una base “sicura” da cui ripartire, né ad Antetokounmpo ciò che desidera maggiormente (sì, più che vivere nella Grande Mela): la competitività nell’immediato.
TRADE MARKET: ALTRI SCENARI
Dopo la Lottery si sono guadagnate un posto in questo capitolo due franchigie abbastanza inattese: Philadelphia e Dallas. I Sixers di Daryl Morey - general manager creativo e spregiudicato se ce n’è uno - hanno pescato la numero 3 nel prossimo Draft, che unita a Tyrese Maxey potrebbe rappresentare un intrigante punto di partenza per la rifondazione dei Bucks. I Mavs invece hanno incredibilmente ottenuto la prima scelta assoluta, vale a dire i diritti su “the next big thing” Cooper Flagg. In pochi credono che Nico Harrison la metterà sul piatto, o che la proprietà darebbe imprimatur a un altro terremoto del genere, dopo l’addio di Doncic; la storia recente ci ha insegnato però a non dare nulla per scontato con i Mavs, e di sicuro affiancare Antetokounmpo ad Anthony Davis e Kyrie Irving (rientro dall’infortunio al ginocchio permettendo) è un’opzione allettante.
Poi ci sono i Thunder, la squadra più forte della Western Conference e la franchigia sportiva nella posizione più invidiata d’America, tra talento nel roster attuale e prospettive future. OKC in teoria potrebbe comporre l’offerta più ghiotta di tutte, ma nella pratica è improbabile che Sam Presti decida di scomporre un nucleo che sta dando solidissime garanzie sul campo (sempre che il campo non dica il contrario nelle prossime settimane) e per cui sono in programma grosse spese di manutenzione (le estensioni di Shai Gilgeous-Alexander, Chet Holmgren e Jalen Williams).
Veniamo quindi alle improbabili suggestioni: Warriors, Lakers, Heat e Knicks. Tutti big market con un forte appeal mediatico, ma asset insufficienti. Salvo ricatti di Giannis in tal senso - ovvero forzare una sola controparte, o una lista ristretta - sembrano le classiche ipotesi destinate ad alimentare i trade rumors e i sogni delle tifoserie, per poi svanire nel nulla. Golden State di sicuro potrebbe contare sul rapporto di amicizia e stima tra Giannis e Steph, e sulla comune agenzia di rappresentanza; con il possibile coinvolgimento di Jonathan Kuminga, Buddy Hield e uno tra Draymond Green e Jimmy Butler. Senza scelte di valore al Draft, però, la distanza da colmare è vasta.
Discorso simile per Los Angeles e Miami, altre due squadre che secondo Brian Windhorst “possono formulare un’offerta ma di sicuro non possono vincere un’asta”. I gialloviola offrirebbero Austin Reaves, Rui Hachimura e Dalton Knecht, ma non dispongono di scelte al Draft spendibili sul mercato fino al 2031. Gli Heat hanno Tyler Herro e Bam Adebayo, ma pochi asset interessanti da cui ripartire. I New York Knicks, infine, hanno parecchio materiale umano, ma un ristretto capitale di scelte al Draft. Tutte queste quattro destinazioni avrebbero bisogno quindi di una forte spinta dietro le quinte da parte di Antetokounmpo.
Infine, due mete da non escludere sono Toronto (che avrebbe buone chance, ma la Lottery non ha dato lo slancio sperato) e Detroit. I Raptors possono mettere sul piatto Scottie Barnes, RJ Barrett e scelte future, e Masai Ujiri ha già dimostrato in passato di non avere paura a premere il grilletto di fronte a una superstar disponibile sul mercato. I Pistons invece hanno Cade Cunningham e una buona batteria di giovani al suo fianco, dispongono di spazio e flessibilità salariale, e aggiungono un buon tesoretto in sede di Draft. In entrambi i casi, però, dopo una maxi-trade resterebbe poco di attraente per il greco.
I beninformati a Las Vegas hanno raccolto tutte queste informazioni e già stilato la lista delle destinazioni più probabili, alle spalle di Milwaukee - che per ora rimane la più probabile, e per distacco (almeno fissando la deadline al prossimo season opener). Dopo i Bucks si trovano, nell’ordine: San Antonio, Houston, Toronto, Brooklyn, Miami e a seguire tutte le altre menzionate.
Se il momento dei saluti fosse davvero giunto, quella di Giannis nel Wisconsin sarebbe in ogni caso una bellissima storia - per come è iniziata e per il suo punto più alto - ma senza un lieto fine. Anzi con un epilogo fatto di delusioni sul campo, cambi in panchina - da Mike Budenholzer a Doc Rivers, passando per Adrian Griffin - e scommesse manageriali che dopo il 2021 non hanno pagato i dividendi sperati. Ora da Antetokounmpo si attende un segnale - e poi, nel caso, preparatevi a un’estate di “absolute cinema”.