
“Un nuovo capitolo per il mondo del ciclismo”. David Lappartient, presidente dell’UCI, ha inaugurato così i Road World Championships 2025 di Kigali. Un Mondiale inedito, controverso e spettacolare, per la scenografia, per le trame sportive e per tutto quello che è rimasto - non senza ingombri - dietro le quinte. È stato il primo di sempre in Africa, dopo più di un secolo di storia dell’evento, e si è corso su un tracciato di rara durezza e in un contesto atmosferico ai limiti del proibitivo. D’altra parte, nonostante le tante incognite, ha dato ragione a chi sosteneva alla vigilia che il Mondiale è un evento sportivo piuttosto semplice: si parte in un esercito, e alla fine vincono Remco Evenepoel a cronometro e Tadej Pogačar in linea. A cui potremmo aggiungere, con un po’ di orgoglio e di speranze per il domani, l'italiano Lorenzo Finn.
Ma partiamo dall’inizio, o meglio da tutto quello che è successo e si è detto prima che la competizione sbarcasse effettivamente in Rwanda. Un paese ancora lontano dallo smaltire il trauma intergenerazionale del genocidio degli anni ‘90, ma che oggi è guardato da una buona parte del mondo con occhio critico e giudizi severi. Standard democratici, diritti umani, crimini di guerra e attriti diplomatici hanno trascinato infatti Kigali 2025 sotto all’ormai arcinoto ombrello dello sportwashing, che nell’ultimo decennio ha invaso la narrativa del mondo sportivo, senza eccezioni per il ciclismo. D’altronde si tratta di un universo che ospita squadre con le bandiere di Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Kazakistan in bella mostra, e che nel caso dell’UCI ha fatto visita a Doha nel 2016 e si avvicina ad Abu Dhabi 2028.
Nel frattempo, Kigali. Una rassegna che è sembrata in bilico fino a pochi mesi fa, e che per raggiungere il Rwanda ha dovuto resistere a tantissimi attacchi dalla sfera sportiva, mediatica e politica. «Ma in ogni paese al mondo si possono individuare aspetti in cui potrebbero essere migliori», rispondeva Lappartient di fronte al fiume di critiche rovesciate sull’UCI dopo l’assegnazione. «Ma guardando dov’era il Rwanda qualche decennio fa e dov’è oggi, è fantastico», aggiungeva, rimediando parzialmente alla prima, discutibile argomentazione.
D’altra parte, è stato un Mondiale che ha abbattuto tante barriere e creato nuove occasioni. Per atlete, atleti e federazioni del continente africano, storicamente ai margini. Per le giovani cicliste che finalmente hanno una categoria, under 23, in cui fare esperienza su questo palcoscenico prima del salto verso l’élite. Per un paese che punta con decisione sullo sport per trovare una propria dimensione economica ed emanciparsi dagli aiuti internazionali. Per chi scrive queste righe e per i tanti addetti ai lavori giunti a Kigali, che non avevano mai avuto modo di venire quaggiù. E non ultimo, per una città e per tutte le persone che la abitano, che hanno vissuto una settimana di festa e colorato l’evento in modo indimenticabile. Per la prima volta i ruandesi sono stati sotto i riflettori senza catastrofi umanitarie in corso. O almeno, non all’interno dei propri confini.
DETRATTORI
L’opposizione a Kigali 2025, come detto, ha unito detrattori di diversa estrazione. C’è chi ha impugnato ragioni politiche e sociali, chi questioni logistiche e di costi, e infine chi - con un po’ di superficialità - ha buttato nel calderone pure argomentazioni tecnologiche (GPS), di salute e prevenzione (vaccinazioni). Se le ultime si sono mostrate presto infondate, le precedenti hanno generato un dibattito profondo e complesso, che ha tenuto banco dal giorno dell’assegnazione (2021) al weekend scorso. Un dibattito che ha punti di contatto con tanti altri contesti ed eventi sportivi.

Foto di Shalom Hozabarira.
Le critiche più feroci sono dovute alla crisi nella vicina Repubblica Democratica del Congo, dilaniata da tre decenni abbondanti da “una delle più lunghe, complesse e sanguinose crisi umanitarie della storia contemporanea”, come si legge in un recente rapporto delle Nazioni Unite. Un dramma apparentemente senza fine che proprio nel 2025 è tornato sui notiziari di tutto il mondo per le violenze perpetrate dal gruppo armato M23, “controllato e finanziato dal governo ruandese”, sempre secondo le Nazioni Unite. L’Unione Europea, insieme a svariati governi e osservatori internazionali, ha evidenziato nei mesi scorsi “prove schiaccianti” di tale collaborazione, ritenendo Kigali responsabile di un conflitto che ha causato migliaia di vittime e milioni di sfollati interni.
Le violenze nella regione del Lake Kivu, al confine tra RDC e Rwanda, affondano le radici nei noti e tragici fatti che hanno investito Kigali negli ultimi anni dello scorso millennio. Ovvero nelle tensioni tra le etnie tutsi e hutu, con le milizie armate di questi ultimi protagoniste del genocidio ruandese del 1994, in cui circa 800.000 membri della comunità tutsi furono sterminati in meno di quattro mesi. Secondo Paul Kagame, ai tempi leader della milizia tutsi che pose fine al genocidio, e da allora ininterrottamente alla guida del governo ruandese, la crisi congolese non è altro che il riflesso di quei giorni.
Dopo aver scacciato dal paese i mandanti delle atrocità nei decenni le Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (FDLR) - la “milizia genocida” hutu, come definita a più riprese dallo stesso Kagame - si è ricostituita nel territorio della RDC, con l’accusa al governo di Kinshasa di averne favorito la rinascita. “L’FDLR vuole tornare in Rwanda per finire il lavoro”, ha affermato qualche mese fa Yolande Makolo, portavoce di Kagame, per cui l’esistenza del gruppo è una “minaccia costante per la pace” a Kigali. In quest’ottica si inseriscono le ripetute invasioni delle truppe ruandesi in terra congolese; in passato esplicite, e ora collaborando con l’M23, gruppo composto da tutsi che era stato smantellato nello scorso decennio, prima di riarmarsi a partire dal 2021 e rendersi protagonista proprio in questi mesi di una lunga serie di violenze nei dintorni di Goma, Rubaya e Bukavu, sulle sponde occidentali del Kivu.
Dall’altra parte, il governo congolese accusa Kigali di appoggiare l’M23 per mere ragioni economiche, secondo logiche di ”saccheggio delle risorse naturali”. Il teatro di queste violenze è una regione particolarmente ricca di minerali, con un sottosuolo ancora non sfruttato dal valore stimato intorno ai 20-25mila miliardi di dollari. In particolare il coltan (utilizzato per la produzione di smartphone, fotocamere e componenti per automobili), di cui negli ultimi mesi sono state registrate spedizioni verso il Rwanda di centinaia di tonnellate ogni mese. Si tratta insomma di un quadro complesso e di reciproche accuse, che coinvolge anche altri paesi (Burundi, Uganda, Mozambico) e che non si è affatto risolto con gli accordi firmati in estate a Washington e Doha.
Il dibattito ha riguardato da vicino il mondo del ciclismo. In particolare quando lo scorso febbraio, poco prima del Tour du Rwanda 2025, il team belga Soudal Quick-Step ha annunciato il ritiro dalla corsa, temendo per l’incolumità dei propri atleti nelle tappe vicine al confine congolese, e allargando inevitabilmente il discorso al Mondiale 2025. Alle pressioni di diverse delegazioni si è unita anche la richiesta formale dell’Unione Europea di traslocare l’evento in un luogo più sicuro, uno scenario che l’UCI non ha mai detto di essere disposta a considerare.
A queste argomentazioni si sommano quelle riguardo ai relativi standard democratici del governo di Paul Kagame, che nel 2024 è stato rieletto per l’ennesima volta, con il 99% dei voti a favore. Agenzie internazionali quali Freedom House, Amnesty e Human Rights Watch inquadrano il Rwanda come un paese “non libero”, denunciando forti restrizioni alla libertà di espressione, arresti arbitrari, silenziamento di oppositori politici, sparizioni sospette all’estero e svariate altre violazioni dei diritti umani. Come potrebbe confermare Victoire Ingabire, leader di un partito di opposizione arrestata per “aver formato un gruppo criminale”. Oppure Paul Rusesabagina, a cui viene globalmente riconosciuto lo sforzo nei mesi del genocidio per proteggere e nascondere tutsi e hutu moderati, ma che è stato catturato e detenuto a Kigali (in una storia da film), prima del dietrofront forzato da pressioni internazionali. O ancora, la morte in custodia dell’artista Kizito Mihigo nel 2020, su cui osservatori internazionali e organizzazioni no-profit chiedono ancora indagini indipendenti. Fino al caso di Stijn Vercruysse, giornalista sportivo belga (VRT) a cui due settimane fa è stato revocato il visto per il Rwanda a causa delle critiche al governo di Paul Kagame.

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IL CONFLITTO CON L'OCCIDENTE, I TANTI FORFAIT
Se il fondamento di tutte queste argomentazioni contro l’assegnazione del Mondiale al Rwanda è innegabile, sullo sfondo rimangono le solite domande sui double standard applicati spesso nel dibattito pubblico e mediatico occidentale. Soprattutto in questo momento storico in cui c'è un genocidio in corso e molti governi occidentali non sembrano preoccuparsene e anzi appoggiano le politiche israeliane.
Della stessa lunghezza d’onda le denunce di tante federazioni ciclistiche del vecchio continente per la lunghezza della trasferta a Kigali. Faticosa, spossante, certo. Ma per le delegazioni africane - che tendenzialmente hanno risorse inferiori - raggiungere Zurigo (2024), Glasgow (2023) o le Fiandre (2021) non lo era? E volare in Australia nel 2022, allora? Se la priorità sarà sempre la comodità delle rappresentative europee, a cosa è servito sbandierare nell’Agenda 2022 l’intenzione di sviluppare un ciclismo più inclusivo e democratico? Certo, nel caso corrente il tema dei costi include la speculazione delle strutture alberghiere denunciata, tra gli altri, da Roberto Amadio, team manager azzurro. Ma questo dovrebbe essere un argomento per mettere pressione (imbarazzo) all’UCI come organizzatore dell’evento, e quindi come entità incaricata di mediare tra le parti, piuttosto che per screditare la sede designata.
Cito questo dibattito perché ha contribuito ai tanti forfait e ai tagli annunciati dalle federazioni europee nelle settimane precedenti ai Mondiali. Chi per problemi fisici, chi per logiche di “spending review” (soprattutto nelle categorie giovanili e negli staff), chi per decisioni personali e chi, infine, per il percorso di Kigali. Un tracciato tra i più duri di sempre in sede iridata, disegnato per atleti ibridi se non per scalatori, piuttosto che per i classici specialisti delle gare di un giorno. E aperto a più africani di qualsiasi altra edizione, con 36 nazioni del continente - dove questo sport è in grande crescita nell’ultimo decennio - su 108 totali, ovviamente un record.

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MILLE COLLINE
Le immagini restituite dalle inquadrature televisive dei giorni scorsi sono state eloquenti riguardo la durezza del percorso. La distruzione fisica sulle rampe in pavé e i corpi stremati contro le transenne dopo la linea del traguardo erano lì, in mondovisione. Oppure le interviste a fine gara, per esempio di Federica Venturelli («sulla Côte de Kimihurura è stato uno dei chilometri più lunghi della mia vita») e Giorgio Ciccone («una delle giornate in bici più dure mai vissute, una sofferenza atroce»). Più ancora di tali testimonianze, però, sono i numeri a dare un’idea di come Kigali 2025 somigliasse più a una tappa di montagna di una corsa a tappe, che a una classica primaverile o un Mondiale.
Le gare in linea del weekend hanno messo le donne e gli uomini della categoria élite a dura prova, rispettivamente, su 164 chilometri e 3.350 metri di dislivello (undici giri del circuito cittadino), e 267 chilometri e 5.475 metri (quindici giri più un’estensione sul Mount Kigali nel mezzo). Della starting list maschile, composta da 166 nomi, sono arrivati al termine soltanto in 30, poco più del 18% (il dato più basso mai registrato) e con distacchi decisamente inconsueti per le abitudini iridate.
Se Kigali è chiamata “la città dei mille colli”, d’altronde, c’è un motivo. Il percorso interno si snodava tra le infinite salite e discese della capitale ruandese, inclusa la Côte de Kimihurura, cioè la salita ciottolata di quasi un chilometro e mezzo che portava al rettilineo finale, con pendenza media 5.6% e massima 11%. Se questa rampa era parte delle gare maschili e femminili per ogni categoria (juniores, under 23 ed élite), la più proibitiva si è vista soltanto nell’ultimo giorno: il Kigali Wall, o Mur de Kigali, un’ascesa all’inferno di mezzo chilometro circa, su un pavé non in perfette condizioni con l’11% di pendenza media. Anche le migliori gambe, qui, sembravano schiantarsi contro il punto più verticale (18%).
Il tutto, peraltro, con l’acido lattico ereditato dai precedenti otto giri del circuito, e con ancora un centinaio di chilometri all’arrivo. Ma non solo, anche con il mix di mancanza di ossigeno dovuta all’altitudine (1.700 metri sul livello del mare), caldo afoso e livelli di inquinamento nell’aria - a dispetto di quanto dichiarino le autorità municipali - tipici di una metropoli africana. Per gli esseri umani, insomma, un punto in cui tenere duro e aspettare semplicemente che finisca, per ricomporsi e dare tutto negli ultimi giri. Per Tadej Pogačar, l’occasione per scattare, sfilare il gruppo (escluso Isaac Del Toro, che dopo pochi chilometri però pagherà caro lo sforzo) e iniziare una rincorsa solitaria di due ore alla maglia arcobaleno.
Già da un paio d’ore prima, intorno a questa strettoia di Nyamirambo - un quartiere periferico a prevalenza musulmana, con tanto di spettatori sulle scale del minareto - hanno iniziato ad accalcarsi migliaia di spettatori. Per lo più locali ovviamente, ma con tanti internazionali - con le rispettive bandiere - infiltrati sul posto per godersi uno spettacolo sportivo e sensoriale unico. Io me lo gusto con qualche metro di spazio, appostato sul tetto di una casa che mi sono guadagnato con un sopralluogo nei giorni precedenti; avvolto da un rumore infernale, complici i tamburi presenti sul bordo della strada (una costante) e il boato del pubblico ad ogni transito (auto e moto incluse). Per chi era sul posto, il passaggio sul Mur è stato sicuramente il ricordo più indelebile della settimana, l'instant classic di Kigali 2025. Un’edizione che ha regalato un’infinità di momenti di fatica estrema degli atleti ed entusiasmo contagioso del pubblico, ma nessun concentrato così estremo di entrambe le sensazioni.
CONFERME
Alla fine, comunque, la gara regina della competizione non ha regalato grandi sorprese. Pogačar ha attaccato dove ci si aspettava e ha (stra)vinto, da favorito, la medaglia d’oro. Evenepoel è tornato sul circuito cittadino e ha imposto un ritmo infernale, che ha mandato tutti fuori giri (incluso Ciccone, sesto, che alla fine si rimprovererà di aver provato a stargli dietro, bruciando troppe energie) e ha spianato al belga la strada per il secondo gradino del podio. Per quanto rientrasse tutto negli scenari possibili, vale la pena fare un passo indietro e cogliere la straordinarietà dello show che Pogačar ha offerto ancora una volta. D’accordo, era già successo a Zurigo dodici mesi fa, ma scappare da solo a più di cento chilometri dall’arrivo e dare la sensazione di finire in relativa comodità è materiale da libri di storia. Gente come Del Toro, Ayuso e Pidcock, per fare qualche nome, è arrivata tra la settima e la decima posizione… con sette, otto, nove minuti di ritardo. Di cosa stiamo parlando? Unica risposta possibile: di un corridore arrivato da un altro pianeta.
Discorso simile per la gara di sette giorni prima, la cronometro. Dominata da Evenepoel, specialista assoluto e favorito della vigilia, nonostante l’ottimismo generale - forse eccessivo - per le chance di Pogačar (quinto) di un “bis” che avrebbe avuto del leggendario, e anche di più. La prestazione del belga è stata impressionante, coronata dal “sorpasso” al rivale sloveno sulla Côte de Kimihurura: una scena accolta dal tripudio del Convention Center, gremito di belgi (con bandiere che lasciano strane sensazioni da queste parti). Le tre dita che ha mostrato al traguardo, ricordando a tutti che per lui è un back-to-back-to-back, sono l’emblema della sua grandezza nelle gare internazionali, e per giunta ne raccontano soltanto una parte.
A proposito di grandi conferme, comunque, c’è stato il bronzo nella crono Under-23 di Federica Venturelli, che martedì scorso ha inaugurato il medagliere di Team Italia, come a Glasgow 2023. E qualche giorno più tardi, soprattutto, c’è stato il clamoroso repeat di Lorenzo Finn, che dopo aver dominato tra i giovanissimi a Zurigo, ha fatto terra bruciata anche al piano intermedio (under 23), nonostante fosse il più giovane alla griglia di partenza. La prestazione di Finn ha reso difficile per ogni tifoso italiano, di fronte a un talento del genere, stare coi piedi per terra. E ha costretto lo speaker del Convention Center a rincarare la dose di “mamma mia, mamma mia!” riservata a ogni maglia azzurra in transito, per tutta la settimana.
La cornice di pubblico e la partecipazione dei Kigalians, comunque, sono state costanti e vibranti per tutta la settimana. A prescindere dalla categoria e dal tipo di corsa, dal momento della gara, dal punto del percorso. D’altronde un evento del genere non passa tutti i giorni a queste latitudini, e una gara di ciclismo offre tanti dettagli interessanti da osservare e da cui lasciarsi incantare, anche al di là dell’aspetto prettamente agonistico. Anzi, forse i giorni di allenamento sono stati i più folkloristici in tal senso, regalando gioie irripetibili ai fotografi e scatti con binomi impossibili. Sui social si trovano tantissime foto con prodigi tecnologici e caschi aerodinamici da cronometro in primo piano, al fianco di bici con “icyansi” (bidoni di grande capienza usati per il latte), pacchi di qualsiasi dimensione, caschi di banane e matoke, o qualsiasi cosa vi venga in mente sul portapacchi. “Quel che ci ficchi, ci sta” cantava Paolo Conte, e da queste parti è più che mai vero. Oppure potreste vedere video di ragazzi del posto su biciclette sgangherate che sprintano spalla a spalla con i migliori del mondo, o magari che si scambiano il mezzo per qualche pedalata. Come ha detto Evenepoel, tra i tanti che ne hanno parlato, si è respirata un’atmosfera senza precedenti. E questo anche grazie a un’organizzazione impeccabile.
TITOLI DI CODA
Per una settimana Kigali si è fermata davvero. Non solo traffico chiuso nelle strade adiacenti al percorso, barriere e deviazioni: il governo ha chiesto la serrata di uffici e smart working ovunque possibile, ha chiuso scuole e università dal 20 al 29 settembre, ha pubblicato e condiviso via sms ogni giorno mappe e orari delle interdizioni, con percorsi alternativi e numeri utili. E la città ha risposto con una disciplina ammirevole. «Con le strade chiuse e il rispetto che le persone hanno per i ciclisti», ha raccontato Federica Venturelli, «ci siamo trovate subito bene. A ogni incrocio tutte le macchine e i motorini si fermano per farci passare, si vedeva l’organizzazione dietro l’evento e anche la voglia della gente del posto che tutto andasse per il meglio, oltre al rispetto per il nostro lavoro. Onestamente penso che andando in giro ad allenarci sulle strade italiane ci saremmo trovate più volte in pericolo che a Kigali».
Inseguendo i punti più interessanti del percorso, tra una strada chiusa e l’altra mi è capitato a volte di finire in labirinti di difficili soluzione. A posteriori, però, sono state delle occasioni per andare oltre le cartoline tv e attraversare aree che testimoniano la Kigali com’era, e quella che sta diventando. Ad esempio per raggiungere il Mur ho attraversato quartieri e sobborghi che somigliano a slums, senza strade asfaltate, dove il work in progress del governo è alla luce del sole. Nei dintorni del centro città l’abbattimento di vecchi edifici, le rilocazioni delle famiglie proprietarie (con incentivi economici che non tutti applaudono) e la riedificazione sono all’ordine del giorno. Nel mezzo, tra una collina e l’altra, vaste aree verdi costellate di gru e cantieri, di cui presto conosceremo il nuovo look.
L’edilizia, insomma, procede a ritmi incontrollabili, trainata da capitali esteri che stanno rendendo Kigali sempre più internazionale, aiutandola a lasciarsi alle spalle tante difficoltà, ma anche un po’ di identità. In occasione di eventi internazionali, diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato retate e detenzioni arbitrarie di persone considerate indesiderabili (senza fissa dimora, sex worker, “street children”). Uno dei tanti rovesci della medaglia della crescita di Kigali e del suo modo di presentarsi al mondo, parte delle grandi traiettorie disegnate dal “Vision 2050”. Ovvero il piano con cui il paese ha delineato - nell’edilizia, ma anche in tanti altri ambiti come sviluppo di infrastrutture turistiche, sanitarie, scolastiche e sportive - i propri orizzonti di crescita e di emancipazione dai capitali esteri.
L’ambizione, qui, si sposa con l’uso strategico dello sport, motivo per cui è riduttivo circoscrivere il discorso alla pulizia dell’immagine internazionale. Non si tratta solo di campagne come “Visit Rwanda”, la patch vista sulle maglie di Arsenal, Bayern Monaco e Paris Saint-Germain e che ha attirato giuste critiche da parte delle comunità di tifosi. Negli ultimi anni la capitale ha messo in fila eventi dal vivo come AfroBasket 2021, più edizioni della Basketball African League, il Congresso FIFA 2023 e il gala FIA 2024, fino al Mondiale di ciclismo 2025. Prove concrete, queste, di un posizionamento come hub per grandi competizioni, che già oggi pone il Rwanda al secondo posto in Africa, dietro soltanto al Sudafrica. E per i prossimi anni si parla apertamente di Formula 1, con la candidatura pronta sul tavolo e il progetto di un circuito vicino al nuovo aeroporto di Bugesera. Con la forte voglia di attrarre la grande velocità in Africa dopo più di trent’anni.
L’istantanea con cui cala il sipario su Kigali 2025, comunque, è la premiazione dopo l’ultima gara. Sul podio ci sono Pogačar, Evenepoel e Healy, e al loro fianco David Lappartient, Paul Kagame e il principe Alberto II di Monaco. Il boato più rumoroso non è per gli atleti, neanche lontanamente: è per il presidente. Un leader controverso e polarizzante, sostenuto dalla stragrande maggioranza della popolazione locale, molto criticato all’estero, ma anche apprezzato - ieri come oggi - da tanti capi del governo. Un “visionario” diceva Tony Blair, “uno dei più grandi dei nostri tempi” per Bill Clinton.
Salutato il carrozzone UCI, comunque, la capitale è tornata alla normalità. Le strade ieri sono tornate a riempirsi di giovani diretti a scuola e lavoratori, con tantissime tute arancioni e caschetti gialli, vicino ai cantieri che hanno ripreso la costruzione del domani. Per il Mondiale di ciclismo, invece, è tempo di guardare oltre. La prossima edizione sarà in Canada, mentre nel 2027 è in arrivo un percorso che si preannuncia ancora più selettivo di Kigali, sul circuito di Sallanches (Francia) e con la temibile Côte de Domancy da percorrere venti volte. Chissà se ci troveremo ancora a constatare, come nelle ultime due edizioni, che si parte in un esercito, e alla fine vincono Remco Evenepoel a cronometro e Tadej Pogačar in linea.