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Il basket europeo è in cerca di autore
20 nov 2025
Come provare a orientarsi in un sistema frammentato con tre protagonisti: Euroleague Basketball, FIBA e NBA.
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37 min
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IMAGO / Eibner
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Il 16 ottobre 2000 il mondo era un posto completamente diverso rispetto a quello di oggi, e la pallacanestro non faceva eccezione. Chiusosi da un paio di settimane il torneo olimpico di Sydney con la vittoria in Finale degli Stati Uniti sulla Francia, il Real Madrid di Sergio Scariolo inaugura la stagione di Eurolega con una vittoria in casa.

Il 16 ottobre 2025 è passato poco più di un anno dalla vittoria degli Stati Uniti sulla Francia a Parigi 2024, e il Real Madrid di Sergio Scariolo affronta il day after di una vittoria casalinga di Eurolega. Sembrano quasi ironiche queste due somiglianze, ma la data del 16 ottobre - tanto del 2000 quanto del 2025 - è in realtà fondamentale per contribuire a farsi un’idea dello stato attuale del basket europeo.

Il 16 ottobre 2000 è passato alla storia come il giorno della prima storica partita di Euroleague dopo la “rottura” tra Uleb e FIBA: una serata celebrata con una - piuttosto sobria, in verità - cerimonia inaugurale a precedere l’incontro tra Real Madrid e Olympiacos, vinta dagli spagnoli nonostante la presenza tra i greci del futuro Hall of Famer, Dino Radja, autore anche del primo canestro della sfida, e del padre di una futura prima scelta assoluta NBA, Stephane Risacher. Il 16 ottobre 2025, giorno del 25° anniversario della competizione spesso presa a riferimento quando si ventila l’ipotesi di una Superlega calcistica, si sono disputate quattro partite della quinta giornata della stagione 2025/26, una giornata che ha rappresentato anche il secondo doppio turno stagionale in un calendario sempre più ingestibile per le squadre partecipanti.

Dubai e Barcellona, Zalgiris e Milano, Fenerbahce e Bayern, Maccabi e Olympiacos. Delle otto squadre in campo il 16 ottobre 2025 soltanto tre - oltre ai greci, anche i lituani e i blaugrana - hanno partecipato alla prima storica edizione, ricordata per l’occasione da Euroleague con un breve articolo di approfondimento e qualche iniziativa poco ambiziosa e originale negli scorsi mesi. Nulla di paragonabile se si pensa all’enfasi e alla grandeur di NBA in occasione del suo 50° anniversario nel 1997 o, in tempi più recenti, del 75° nel 2022. Lo sguardo rivolto al passato, a una storia incapace di celebrarsi davvero - e di ragioni ne avrebbe, dati gli aspetti innovativi che avevano contraddistinto il progetto originario - è necessario perché mai come nel 2000 lo scenario del basket europeo è frammentato, confuso e in eterna ricerca di un senso e di una posizione da prendere con tre attori sullo sfondo che si stagliano con la loro presenza. Euroleague, appunto, come NBA e FIBA. Tutte pronte a mettere mano sulle fette di una torta ancora in (lenta) cottura, con una lievitazione da verificare in un forno la cui funzionalità è discutibile.

I 10 ANNI DI UN (FALLITO?) ESPERIMENTO DI SUCCESSO
La stagione in corso non rappresenta soltanto il 25° anniversario dal lancio dell’Eurolega dalla “diaspora” di Sitges, quella che sancì la definitiva rottura con FIBA da parte dei club e delle principali leghe europee, ma si tratta anche della decima edizione della new Era. La riforma capace di stabilire - forse più che nel precedente del 2000 - la definitiva rottura delle relazioni tra un ecosistema a vocazione privata come Euroleague e un ente di portata più pubblica come la stessa FIBA, la federazione internazionale. Un trauma nato per molteplici ragioni e capace di generare una competizione che ha reso il basket europeo avanguardia e caso di studio: un campionato con le migliori squadre del continente, sicure - al di là dei meriti sportivi - della partecipazione a una competizione che le vedeva affrontarsi nello spazio di sei mesi con un calendario e una classifica che non teneva conto di sorteggi e variabili casuali. Per poi terminare l’annata con due capisaldi del basket europeo, in grado di combinare il meglio dei due modelli di ispirazione statunitense: il quarto di finale - inizialmente al meglio delle tre, poi delle cinque partite - e la Final Four per il titolo, da rendere un evento di portata potenzialmente maggiore all’equivalente NCAA e il cui semplice raggiungimento si rivela essere un traguardo sportivo di prestigio.

Nell’anno zero della new Era, la stagione 2016/17, 11 delle 16 squadre partecipanti arrivavano alla prima palla a due con la certezza della partecipazione grazie a una licenza di durata decennale, pensata ad accompagnare un maxi accordo con IMG (dal valore di centinaia di milioni di dollari), fondamentale per dare sostanza al progetto sportivo ed economico. In queste prime nove stagioni - stiamo vivendo la decima - tutte le 11 “fondatrici” originarie hanno raggiunto almeno due volte i Playoff e soltanto due, il Baskonia e il Maccabi Tel Aviv, non possono vantare una partecipazione alla Final Four. A leggere questi due dati, quindi, si può pensare che uno dei capisaldi del progetto “venduto” alle squadre - la scalabilità della piramide sportiva e la possibilità di raggiungere l’apice - sia stato rispettato e il fatto che nessuna squadra capace di chiudere la stagione regolare al primo posto abbia poi vinto il titolo aggiunge quel pizzico di imprevedibilità e capacità di sorprendere che certamente non dispiace agli appassionati.

Dall’estate 2016 alle undici fondatrici si sono affiancate due aggiunte primarie - il Bayern Monaco e l’ASVEL Villeurbanne - identificate come le più pronte a rappresentare mercati strategici come Germania e Francia, e si sono poi viste diverse compagini frequentare abbastanza spesso la competizione, pur faticando a vedersi riconosciuta una licenza di durata più lunga. Soltanto negli ultimi mesi squadre come Virtus Bologna, Valencia, Stella Rossa e Partizan Belgrado hanno ottenuto la possibilità di contare su una licenza triennale (a pagamento, con rumor che parlano di una tassa di 5 milioni su tre anni) mentre la finalista uscente - il Monaco - partecipa ancora con una licenza annuale “per merito sportivo”, ottenuta grazie alla vittoria dell’Eurocup nel 2021 e puntualmente rinnovata di anno in anno grazie al costante raggiungimento dei Playoff. A loro cinque si aggiungono la vincitrice della scorsa Eurocup, l’Hapoel Tel Aviv, e quella dell’edizione 2024, Parigi, capace di confermare il posto con una wild card annuale slegata dal risultato sportivo. A completare tale mosaico la presenza più discussa, quella che ci serve da aggancio per le ulteriori considerazioni sul come siamo arrivati qui: Dubai Basketball.

Presentare la creazione della propria squadra di pallacanestro come ideale prosecuzione del processo che ha portato alla creazione della città stessa.

Una squadra tirata su dal nulla, in un paese senza un pre-esistente terreno fertile per la pallacanestro - la nazionale degli Emirati Arabi Uniti non partecipa ai campionati asiatici dal 2011 e al massimo vanta un quinto posto nel 1997 - e nell’ambito (più grande) di un avvicinamento di Euroleague Commercial Assets (ECA) ai munifici sponsor regionali. Creata nel 2023, il volano per dimostrare la credibilità sportiva per arrivare a ottenere una licenza pluriennale per l’Eurolega è stato l’accordo triennale con l’ABA Liga, la lega che coinvolge le principali squadre dei paesi appartenenti all’ex Jugoslavia. Un accordo che vede Dubai Basketball pagare un’onerosa tassa di partecipazione - circa 1.7 milioni di euro a stagione - oltre al sostenimento di ogni spesa di viaggio e alloggio nel paese per arbitri e squadre in occasione delle partite giocate in terra emiratina (costi stimati da fonti serbe in circa 800mila euro).

In verità, la prima stagione di esistenza di una squadra dalla forte impronta slava (non solo a livello di roster, ma anche dirigenziale e di proprietà) è stata anche interessante dal punto di vista sportivo, con le singole vittorie contro avversarie di rango come Stella Rossa e Partizan fino al raggiungimento della Semifinale per il titolo. È altrettanto chiaro che anche le soddisfazioni che stanno arrivando in questa stagione - nel primo mese stagionale Dubai ha battuto il Fenerbahce campione in carica e il Barcellona - non vanno a intaccare il discorso generale sul senso della partecipazione della squadra a una competizione di formazione, identità e riferimento europeo.

Dubai Basketball esiste e gioca l’Eurolega perché è in primo luogo il prezzo da pagare per accedere ai fondi e alle sponsorizzazioni di area emiratina, di cui si fa fatica a vedere il reale effetto benefico - economico in primis, ma pure sportivo - per i club e per l’organizzazione intera. Una squadra con dei valori tecnici e tattici indubbiamente interessanti, popolata di giocatori di livello (come diversi ex NBA, a partire da Davis Bertans) che però non riesce a essere rappresentativa nemmeno del suo paese, dal momento che al momento della stesura di questo articolo non ha neanche tesserato un singolo giocatore nativo degli Emirati Arabi Uniti.

Il momento più alto dei primi mesi di Dubai in Eurolega: la netta vittoria in casa dei campioni in carica del Fenerbahce.

Una squadra che, per quanto copra i costi di trasferta, presenta difficoltà logistiche non indifferenti, tanto che per le avversarie europee è fondamentale evitare il viaggio verso gli Emirati durante double round week, una settimana con un doppio turno, cosa diventata sempre più difficile: dato l’allargamento a 20 squadre, il calendario 2025/26 ne proporrà ben dieci di settimane del genere (rappresentando quindi più della metà delle 38 partite garantite a ogni squadra). L’esistenza di Dubai è più che altro una conseguenza di un problema che arriva da lontano, che prescinde dal giudizio di merito sull’opportunità di ospitare una squadra extracomunitaria in una competizione europea. Si è arrivati a questo punto perché non si poteva fare altrimenti.

Dalla “messa in proprio” del 2016, l’ambizione delle nuove squadre fondatrici di Euroleague era quella di autogestirsi a livello logistico e organizzativo, massimizzando il coinvolgimento e di conseguenza i ricavi derivanti dalla propria attività. Si trattava di una presa di posizione per certi versi diversa rispetto a tutti i ventilati progetti di Superlega che abbiamo visto susseguirsi negli anni, perché questi - quelli calcistici - hanno sempre fondato attorno a un qualche tipo di organizzazione sovrastrutturata. Nel basket no: una volta venuta meno prima la longa manus di FIBA e poi anche il supporto delle principali leghe europee tramite Uleb - fondamentale per rendere possibile la diaspora originale del 2000 - la strada intrapresa è stata quella dell’autogoverno, puntando sulla continuità rappresentata da una figura come Jordi Bertomeu, CEO e Presidente di Euroleague Basketball sin dalla sua fondazione nel 2000, poi sostituito prima dal dirigente americano Marshall Glickmann e poi da Paulius Motiejūnas, già GM e azionista di minoranza dello Zalgiris Kaunas.

Le “fondatrici originarie” - le spagnole Real Madrid, Barcellona e Baskonia; le turche Efes e Fenerbahce; le greche Olympiacos e Panathinaikos; CSKA Mosca, Olimpia Milano, Maccabi Tel Aviv, Zalgiris Kaunas più le subentrate in corsa come Bayern Monaco e ASVEL Villeurbanne - sono da definirsi tali perché decidono per tutti: con votazione a maggioranza (ma sono stati davvero rari i casi di mancata unanimità) approvano i roster delle competizioni organizzate da Euroleague Basketball, ovvero Eurolega ed Eurocup, ma anche le modifiche regolamentari a livello di campo ed extra-campo, come l’adozione di una sorta di Fair-Play Finanziario denominato Competitive Balance Standards.

Il dettaglio delle regole finanziarie varate da Euroleague, abbastanza differenti rispetto alle logiche che guidano il Salary Cap NBA.

La crisi di Euroleague parte dall’inizio di questo decennio, e non soltanto per la difficile gestione di un periodo pandemico che ha visto Euroleague non provare nemmeno a riprendere la stagione 2019/20, a differenza di quanto fatto da campionati nazionali come Spagna e Germania. Nella stagione 2021/22, la prima con il progressivo venire meno dei limiti di affluenza nelle arene indoor per il Covid-19, l’Eurolega tornava a proporre tre squadre russe: alle confermate CSKA - detentrice di licenza pluriennale - e Zenit, originariamente entrata grazie anche all’influenza dello sponsor Gazprom, si era aggiunto l’UNICS, finalista l’anno prima in Eurocup a “sostituire” il derelitto Khimki Mosca, capace di collezionare un poco invidiabile record di 4 vittorie e 30 sconfitte nel 2020/21.

Quella che si profilava come una stagione sportivamente redditizia per le squadre di Mosca, San Pietroburgo e Kazan è cambiata radicalmente a febbraio, dopo l’invasione russa in Ucraina. Tra gli enti sportivi che hanno agito prontamente, escludendo dal suo organico le rappresentanti della Russia, c’è stata anche Euroleague, che non si è fatta particolari remore a sospendere a stagione in corso tre squadre che stavano viaggiando a ritmo da Playoff (erano tutte e tre tra le prime otto). Ma se per UNICS e Zenit la guerra tra Russia e Ucraina ha sostanzialmente messo la parola fine su qualsiasi speranza di poter entrare a far parte della competizione in pianta stabile, l’offensiva bellica non ha cambiato lo status del CSKA all’interno dell’organizzazione.

Quasi quattro anni sono passati dal febbraio 2022, e il CSKA Mosca continua a essere azionista della competizione. A percepire i (pochi, ma reali) dividendi, ad avere diritto di voto, a partecipare alle riunioni, a dire la sua tramite il suo vocalissimo presidente, Andrey Vatutin. C’era Vatutin e c’era il CSKA nelle prime riunioni negli Emirati Arabi Uniti che hanno portato all’ingresso di Dubai nella competizione e alla Final Four 2025 - la prima di una lunga serie? - ad Abu Dhabi, c’è anche il voto del club russo per la conferma di Motiejūnas alla guida della competizione, c’era anche Vatutin quando si è discusso del possibile ingresso di BC Partners nell’organizzazione di Euroleague, con un’offerta - stando ai rumor - di 300 milioni di euro per il 30%, mai realmente votata dai club e poi ritirata dal fondo d’investimento. Il CSKA, insomma, ha un ruolo nell'organizzazione di Euroleague, anche se l’ultima partita giocata dai moscoviti nella competizione risale all’11 febbraio 2022, curiosamente sul campo di un’altra squadra diventata “oggetto di un contendere” negli ultimi anni, il Maccabi Tel Aviv.

Una partita abbastanza surreale, a ripensarci oggi.

Altra licenziataria, altra proprietaria della competizione, altra squadra per cui c’è un prima e un dopo. In questo caso la data è il 7 ottobre 2023, il giorno dell’Operazione Diluvio al-Aqṣā, l’attacco di Hamas a Israele. Una data giunta - in termini sportivi - poco più di 24 ore dopo la prima giornata dell’Eurolega 2023/24, che per un Maccabi reduce dalla seconda partecipazione consecutiva ai Playoff nella new era (e da una Final Four sfiorata perdendo a Gara-5 contro il Monaco) equivaleva a un brillante successo sul Partizan Belgrado di Želimir Obradović. Una partita che al momento della stesura di questo articolo rappresenta l’ultima giocata a Tel Aviv, davanti a un pubblico “normale”.

Negli ultimi due anni, infatti, il Maccabi ha trovato asilo sportivo principalmente in quel di Belgrado, risentendo della situazione alla lunga non soltanto dal punto di vista agonistico - dopo il 7° posto del 2023/24, la stagione successiva si è chiusa con un record di 11-23 valevole il 16° posto, e il 2025/26 è iniziato con due vittorie nelle prime 10 partite - ma anche organizzativo, come evidenziato dai frequenti movimenti di mercato a stagione in corso, anche dovuti a giocatori fuggiti da un contesto instabile, con continue trasferte e poche certezze.

Le difficoltà (anche sul fronte nazionale) del Maccabi hanno portato al progressivo emergere, a realtà di alto livello continentale, dell’altra squadra di Tel Aviv, l’Hapoel. Nonostante l’ultimo dei cinque titoli nazionali risalga al 1969, nello spazio di cinque stagioni l’Hapoel è passato da comparsa delle competizioni europee - contando un paio di partecipazioni ai preliminari della Basketball Champions League - a solida realtà di Eurocup, arrivando infine a conquistare il titolo (e il pass diretto per Euroleague) nella passata edizione.

Potendo contare, grazie a un potente proprietario (l’imprenditore Ofer Yannay, particolarmente attivo a livello social), su un budget progressivamente moltiplicato negli anni che ha permesso di attrarre allenatori (Dimitris Itoudis) e giocatori di rango - come gli ex NBA Patrick Beverley, Bruno Caboclo, Johnathan Motley e Vasilije Micić - l’Hapoel ha preso di petto la stagione da debuttante in Eurolega, brillando nelle prime giornate e candidandosi da subito a contender per il titolo, in un’edizione dalle mille incognite come quella a 20 squadre.

Una scalata che ha comportato anche una situazione finanziaria tutt’altro che rosea - si parla di un passivo di bilancio di 12 milioni di dollari, da coprire tramite crowdfunding - che non ha impedito, però, di vincere la corsa a un ex MVP come Micić, indubbiamente il colpo del mercato estivo in Europa. Una situazione, questa da corsa all’oro, resa necessaria anche dal fatto che l’Hapoel deve vincere (raggiungendo almeno i Playoff) per garantirsi un posto anche nella prossima Eurolega, non essendo una squadra in possesso di licenza fissa o pluriennale.

Anche l’Hapoel, come i cugini del Maccabi, gioca da oltre due anni in perenne trasferta, trovando ospitalità in Bulgaria per quanto riguarda le partite casalinghe nelle competizioni europee, con una quantità alquanto limitata di pubblico. La crescente situazione di tensione degli ultimi mesi attorno alle squadre israeliane ha portato a un sempre più frequente spostamento in campo neutro anche delle partite in trasferta di Maccabi e Hapoel. A tutto metà novembre (quindi con almeno 11 turni disputati), entrambe hanno sfidato le due turche fuori dalla Turchia (l’Efes in Montenegro e il Fenerbahce in Germania), con l’Hapoel che ha giocato anche contro Dubai a Sarajevo - evitando, così, la lunga trasferta negli Emirati - e a Valencia senza spettatori. Il tutto, sempre, per motivi di sicurezza e per anestetizzare all’origine qualsiasi rischio di proteste.

Una situazione che ha chiaramente inciso dal punto di vista sportivo su questo inizio di stagione, pensando per esempio a come l’Hapoel abbia vinto tre delle quattro partite giocate (Efes, Dubai e Valencia) in situazioni anomale, costruendo anche su queste vittorie la sua eccellente classifica. Tale posizionamento andrà poi verificato nel corso dei prossimi mesi, per un’annata che rappresenta in ogni caso un prima e dopo per tutta la competizione, al di là dei temi del campo e dell’extra-parquet. Del domani non v’è certezza in primo luogo per le stesse squadre, a partire dal format: la prossima Eurolega potrebbe non essere più a 20 squadre, ma aumentare a 24 - come ventilato a inizio stagione pure da Ettore Messina - ma anche diminuire drasticamente, in caso di nuove “fughe” da una competizione dalla quale, in realtà, non è semplicissimo uscire.

Detto delle russe e delle israeliane, nel primo decennio della new era abbiamo assistito ad altre situazioni di tensione. Spiccano quelle legate alle due squadre greche: prima l’Olympiacos, mantenuto nella competizione nonostante una retrocessione in A2 a tavolino in patria, come apice delle schermaglie con il Panathinaikos; poi lo stesso Pana, con un crescendo quasi rossiniano della dialettica del proprietario Dimitris Giannakopoulos prima del ritorno ad alto livello sotto la gestione Ataman. Le due rappresentanti greche hanno barcollato, in questi dieci anni, ma non sono mai uscite dal giro come non l’ha fatto finora nessuna delle fondatrici originarie. A oggi l’addio più rumoroso è quindi quello dell’Alba Berlino, che dopo essersi sempre legata a competizioni di stampo ECA per oltre 30 anni e avere beneficiato nelle ultime stagioni di licenze a breve termine (annate corrisposte a un rendimento continentale avaro di soddisfazioni) ha salutato per virare sulle competizioni FIBA, citando la sostenibilità economica come ragione principale di un contesto che chiede tanto - soprattutto in termini di spese da sostenere per avere una chance di competere - senza restituire davvero.

Nelle ultime settimane è emersa la possibilità di un altro possibile passo indietro, più rumoroso perché sarebbe il primo di una fondatrice (per quanto aggiunta): l’ASVEL Villeurbanne di Tony Parker, mai capace di raggiungere i Playoff dal ritorno in pianta stabile nella competizione - stagione 2019/20 - chiudendo al massimo al 14° posto con non più di 13 vittorie. Dopo i primi spifferi a ottobre di un addio della squadra per ragioni economiche e di sostenibilità, nonostante il poter contare su buona parte (12 su 19) delle sue partite nella nuovissima LDLC Arena, si parla di una possibile revoca della licenza perché le spese in stipendi sarebbero di poco inferiori a quelle stabilite dal sopracitato Competitive Balance Standards. La licenza potrebbe essere ceduta o assegnata altrove, ma è anche da definire a chi: pensando alle due alternative francesi, da un lato (Parigi) abbiamo una squadra attenzionata da NBA, dall’altro il Monaco è reduce da un divieto di nuovi tesseramenti di giocatori per violazione delle regole finanziarie.

Sono mesi tribolati, perché sono quelli che creano le premesse per la nuova prospettiva decennale - dopo che si era ventilata anche l’ipotesi di un rinnovo fino al 2040. Alla scorsa primavera soltanto sette squadre su 13 avevano già messo nero su bianco la firma fino al 2036, e non si sono registrati grossi passi avanti in questo senso nei mesi successivi. Tra le più scettiche ci sono i due più grandi brand multisport dell’Eurolega moderna (e storica), Real Madrid e Barcellona. Non casualmente le due squadre più “corteggiate” dalla NBA nelle sue mire espansionistiche, oltre che le ultime due - in ordine di tempo - ad avere ospitato una franchigia NBA per una partita di preseason: Oklahoma City per i blaugrana nel 2016, i Dallas Mavericks nel 2023 per i madrileni.

DAGLI USA ALL’EUROPA, PASSANDO PER L’AFRICA
La presenza in Europa della NBA non nasce di certo in epoca contemporanea, in una lega in cui quattro dei principali giocatori di riferimento - Antetokounmpo, Dončić, Jokić e Wembanyama - appartengono al Vecchio Continente per carta d’identità e formazione cestistica. Risale a oltre 40 anni fa la prima sfida tra franchigie americane giocata fuori dal Nord America (Suns e Nets a Milano), e tra McDonald’s Open e Global Games gli scorsi decenni sono stati ricchi di circostanze in cui anche gli appassionati europei hanno potuto respirare a pieni polmoni l’aria del basket NBA, seppur a livello di pre-season o stagione regolare.

Tale presenza è tornata a essere più sentita negli ultimi 20 anni, sotto la spinta di David Stern prima e Adam Silver poi. Negli anni ‘10 del XXI secolo alle partite di precampionato si sono aggiunte quelle stagione regolare, e dopo una presenza radicata a Londra a prendersi il palcoscenico è subentrata, con successo, Parigi. Negli scorsi mesi c’è stato un annuncio per certi versi epocale, con la NBA che ha ufficializzato le sedi europee del prossimo triennio di partite di regular season, tra il ritorno nella capitale britannica, la conferma di Parigi e le novità assolute rappresentate da Berlino e Manchester. Il tutto con all’orizzonte l’ombra di Madrid, che si dice particolarmente interessata ad accogliere la silhouette di Jerry West nel Santiago Bernabeu che ospiterà anche la partita inaugurale di EuroBasket 2029.

L’attuale record di pubblico per una competizione FIBA è di 38.115 spettatori alla Philippine Arena durante il Mondiale 2023.

Ad avere avuto meno trazione, prima dell’accelerata degli ultimi anni (e mesi), sono stati i discorsi relativi a un effettivo inglobamento dell’Europa in NBA. Franchigie basate oltre oceano, esistenti o da creare ex-novo, fino ad arrivare a una division interamente europea: sono diverse le ipotesi, spesso da fantabasket, che sono circolate nel corso degli anni senza mai trovare reale fondamento, e tale motivo va forse ricercato in una comprensione nemmeno piena di quello che è il contesto sportivo europeo. Sei anni fa Adam Silver si diceva «geloso» della relazione speciale che gli appassionati sportivi di tutta Europa hanno con le proprie squadre di calcio, e guardando all’evoluzione della NBA negli ultimi anni proprio il calcio ha avuto una funzione ispiratrice non indifferente.

Si è discusso a lungo di come la NBA Cup sia stata ispirata dai tornei calcistici europei come la FA Cup, e a lungo in Italia si è discusso di un Op-Ed del 2019 sul New York Times che affiancava due manifestazioni che si svolgono - nello stesso periodo dell’anno - come l’All Star Weekend NBA e le Final Eight di Coppa Italia, esaltando la seconda a discapito della prima. Questi sono due esempi di un’attenzione sempre maggiore dello sport USA - e in generale della lega più globale e cosmopolita tra i quattro major - verso le tendenze calcistiche europee, attenzione ben antecedente all’approdo in MLS di Lionel Messi.

Non è un caso, quindi, che proprio il calcio sia il riferimento principale del progetto di NBA Europe, dal formato della competizione - una lega con membri fissi e variabili che possono accedere tramite competizioni europee e nazionali, per una logica di base che assomiglia alla prima Euroleague della new era - ai potenziali investitori del progetto, con rumors ben informati che citano squadre della Premier League (Manchester City e Chelsea su tutte), della Ligue 1 (il PSG), della Serie A (le due milanesi), financo della Turchia (il Galatasaray) per arrivare a tre polisportive attive da anni nel basket di alto livello continentale: Bayern Monaco e, appunto, il duo formato da Real Madrid e Barcellona.

Dopo mesi di dichiarazioni un filo fumose da parte dei massimi vertici NBA - Adam Silver e Mark Tatum, il deputy commissioner da sempre molto attivo nelle relazioni internazionali - è toccato a George Aivazoglou, General Manager di NBA Europe, scendere più nei dettagli del progetto che ha l’ambizione di partire nel brevissimo periodo, potenzialmente già dalla stagione 2027/28. Al Football Business Forum organizzato in SDA Bocconi con la Gazzetta dello Sport, Aivazoglou ha per la prima volta messo nero su bianco la lista delle città da coinvolgere: Londra e Manchester per il Regno Unito, Parigi e Lione (ASVEL) per la Francia, Madrid e Barcellona per la Spagna, Milano e Roma per l’Italia, Berlino e Monaco per la Germania fino ad arrivare ad Atene (Grecia) e Istanbul (Turchia) per - come riportato dal quotidiano - “avere un equilibrio come valori e tradizione”, un contrappeso anche d’immagine per la presenza di realtà (come Londra, Manchester e la stessa Roma) oggi escluse dalla pallacanestro europea di alto livello.

Il conto è semplice, la somma delle città precedenti fa 12. Per arrivare a 16 il piano è quello di aggiungere - su base annuale, perché le 12 città sopracitate avranno un posto fisso - la vincitrice della Basketball Champions League organizzata da FIBA e (ed è questa una delle novità annunciate per la prima volta nelle scorse settimane da Aivazoglou) tre rappresentanti da altrettanti e non meglio precisati campionati europei, a ribadire l’importanza di una connessione con le leghe nazionali, venuta meno (alla distanza) nel progetto originario e progredito di Euroleague Basketball. Viene quindi da pensare a quanto questo possa essere un salto nel vuoto di NBA, l’idea di imbarcarsi in un progetto così ambizioso per massimizzare un potenziale - economico e sportivo - mai del tutto esplorato dalla stessa Euroleague negli ultimi 25 anni.

Il progetto di NBA Europe si inserisce in continuità a quanto sviluppato negli ultimi cinque anni da NBA (e FIBA) in Africa con la Basketball Africa League, fondata nel 2019 e lanciata due anni dopo - a causa del Covid-19 - come la principale lega continentale africana di basket per club. Con una rosa di investitori che vede la presenza di diversi ex giocatori NBA e di Barack Obama, nei suoi primi cinque anni di attività la BAL ha visto prevalere cinque squadre differenti da quattro paesi (Egitto, Libia, Tunisia e Angola) consolidandosi a livello sportivo ed economico. La struttura della competizione si è progressivamente allargata, anno dopo anno, con la creazione di conference regionali qualificanti a una fase finale sempre organizzata - con l’eccezione del 2025 - in Rwanda.

I primi cinque anni della BAL sono stati l’oggetto di un documentario presentato in anteprima nella scorsa edizione del Toronto International Film Festival.

L’esperienza maturata nella co-gestione della BAL ha sicuramente ricoperto un ruolo importante nello spingere NBA (e FIBA) a provare lo step successivo, replicare un prodotto simile in un continente molto più complesso, più conservatore in quanto ad abitudini sportive e in generale con un sistema di competizioni molto più radicate nel tempo. Credo sia sbagliato, però, vedere l’appeal del brand NBA (e il conseguente elevato valore economico) come l’unica chiave attrattiva per spingere i club europei a far parte di un progetto simile. Un punto sottovalutato del progressivo deteriorarsi del progetto Euroleague sta nell’incapacità - manifestatasi come tale - dei principali club europei di autogovernarsi, di pensare come un tutt'uno. L’entrata in gioco di un’entità esterna come NBA, dalla comprovata capacità imprenditoriale, potrebbe rivelarsi una carta vincente.

Dopo cinque anni di successo, in continua espansione, una lega partita da zero come BAL guarda al futuro con rinnovato ottimismo e ambizione. Da una competizione ad accesso via campionati - con alcune leghe e squadre invitate a saltare alcuni turni di qualificazione, ma nessuna qualificata direttamente alla fase finale a 12 - l’obiettivo è quello di passare a una franchise league negli anni a venire. Secondo quanto riportato da Marc J. Spears, a ogni franchigia verrebbe richiesto un investimento iniziale di 50 milioni di dollari (per quanto riguarda NBA Europe si parla di una cifra tra le 5 e le 6 volte superiore) e un piano di costruzione di infrastrutture sportive all'avanguardia. Resterebbe - ma soltanto per due squadre - un accesso tramite i campionati o comunque dei tornei di qualificazione. Spears segnala l’esempio dei Nairobi City Thunder, che hanno partecipato alla BAL per la prima volta nel 2025 ma hanno già annunciato piani per un’arena indoor nella capitale keniota tra i 5000 e i 7500 posti a sedere.

GLI ERRORI E LE CORREZIONI IN CORSA DI FIBA
Abbiamo visto in apertura di questo articolo come la capacità di controllo della federazione internazionale - FIBA - sul basket europeo per club sia effettivamente venuta meno con l’inizio del terzo millennio. Immaginare dieci anni fa questo presente, con FIBA tornata in grande auge nell’organizzazione dell’attività dei club europei tanto da essere un player principale delle mire espansionistiche NBA, sarebbe stato impossibile. Questo perché dal braccio di ferro con Euroleague, che ha portato alla scissione del 2016, la federazione internazionale era uscita con le ossa abbastanza rotte, non potendo contare - all’interno delle proprie competizioni continentali - su tanti dei club più ricchi e importanti, pressoché tutti quelli che avevano contraddistinto la storia dello stesso basket europeo fino a quel momento.

Come risposta la FIBA è stata costretta a lanciare quasi da zero una sua competizione di punta in Europa con l’aspirazione di rivaleggiare con Eurolega ed Eurocup. La risposta a questa necessità si è chiamata Basketball Champions League. Con un nome scelto per evocare immediatamente il parallelo calcistico, l’ambizione di FIBA con la BCL era quella di dare vita a una competizione di alto livello capace veramente di premiare il merito sportivo, condizione essenziale per partecipare. Non potendo contare sui top club, l’obiettivo era inizialmente quello di coinvolgere il maggior numero di paesi possibili: la stagione inaugurale di BCL vide la partecipazione di 52 squadre (di cui 32 nella regular season) da 30 leghe nazionali diverse, numero di gran lunga superiore ai nove campionati rappresentati nell’Eurolega 2016/17. La pressione esercitata - tramite Uleb e federazioni nazionali - portò al coinvolgimento in BCL di alcuni club originariamente previsti in Eurocup (AEK Atene, Dinamo Sassari, Partizan Belgrado e Stelmet Zielona Góra) ma nessun “gran rifiuto” da parte delle big originariamente inseguite da FIBA.

Di stagione in stagione Basketball Champions League è cresciuta gradualmente, rendendosi attrattiva per il formato della competizione - più sostenibile come quantità di partite - e anche per un montepremi in grado di garantire un milione di euro alla squadra vincitrice, cifra decisamente impattante a livello di budget annuo e assolutamente competitiva con i premi sportivi garantiti da Eurolega. Considerata la stagione in corso, sono 122 le squadre - da 30 paesi diversi - che hanno giocato almeno una partita della Regular Season di Basketball Champions League (l’Italia è il secondo paese più rappresentato con 13, dietro alla sola Turchia con 14). In questi 10 anni sono state diverse le prove di maturità superate in un mondo in costante evoluzione, che tanto dicono di come a FIBA sia convenuto creare una competizione da zero.

È difficile non partire, sotto il profilo sportivo, dalla relazione di FIBA e BCL con la ACB, il campionato spagnolo. Dalla sola Tenerife, partecipante all’annata inaugurale viste le diverse squadre iberiche coinvolte tra Eurolega (tre, le fondatrici) ed Eurocup (ben sei, tra cui le finaliste di quell’edizione Malaga e Valencia), si è arrivati a una situazione in cui la Season X di BCL ha visto al via quattro squadre in stagione regolare - Tenerife, Malaga, Gran Canaria e Badalona - e una, Murcia, al preliminare. La maggiore attrattività in questo caso risiede proprio nel fatto che le tre squadre che si sono aggiunte a Tenerife in questa regular season sono state a lungo coinvolte nelle competizioni ECA. Malaga (che della BCL ha vinto le ultime due edizioni) è stata la prima a sganciarsi da questa sfera d’influenza, seguita poi da Badalona e Gran Canaria.

Il caso di Gran Canaria è particolarmente interessante: conquistato sul campo il diritto a partecipare all’Eurolega 2023/24 come vincitrice di Eurocup, la squadra canarina ha optato per rinunciare, in virtù dell’insostenibilità economica e organizzativa derivante da una stagione così logorante. Memore, peraltro, delle difficoltà vissute nell’Eurolega 2018/19, stagione che per Gran Canaria finì malissimo a livello europeo (1-14 nel girone di ritorno) rischiando addirittura la retrocessione dalla ACB.

L’espansione dei mercati da coinvolgere ha permesso la scoperta di nuove storie cestistiche e di nuovi personaggi: se la stessa Malaga - ma pure Tenerife - ha sfruttato i successi raggiunti in campo europeo per riproporsi come contender credibile di Real Madrid e Barcellona in Spagna, la Basketball Champions League è stata anche il palcoscenico su cui si sono intraviste per la prima volta in campo internazionale le qualità di Tuomas Iisalo, che dal titolo stravinto nel 2023 con Bonn ha spiccato il volo arrivando in NBA, passando per la brillante esperienza in Eurocup con Parigi. In un contesto come quello del basket europeo, dove ogni storia di successo è destinata prima o poi a interrompersi con un salto verso l’America, essere in grado di generare storie e protagonisti nuovi a cadenza continua si rivela fondamentale per attrarre l’attenzione di spettatori casuali, andando oltre il seguito naturalmente prodotto dalle tifoserie a sostegno delle squadre partecipanti.

Puntando su una copertura mediatica versatile e al passo coi tempi, con una presenza digital capace di coniugare una postura pop e uno sguardo analitico, Basketball Champions League si è sempre rivelata pronta sia a sapere sfruttare i momenti positivi che ad assimilare errori e passaggi a vuoto, come la poco partecipata Final Four 2024 a Belgrado. La creazione di un brand forte come BCL ha portato FIBA a replicare l’esperimento anche negli altri continenti: di qui la creazione della versione Americas (con la partecipazione di squadre non solo sudamericane, ma anche dal centro o dal Canada) nel 2019 e Asia nel 2024. Una conseguenza di tutto ciò sta anche nella maggiore credibilità data alla Coppa Intercontinentale, divenuto nel 2023 un torneo a sei squadre che coinvolge anche una squadra dalla G-League (nelle ultime due edizioni si è trattato della squadra United, di fatto una rappresentativa dei migliori giocatori della lega) che si svolge a Singapore.

L’evoluzione di FIBA nella capacità di gestire e organizzare competizioni continentali per club è andata di pari passo all’emergere di un nuovo management dopo la prematura scomparsa di Baumann. Guidata dal 2018 dall’avvocato greco Andreas Zagklis, la federazione internazionale ha “ammorbidito” progressivamente la sua postura nei confronti di Euroleague Basketball, non rinunciando ai suoi capisaldi - il Mondiale 2027 sarà il terzo consecutivo a svolgersi con le qualificazioni tenute nel corso delle stagioni per club - ma rendendosi disponibile ad adottare compromessi, come l’accorpamento delle finestre internazionali per trovare un punto d’incontro col calendario di Euroleague. L’allargamento a 20 squadre di Eurolega ha reso impossibile anche nella stagione 2025/26 lo svolgimento di una finestra FIBA con le competizioni di Euroleague completamente ferme (ma vi sono stati degli accorgimenti in termini di turni anticipati e posticipati), ma le interazioni tra le parti sono completamente diverse rispetto a dieci anni fa. E non è impossibile immaginare come questa postura negoziale possa essersi rivelata vincente nel saltare a bordo con NBA per quello che può essere il lancio di NBA Europe.

Un primo (e forse sottovalutato) punto di disgelo tra Euroleague e FIBA si può rintracciare ai primi mesi del 2020, prima dello scoppio della pandemia. Destò scalpore la scelta della Virtus Bologna di passare dalla vittoria di Champions League direttamente alle competizioni ECA - ad oggi è un unicum in questo decennio e in entrambe le direzioni - ma nonostante questo Bologna fu regolarmente invitata a disputare la Coppa Intercontinentale, persa contro Tenerife in un remake della Finale andata in scena sette mesi prima ad Anversa.

IL FUTURO È ADESSO
Anche se l’orizzonte di ottobre 2027 può apparire lontano, i veri mesi caldi per il futuro del basket europeo sono questi, esattamente come dieci anni fa lo snodo principale si ebbe in particolare anticipo rispetto al via della stagione 2016/17. E diverse sono le considerazioni da fare a carte coperte, da parte delle tre parti in causa nel concorrere a disegnare il futuro del basket europeo. Sappiamo che questi sono gli ultimi mesi di validità delle licenze decennali firmate dalle squadre fondatrici della new era di Euroleague, e sappiamo che - tra diverse fatiche, e senza ancora un title sponsor per la competizione - l’accordo con IMG è stato effettivamente rinnovato. Non conosciamo con precisione, però, l’identità di chi ha già firmato il rinnovo e chi resta ancora alla finestra, e per questo non ha destato particolare scalpore la possibilità che la prossima Basketball Champions League potrebbe vedere la partecipazione di Real Madrid e Barcellona, “parcheggiate” in area FIBA in attesa della partenza di NBA Europe.

Sappiamo della postura negoziale delle tre parti: col passare delle settimane NBA si è mostrata più autoritaria e sicura, forte di un’alleanza con FIBA che appare davvero solida e soprattutto meno reagente alle continue proposte di dialogo di Euroleague, che adotta una posizione dialogante sì - fino a un certo punto, con Motiejūnas che nelle ultime interviste ha più volte ribadito la non necessità di una nuova competizione - ma da una posizione che tende a percepirsi più solida di quello che in realtà è, come se fossimo in presenza di una competizione in florida salute e non con grosse lacune a livello organizzativo e gestionale. Se Euroleague Basketball ha assoluta ragione a rivendicare più di un posto al tavolo, in virtù del valore effettivamente generato nei suoi primi 25 anni di esistenza, non può nemmeno ignorare che l’arrivo di NBA con tale potenza si deve a un mercato con potenzialità da sfruttare perché mai del tutto esplorato da chi ha gestito il palcoscenico in questo quarto di secolo.

Quanto fatto da NBA in Africa - anche se rimangono degli interrogativi, tra cui la scelta di legarsi a doppio filo con un Rwanda su cui resta sempre viva l’ombra dello sportwashing - rappresenta sicuramente un precedente su cui costruire per Silver, Tatum e Aivazoglou e la storia di Euroleague (con i suoi punti di forza e di debolezza) dimostra come debba essere fondamentale dotare una nuova lega di un management forte e in grado di prendere scelte decise. L’espansione di NBA tra gli anni ‘80 e ‘90 è arrivata anche grazie alle qualità di leadership di David Stern, mentre buona parte del successo della BAL si deve anche alle qualità del suo commissioner, il senegalese Amadou Gallo Fall, già vicepresidente della NBA. In un sistema, come quello europeo, dominato da rivalità fortissime (quasi tribali) tra nazioni - e tra squadre dello stesso paese - identificare figure autoritarie e dialoganti, capaci di vendere un reale bene collettivo e comune non sarà facile.

Proprio la tribalità delle rivalità europee rappresenta - a parere di chi scrive, quantomeno - una delle ragioni per cui NBA si sia orientata su alcuni paesi e mercati in questa fase iniziale della sua espansione europea. I puristi della pallacanestro continentale hanno certamente storto il naso per l’assenza, tra le città considerate per questa nuova competizione, di posti come Belgrado, Kaunas, le stesse Istanbul e Atene - poi confermate da Aivazoglou in un secondo momento, anche se delle quattro realtà di Euroleague il solo Panathinaikos potrebbe trovare posto in NBA Europe, stando ai rumors - senza addentrarci nel ginepraio rappresentato dai fronti legati a Russia e Israele, casa di squadre come CSKA Mosca e Maccabi Tel Aviv che hanno fatto la storia di questo sport in Europa.

Magari non è necessariamente un tema economico - se Partizan e Stella Rossa hanno mostrato più di qualche fragilità negli scorsi anni, dall’altra parte lo Zalgiris è un modello di sostenibilità e crescita organica sotto questo punto di vista - o di bacino d’utenza, dato che parliamo di squadre che giocano in impianti modello NBA costantemente pieni di spettatori, quando di “essere pronti” a fare un salto in avanti, a ragionare in termini diversi verso un prodotto non solo sportivo, ma con una forte vocazione imprenditoriale. I cinque paesi - Germania, Italia, Spagna, Francia e Regno Unito - che dovrebbero avere due squadre ciascuna in NBA Europe non sono soltanto rappresentanti di paesi del G7 o del G20, non sono soltanto paesi dell’Europa Occidentale e di stampo prettamente atlantista. Ma sono anche questo, e sarebbe ipocrita negarlo.

Partire da loro sembra quasi naturale quando ci si pone dal punto di vista di NBA, ma la porta - tra i quattro posti “rotanti” e lo spazio per una futura espansione del progetto che può anche essere parecchio rapida, pensando agli esempi di BAL e di BCL - non è detto che rimanga necessariamente chiusa ad altre parti del continente europeo, a patto che il rivendicare un posto non avvenga soltanto in termini di diritto dovuto per tradizione. Da parte di NBA non è da sottovalutare come la lega amministrata da Adam Silver abbia delle carte ancora coperte: una è stata ventilata da Aivazoglou, ovvero la creazione di competizioni che possono vedere la contemporanea partecipazione di franchigie NBA ed europee, un’altra - speculando - potrebbe portare a una maggiore permanenza nel continente dei migliori talenti europei, data l’intercambiabilità (aspirata) tra NBA originale e la sua divisione europea.

A rimetterci, in questo risiko generale, possono essere soprattutto gli appassionati, che in Europa sono più fan delle squadre che di una lega o di determinati giocatori. E in questo senso che si pone una sfida tutt’altro che semplice per chi punta a dominare la scena del basket europeo, che sia un attore esistente o emergente: la capacità di coinvolgere appassionati estranei alle tifoserie delle singole squadre partecipanti, di generare interesse in chi ama lo sport ma non ha il coinvolgimento emotivo dettato dal tifo. Il tutto in un periodo storico in cui la conversazione su come mantenere alta l’attenzione degli spettatori è continua per quanto questo sia un obiettivo difficile da raggiungere.

Centralizzare la visione dei diversi campionati, rendendoli più facilmente accessibili, è una delle richieste maggiori da parte degli utenti e in questo senso quanto annunciato da NBA all’inizio della stagione è sicuramente interessante.

Come ci sono dei punti in comune tra quanto si proponeva di fare Euroleague Basketball dieci anni fa e quanto ambisce a fare NBA oggi, ci sono delle differenze. La volontà di mettere al centro il legame con i campionati nazionali - in un’intervista al Corriere dello Sport, il presidente FIP Gianni Petrucci ha sottolineato come le franchigie NBA Europe si impegneranno a partecipare anche ai rispettivi campionati nazionali - riconoscendo l’importanza di questi nel rapporto che gli appassionati europei hanno con lo sport, a differenza di quanto fatto da progetti come la Superlega nel 2021, non sembra essere soltanto una captatio benevolentiae quanto una reale comprensione delle radicali differenze nel modo di fruire lo sport tra i paesi anglosassoni e quelli latini.

Va da sé che il coinvolgimento dei tifosi radicati è un’altra sfida da vincere, poiché la linea di credito che questi possono essere disposti a garantire a un progetto - nuovo o rinnovato - non è infinita e inesauribile. Non è sorprendente, con tutti questi dubbi e domande a cui abbiamo provato a rispondere nel delineare la situazione esistente e come siamo arrivati a questo punto, vedere come la pallacanestro europea sia in costante cerca d’autore, come in un dramma pirandelliano. Capace allo stesso tempo di essere innovativa, avanguardista ma anche irrisolta e lacunosa, in costante penombra rispetto a un agente dominante e superiore (come NBA) ma in grado di sapersi ritagliare un ruolo importante nella storia generale, e non soltanto come produttrice di atleti fenomenali. Il futuro è pieno di incertezze ma è naturale sia così per un personaggio in cerca d’autore, poiché il reale non segue mai un corso lineare. Specialmente in un contesto comunque sempre capace di rinnovarsi e reinventarsi.

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