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I Boston Celtics vanno presi molto sul serio
24 mar 2022
Jayson Tatum e compagni sono di gran lunga la miglior squadra del 2022 in NBA.
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Fa strano pensare che poco più di tre mesi fa la domanda che tutti si facevano sui Boston Celtics non era su quante chance avessero di vincere il titolo NBA, quanto piuttosto se avesse davvero senso continuare a costruire attorno alla coppia formata da Jayson Tatum e Jaylen Brown. Una domanda che se posta di nuovo oggi, alla luce di quello che abbiamo visto nelle ultime 36 partite di regular season, verrebbe accolta come se stesse proponendo di scambiare alla pari Giannis Antetokounmpo per Aleksej Pokusevski.

Quello operato dai biancoverdi è una delle inversioni di rotta più incredibili a memoria recente, per di più operato nel bel mezzo della stagione. Il 7 gennaio sembravano aver toccato il punto di non ritorno della loro stagione perdendo una partita che non si poteva perdere al Madison Square Garden, facendosi rimontare 24 punti di vantaggio dai New York Knicks prendendone 41 in faccia dall’ex Evan Fournier con tanto di buzzer beater di RJ Barrett, sprofondando a un record di 18 vittorie e 21 sconfitte, buono solo per l’11° posto in classifica ad Est. Ma da lì in poi qualcosa è cambiato: i Celtics dopo quella batosta hanno subito restituito 24 punti di scarto ai Knicks due sere dopo in casa e complessivamente hanno vinto 28 delle ultime 36 partite, risalendo dall’undicesimo al secondo posto nella Eastern Conference (in coabitazione con Philadelphia e Milwaukee) a sole 1.5 gare di distanza dal primo occupato dai Miami Heat. E oggi come oggi non c’è nessuno che scommetterebbe contro di loro in una serie di playoff al meglio delle sette partite, trasformandosi da brutti anatroccoli a splendidi cigni apparentemente nel giro di una notte.

Una contender nascosta sotto i problemi

In realtà, già prima del 7 gennaio c’erano le avvisaglie per un possibile cambiamento di marcia dei biancoverdi. Il record di 18-21 era pesantemente influenzato dal pessimo rendimento nei finali di gara tirati, giocando ben 23 partite finite “in the clutch” e portandone a casa solamente 7, con un differenziale su 100 possessi di -7.6. Da lì in poi i Celtics non è che hanno migliorato il loro rendimento nei momenti decisivi delle partite (anzi, il loro Net Rating in quei frangenti è persino peggiore con -9.5), ma hanno semplicemente dominato gli avversari a tal punto da giocare la miseria di appena 36 minuti “clutch” dal 7 gennaio a oggi, 8 minuti in meno di qualsiasi altra squadra nella lega — peraltro vincendo 5 delle 8 gare concluse punto a punto.

A essere realmente cambiato è stato il loro rendimento offensivo: prima del 7 gennaio infatti i Celtics avevano già la quinta miglior difesa della lega e, pur faticando nei finali punto a punto, il loro differenziale su 100 possessi era comunque positivo con +1.5 su 100 possessi, il dodicesimo migliore in NBA. Se la difesa tutto sommato funzionava, ad azzopparli era piuttosto l’attacco, capace di produrre solamente 109.5 punti su 100 possessi con il 51.6% di percentuale effettiva al tiro, la sesta peggiore di tutta la lega. Da quella sconfitta coi Knicks in poi la percentuale realizzativa si è alzata di quasi 4 punti percentuali e l’attacco dei biancoverdi è decollato a 117.4 punti segnati su 100 possessi, il settimo migliore della lega, e la loro difesa è diventata un fortino inespugnabile da 105.2 punti concessi su 100 possessi, di gran lunga la migliore in NBA con ampio margine sulla seconda.

Soprattutto, a essere cambiata è l’atmosfera generale attorno alla squadra: per mesi i Celtics sono sembrati impantanati in problemi di spogliatoio che sembravano aver preso possesso delle mura del TD Garden come fantasmi impossibili da scacciare, puntualmente ripresentatisi ogni volta che Marcus Smart accusava Tatum e Brown di non voler passare il pallone o coach Ime Udoka che non perdeva occasione per attaccare i suoi giocatori per mancanza di forza mentale. Ma proprio mentre il resto del mondo si affannava a immaginarsi nuove sistemazioni per Brown o a Tatum, Brad Stevens dava una rara intervista a The Athletic dicendo che i due erano «l’ultimissima delle mie preoccupazioni», sottolineando la loro giovane età e quanto fosse difficile passare dal rango di All-Star a superstar.

A rileggerle oggi, le parole di Stevens hanno avuto il duplice effetto di calmare l’ambiente e di predire il futuro: era consapevole soprattutto che la squadra aveva tirato peggio di quanto avrebbe potuto e dovuto (aspettandosi una regressione verso la media specialmente da parte di Tatum), e che il mercato avrebbe dato loro delle opportunità per rimodellare la squadra attorno alle due giovani ali. Entrambe le cose puntualmente avveratesi, e non era per niente facile per un capo-dirigente alla prima esperienza dietro la scrivania avere la pazienza necessaria per aspettare che la stagione svoltasse. In molti si sarebbero fatti prendere dalla fretta e avrebbero cambiato tanto per cambiare, ma Stevens lo ha fatto con raziocinio e criterio, passando a pieni voti il suo primo anno da capo della dirigenza.

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Nel frattempo c’è chi si porta avanti.

L’impatto di Derrick White al posto di Dennis Schröder

Arrivati alla deadline del mercato i Celtics avevano già cominciato a volare, raccogliendo sei vittorie consecutive tra fine gennaio e inizio febbraio per svoltare definitivamente. Nonostante i buoni risultati, Stevens ha avuto la lucidità di non sedersi sugli allori, operando sul mercato anche in maniera ambiziosa: per prima cosa ha scambiato una seconda scelta insieme ai contratti di Bol Bol e PJ Dozier (entrambi infortunati) per scendere sotto la soglia della luxury tax; dopodiché ha fatto un paio di telefonate in Texas per spedire Josh Richardson e Romeo Langford a San Antonio e Dennis Schröder, Enes Freedom e Bruno Fernando a Houston, ottenendone in cambio Derrick White e Daniel Theis. Non sono stati due scambi indolori, vista la prima scelta di quest’anno ceduta agli Spurs e soprattutto il “pick swap” in favore dei nero-argento nel lontano 2028 che potrebbe rivelarsi doloroso, ma sono state indiscutibilmente mosse vincenti da parte di Stevens, così come la decisione della scorsa estate di liberarsi di Kemba Walker e di riaccogliere Al Horford in squadra.

Il risultato è stato avere un roster molto corto (dopo la deadline i Celtics avevano solo dieci giocatori con contratto garantito), ma formato da interpreti in grado di tenere il campo in un ambiente di playoff. Considerando anche solo il mero scambio Schröder-White, quello che Boston ha guadagnato in termini di intelligenza cestistica, altruismo e versatilità difensiva è pressoché incalcolabile: White ha immediatamente accettato il ruolo di sesto uomo in uscita dalla panchina e, non avendo impellenze di contratto (scadrà solo nel 2025) a differenza del tedesco a caccia di cifre e dollari, si è messo a disposizione della squadra, fungendo da “connettore” e facilitatore come se non avesse mai fatto altro nella sua vita, l’incastro giusto in un puzzle che aspettava solo lui per essere completo. Pur avendo un differenziale a prima vista negativo (-9.6 di Net rating in 472 minuti, secondo Cleaning The Glass), quel dato è più frutto dell’incredibile rendimento dei titolari che non di sue specifiche mancanze: quando gioca insieme a Tatum e Brown il Net Rating del terzetto è di +18.9.

Già, il quintetto base: nei 907 possessi giocati insieme da Smart, Brown, Tatum, Horford e Robert Williams il differenziale dei Celtics è un assurdo +24.3, una combinazione unica in tutta la lega di volume ed efficienza, essendo il quarto più utilizzato della NBA ma anche di gran lunga il più efficiente tra quelli che ne hanno giocati almeno 400. Il segreto, anche qui, è una versatilità difensiva che non ha eguali: in una lega in cui l’attacco medio segna 111.8 punti su 100 possessi, i cinque titolari dei Celtics ne concedono a malapena 94.8 agli avversari, grazie all’antico segreto che rende grandi le difese contemporanee: quello di non avere punti deboli.

I segreti della miglior difesa della lega

Forse solamente Miami può reggere il confronto con la versatilità di Boston quando comincia a cambiare su tutti i blocchi, cosa che fa frequentemente quanto quella degli Heat. I Celtics hanno giocatori forti in quegli aspetti che teoricamente dovrebbero essere i punti deboli del loro ruolo: una guardia come Marcus Smart ha la stazza e la forza fisica necessaria per poter cambiare su qualsiasi avversario, togliendo ogni opportunità di mismatch; Brown e Tatum hanno mezzi atletici e capacità di recupero per coprire ampissime porzioni di scambio e misure per non andare sotto contro nessuno; Horford e Williams, pur essendo tecnicamente due lunghi, hanno piedi e mobilità per poter accettare i cambi senza battere ciglio, consapevoli che comunque alle loro spalle può sempre arrivare qualcuno a protezione dell’area se vengono battuti.

I due giocatori più utilizzati dalla panchina, White e Grant Williams, si inseriscono perfettamente nello schema difensivo di coach Udoka capace di soffocare gli avversari facendoli avanzare nell’azione senza aver creato neanche uno straccio di vantaggio, anche perché non c’è neanche un punto debole da poter attaccare. Questo soprattutto grazie alle splendide condizioni atletiche di Al Horford: teoricamente i suoi quasi 36 anni di età non gli dovrebbero permettere di stare così bene con i realizzatori che si aggirano per la NBA e che nemmeno andavano al liceo mentre lui già spiegava pallacanestro a Florida e ad Atlanta, ma dopo un annomandato al prato come i cavalli in quel di Oklahoma City ora è uno dei segreti che tengono assieme la miglior difesa della lega.

Ja Morant era arrivato a Boston dopo averne messi 52 contro San Antonio in una gara in cui ha cestisticamente ucciso Jakob Poeltl, ma si è trovato davanti un muro sottoforma di Big Al: il modo in cui legge in anticipo la sua virata a centro area è da raccontare ai nipotini, e anche quando viene battuto come nella seconda clip c’è sempre qualcuno dietro pronto ad aiutarlo con tempi perfetti (poi Morant ne ha comunque fatti 38 perché è un fenomeno, ma quando la partita di fatto era già decisa e soprattutto con 29 tiri tentati)

Forti di un attacco che, banalmente, segnando molti più canestri limita le opportunità in transizione, la difesa a metà campo dei Celtics tiene gli avversari sotto i 90 punti segnati su 100 possessi ed è comunque nei dintorni della top-10 nelle situazioni di contropiede pur schierando quasi sempre due lunghi di ruolo e andando forte a rimbalzo d’attacco (12esimi in NBA). Un ruolo cruciale nel sistema di Udoka lo ricopre soprattutto Robert Williams: invece di difendere in maniera tradizionale mettendolo sul centro dell’altra squadra, da gennaio “Time Lord” viene messo sull’esterno meno pericoloso degli avversari, che sia il 3 o il 4 poco importa. I Celtics scommettono sulla capacità di Williams di essere in due posti contemporaneamente: sia sotto il canestro in aiuto per negare le conclusioni in area, sia sul perimetro per contestare le eventuali conclusioni piedi-per-terra del suo uomo, su cui comunque può ruotare indifferentemente uno degli esterni cambiando al volo e chiudendo finestre temporali che gli avversari pensavano fossero aperte e invece gli vengono chiuse in faccia. Anche quando il giocatore da lui marcato porta un blocco sulla palla, Williams ha piedi veloci per poter reggere almeno un palleggio contro il portatore o può raddoppiare, costringendo il giocatore da lui marcato (solitamente poco efficace in attacco) a prendere decisioni difficili seppur in sovrannumero.

Due esempi del suo ruolo “da safety” presi dal mucchio del massacro perpetrato ai danni degli Utah Jazz questa notte. Nel primo Williams è già in area per disinnescare il taglio a canestro di Rudy Gobert, e quando la palla finisce in angolo sul suo uomo (Eric Paschall, tiratore da 41% dagli angoli ma in serata no come tutti i Jazz) Tatum è perfetto nel ruotare su di lui convogliando la sua penetrazioni verso le fauci di Time Lord pronto sotto canestro; nel secondo video tiene l’uno contro uno di Jordan Clarkson (notate anche i quattro compagni pronti a dargli man forte dietro) e poi si mangia Donovan Mitchell allo scadere dei 24 secondi. Questa è quel tipo di difesa che vince i titoli NBA.

Il risultato è che i Celtics sono la seconda squadra che concede meno conclusioni al ferro della lega e quella che più di tutte costringe gli avversari a prendersi le cosiddette “long 2s” tra i 5 e i 7 metri dal canestro, e oltre a far prendere cattivi tiri agli avversari hanno anche un effetto poltergeist che li costringe a percentuali orribili. Gli avversari dei Celtics tirano solamente col 34.2% da tre punti e sotto il 40% dalla media distanza, specialmente nella zona dei floater (soluzione sempre più utilizzata dalle squadre NBA in questa epoca storica) che difendono come nessun altro in NBA. Di fatto non c’è un modo buono “sistematico” per attaccare i Celtics: bisogna solo affidarsi al proprio talento individuale e fare in modo di vincere abbastanza duelli singoli per far saltare il loro castello difensivo, piano che però si è rivelato sempre più difficile da realizzare specialmente in regular season come dimostrano le sole quattro sconfitte (di cui alcune “di distrazione” contro Detroit e Indiana) degli ultimi due mesi.

Tatum e Brown a caccia di mismatch

In un peculiare gioco di contrappasso, quello che rende grandi i Celtics in difesa è anche ciò che ha reso più efficiente il loro attacco, cioè le percentuali da fuori e la capacità di attaccare i punti deboli avversari. I Celtics sono ottavi per percentuali da tre punti con il 36.8% di squadra dal 7 gennaio in poi, tre punti percentuali pieni in più rispetto al 33.8% della prima metà di stagione nella quale erano 23esimi. Eppure non bisogna commettere l’errore di pensare che il miglioramento sia casuale.

Coach Ime Udoka non ha un sistema offensivo particolarmente complicato, ma le responsabilità di cui ha investito Tatum e Brown stanno pagando dividendi. Le due ali under-25 che tutta la lega invidia ormai da anni ai biancoverdi in questa stagione sembrano essere impegnati in una battuta di caccia: ogni volta che scendono in campo individuano un punto debole e cercano di punire la sua presenza in campo come se fosse un affronto personale. Per quanto il “mismatch hunting” sia pratica sempre più diffusa in NBA (e sempre più frequentemente ai playoff), sono poche le squadre in grado di avere due realizzatori di quelle dimensioni e di quella fisicità contemporaneamente sul parquet, in particolare Tatum che negli ultimi due mesi è semplicemente on fire: quasi 30 punti di media con 7.7 rimbalzi, 5.1 assist, il 50% al tiro e il 39.5% da tre su 9.4 tentativi a partita con l’88% ai liberi nelle ultime 28 partite, con due escursioni sopra i 50 punti e una da 44.

Il suo differenziale tra quando è in campo e quando è fuori è semplicemente ridicolo (+17.4 su oltre 2.500 minuti, persino più di Nikola Jokic!) e, se i Celtics continueranno con questo passo finendo con uno dei primi tre posti a Est, il suo nome deve necessariamente essere preso in considerazione tra i primi cinque per il premio di MVP, anche se l’inizio a rilento della sua stagione (sotto il 33% da tre nelle prime 33 partite) potrebbe finire per azzopparlo troppo. Resta però il fatto che a 24 anni appena compiuti Tatum sembra aver raggiunto la forma definitiva del suo enorme talento, aumentando anche il coinvolgimento dei compagni (sopra il 20.5% di percentuale di assist, nel 90° percentile per un’ala NBA) e rendendosi un enigma sempre più indecifrabile per le difese avversarie. Siamo ormai alla stregua dei vari Kevin Durant o Giannis Antetokounmpo: o sbaglia lui oppure c’è ben poco che si possa fare per farlo sbagliare, anche cercando di rendergli la vita il più difficile possibile.

Pur potendosi appoggiare sulle enormi spalle di Tatum e Brown, i dubbi maggiori riguardanti i Celtics si concentrano soprattutto sulla metà campo offensiva: l’attacco a metà campo è “solamente” undicesimo su base stagionale e in transizione non sono una squadra particolarmente efficace né da palla recuperata (19esimi per efficienza) né da rimbalzo difensivo catturato (25esimi). Molto del loro successo si basa sulla capacità di Tatum e Brown di procurarsi viaggi in lunetta e di contenere le palle perse, ma all’aumentare del livello degli avversari non è detto che il loro attacco abbia abbastanza opzioni per poter scardinare le migliori difese della Eastern Conference se le prime due opzioni offensive non funzionano.

Per quanto stiano funzionando bene, né Smart né White sono palleggiatori particolarmente creativi quando chiamati a inventare, e tutti i lunghi sono “gregari” abituati a giocare in funzione degli esterni che non portatori di punti in proprio. Da questo punto di vista una variabile impazzita come Payton Pritchard (40% da tre punti in stagione, tra cui un clamoroso 58% dagli angoli) può fungere da valvola di sfogo per un attacco asfittico, pur rappresentando quel punto debole difensivo — per dimensioni ridotte rispetto al resto del roster più che per mancanza di applicazione, visto che il suo lo dà sempre — che Udoka vorrebbe togliere dalle opzioni a disposizione degli avversari.

Settimanina.

Arrivati ormai a poche settimane dall’inizio dei playoff, i Celtics hanno tutte le caratteristiche della squadra che non vuoi affrontare: diversi modelli predittivi come quello di FiveThirtyEight li danno in vetta alla lega sia per possibilità di raggiungere le Finals (45%) che di vincerle (30%), letteralmente il doppio rispetto ai Milwaukee Bucks campioni in carica e con buon margine anche sui Phoenix Suns che hanno dominato la regular season. Modelli che si basano però sul rendimento della regular season, mentre la natura dei playoff — in cui di fatti devi superare quattro squadre, non 29 — pone sfide differenti: giocatori del livello di Durant, Antetokounmpo o Embiid sono in grado da soli di risolvere partite di post-season piegando le difese avversarie solo con il loro talento individuale, minando le certezze costruite fino a questo momento.

Quello su cui contano i Celtics è di avere anche loro un giocatore del genere in Tatum e un supporting cast con gerarchie e rotazioni ben chiare a tutti quanti, specialmente nella metà campo difensiva dove hanno i mezzi per giocarsela contro chiunque. Gli indizi lasciati per strada lungo tutto il 2022 ricompongono il puzzle di una contender da prendere estremamente sul serio, e nessuno se lo sarebbe davvero potuto immaginare solo tre mesi fa.

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