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Marco Gaetani
Come ci è finito Milinkovic-Savic in Arabia Saudita
12 lug 2023
12 lug 2023
Dopo otto anni alla Lazio il centrocampista serbo sembra vicino a trasferirsi in Arabia Saudita.
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Marco Gaetani
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IMAGO / NurPhoto
(foto) IMAGO / NurPhoto
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È difficile individuare un momento, uno soltanto, in cui il calcio, nella percezione generale, ha cominciato la sua lenta trasformazione da passione popolare a materia arida per commercialisti. Forse è un problema tutto italiano, forse no: sempre più spesso ci avviciniamo a un acquisto o a una cessione con la pretesa di coglierne i vantaggi economici, come se fossimo noi ad avere effettivamente un beneficio da questo o quel movimento di mercato. Abbiamo iniziato a familiarizzare con concetti come plusvalenze, pareggi di bilancio, ammortamenti, a giustificare un addio o un mancato arrivo con motivi che poco hanno a che fare con la fede calcistica: fantascienza, fino a una ventina abbondante di anni fa.

Anche per questo motivo, l’ondata saudita che sta travolgendo il calcio europeo ci ha spiazzato: non l’abbiamo vista arrivare, non l’abbiamo saputa interpretare e pare voglia toglierci anche quel pizzico di attaccamento rimasto per alcuni calciatori. Per usare il gergo classico del calciomercato, per il passaggio di Sergej Milinkovic-Savic all’Al-Hilal «mancano solo i dettagli». Una trattativa che ci ha svegliato dal torpore, come quella che ha visto Sandro Tonali approdare al Newcastle: quella non era Arabia in purezza, ma lo sfondo saudita era comunque predominante, vista la proprietà del club inglese il cui controllo è nelle mani del fondo sovrano saudita. La campagna europea dell’ultimo anno aveva probabilmente illuso in merito al grande ritorno del calcio italiano, invece ci siamo riscoperti terra di conquista fin troppo facile per chi ha una potenza di fuoco impareggiabile rispetto a quella del nostro movimento.

Ma Tonali è andato in Premier, in un contesto ultracompetitivo, e giocherà la Champions League. L’affare Milinkovic-Savic, invece, porta con sé riflessioni potenzialmente infinite sull’ambizione del singolo e sulle condizioni del nostro campionato. Paolo Condò, negli studi di Sky, ha definito preoccupante la partenza del serbo: «Si tratta del primo giocatore del nostro campionato nel pieno della sua carriera che decide di andare in Arabia: aveva appena riconquistato la qualificazione alla Champions con la sua Lazio, avrebbe potuto andare alla Juventus. Stavano arrivando adesso gli anni dell’altissimo livello e decide di andarsene».

C’è poi tutto un altro aspetto da affrontare, ed è quello della cessione di Milinkovic-Savic dal punto di vista del tifoso biancoceleste.

Laziale fino in fondo

Tranne rari casi, le squadre di Serie A sono infarcite di professionisti che non sono tifosi della società in cui militano: sarebbe strano il contrario. Eppure, a volerla leggere in maniera sentimentale, a voler ignorare il fatto che sul tavolo ci sia un contratto che renderà serena la vita delle prossime venti generazioni di Milinkovic-Savic, la decisione del serbo racchiude al suo interno un qualcosa di fortemente laziale. È la parola conclusiva su una storia iniziata in un pomeriggio di fine luglio del 2015: il serbo che appare a Firenze per firmare con la Fiorentina, poi all’improvviso ritratta, cambia idea e sceglie la Lazio, manifestandosi a Roma a inizio agosto.

«Non è un ragazzo di vent’anni che cambia la nostra squadra», dice Daniele Pradé, direttore sportivo della Fiorentina, in quelle ore. Parole invecchiate maluccio.

Se non si tratta del giocatore più forte arrivato nel corso della lunghissima era Lotito, è qualcosa che ci assomiglia parecchio, ma non siamo qui per fare classifiche. L’impatto di Milinkovic-Savic in queste otto stagioni laziali è qualcosa che va oltre i semplici numeri. In alcuni momenti è parso più grande della squadra in cui giocava, come se a tenerlo a Roma fosse un incantesimo difficile da spiegare. Eppure, alla fine, era sempre lì, anche dopo le estati in cui c’era chi giurava e spergiurava che fosse pronto ad accettare la Juventus, il Milan, l’Inter, il Real Madrid. Milinkovic come emblema della resistenza alle chiamate delle grandi, vittima di un rapimento mistico e sensuale. In altri sembrava invece svogliato, fuori fase, scollato. Lo è stato anche per alcuni mesi di questo 2023, eppure, a leggere le cifre di fine stagione, non si direbbe.

Milinkovic ha sempre avuto la capacità, questa sì misteriosa, di incidere sulle partite a prescindere dalla qualità della singola prestazione: un assist di tacco, uno stop di petto effettuato ad altezze irraggiungibili per gli altri esseri umani, un colpo di testa in grado di modificare il piano inclinato di una sfida. Qualità tecniche da numero dieci in un corpo da corazziere, la capacità di rimanere aggrappato alle contese anche quando queste sembravano ormai destinate a sfuggire via. Nei momenti difficili, nelle partite decisive, ha quasi sempre messo lo zampino, in un modo o nell’altro. E poi l’asse Milinkovic per Immobile come Stockton-to-Malone, affinità elettiva, calcio mandato a memoria a prescindere dagli schemi, capirsi senza guardarsi, trovarsi senza cercarsi.

Che la storia fosse giunta al capolinea, ormai, lo si era capito da tempo. Da alcune interviste, da frasi dette a mezza bocca e poi edulcorate con un sorriso timido a farsi spazio sotto uno sguardo algido, il freddo negli occhi di chi sa non aver pietà davanti a un portiere o quando c’è da saltare sulla testa di un difensore avversario, ma si ritrae quando c’è da parlare d’altro. Qualche mese fa, in un’intervista concessa a Pierluigi Pardo per DAZN, con quell’italiano tipico di chi ha imparato la lingua a Roma, alla domanda sul rapporto con la tifoseria ha abbassato lo sguardo, ha detto «Io so’ contento quando loro so’ contenti», poi ha aggiunto che poteva soltanto dire grazie. Sembravano già allora le frasi di chi già sapeva, di chi immaginava la fine.

Il timore, tutt’altro che celato, era quello dell’ennesimo addio brusco, con un contratto non rinnovato, la fuga a parametro zero, i fischi al ritorno all’Olimpico con una maglia diversa da quella vestita negli ultimi otto anni, l’immancabile gol dell’ex. Per questo, e solo per questo, in maniera quasi irrazionale, dal lato del tifoso è la chiusura migliore del cerchio: il "Sergente" si toglie la divisa e va in un posto lontano, consentendo alla società di incassare una quarantina di milioni, cifre ormai inimmaginabili sul mercato italiano. Ed è questa la ragione che ci porta, in queste ore, a rivedere i video di dribbling di suola e sponde di petto, di colpi di testa e di tacco, con un pizzico di magone ma in fin dei conti senza alcuna traccia di rabbia. Perché non poteva finire bene - laddove il bene sarebbe da identificare con la permanenza a vita in biancoceleste. Quantomeno non è finita male. Per una volta non è stato un amore sbagliato, nessun piatto rotto, niente porte sbattute.

Quando ho iniziato a pensare a questo articolo immediatamente mi è ronzata nelle orecchie una canzone di Bob Dylan, che molti in Italia conoscono per la riedizione di Francesco De Gregori: If you see her, say hello. Le due versioni si mescolano nella mia mente, perché alcuni passaggi in inglese si adattano meglio di quelli in italiano e viceversa. È la storia di un amore finito senza frizioni, in cui prevale il ricordo del buono che si è vissuto, o quantomeno il tentativo di far sì che sia così. «I replay the past, I know every scene by heart», canta a un certo punto Dylan, e mi sembra infinitamente più poetico di «Il passato è ancora qua e so a memoria i ricordi» della versione di De Gregori. Ma del "Principe" tengo volentieri «Ho sempre avuto rispetto per lei, per come se n'è andata via». E allora per qualche ora, per qualche giorno, continueremo a fare play sui video del "Sergente", su questa Milinkocrazia (termine geniale ormai rubato e diffusissimo, il cui copyright dovrebbe spettare a Luca Capriotti) che si conclude senza spargimenti di sangue. Li riguardiamo anche se sul nostro cuore sono già impresse tutte le scene, le gesta di questo gigante che camminava sui pezzi di vetro senza conoscere paura, perché ferirsi non era possibile.

Le ragioni di una scelta

Archiviato il discorso sentimentale, resta da chiedersi per quale motivo, dopo otto eccellenti stagioni con la maglia della Lazio, Milinkovic-Savic abbia deciso di accettare l’esilio dorato invece di mettersi alla prova altrove. L’epilogo dell’addio era scontato, molto meno lo era la destinazione. Pochi giocatori nella storia recente del nostro calcio hanno generato una discrasia così evidente tra il percepito dei suoi tifosi e quello degli addetti ai lavori. Mentre in giro per l’Europa volavano fior di milioni per giocatori di medio cabotaggio, le maxi-offerte per Milinkovic-Savic latitavano, e viene quantomeno complesso credere alle parole di Lotito quando dice di aver rifiutato 140 milioni di euro dal Milan di Adriano Galliani nel 2018, e non solo perché "il Condor" aveva già lasciato i rossoneri da un anno.

Dov’è la verità, dunque? Milinkovic-Savic non era sufficientemente forte da attirare un’offerta da una big del calcio europeo? Neanche, prendendo per buona l’estate del 2018 dopo una stagione da 14 gol e 8 assist, da un Manchester United che in quell’anno spendeva 60 milioni per Fred? Da un Liverpool che ne tirava fuori 60 per Naby Keita e 45 per Fabinho? A condizionarne la carriera è stata la poca visibilità che ha avuto a livello europeo in questi anni? Sono nodi impossibili da sciogliere, perché intanto in Italia Lotito andava avanti chiedendo cifre apparentemente fuori mercato, mentre Milinkovic-Savic continuava a rinnovare contratti su contratti, sufficientemente felice in un ambiente che l’ha coccolato come si fa con il figlio prediletto.

Ne esce bene, benissimo, proprio Lotito, che in passato aveva perso patrimoni simili fuggiti a parametro zero, come nel caso di Stefan de Vrij, ma anche tesoretti di entità minore ma non per questo meno importanti: per esempio Luiz Felipe, non più tardi di dodici mesi fa, accasatosi al Betis che ora punta a rivenderlo a 20 milioni. Il presidente della Lazio, che troppo spesso si è ritrovato a non monetizzare, stavolta ha visto la sua strategia trionfare: nessuno, in Italia, avrebbe sborsato quella somma a meno di inserimenti di contropartite più o meno pregiate per gonfiare il prezzo finale. È già iniziata la seconda fase del discorso, e qui torniamo all’inizio: capire non solo come Lotito investirà questi soldi (e quelli ottenuti dalla qualificazione in Champions), ma quanti ne investirà. Un circolo vizioso che si innesca in ogni sessione di calciomercato dal 2004 a questa parte, con la sensazione violenta che manchi sempre l’ultimo passo per raggiungere l’obiettivo. Anche in questo, però, persiste una visione differente tra chi è dentro a questa centrifuga perenne, il tifoso laziale, e chi invece osserva l’oblò seduto lì davanti, faticando a comprendere le critiche alla luce dei piazzamenti comunque rispettabili degli ultimi anni.

Verrebbe da dire, con una sintesi facile ma certamente efficace, che Milinkovic-Savic ha scelto i soldi: avrebbe potuto scommettere su di sé, giocando un’ultima stagione in scadenza di contratto, un’annata in cui sarebbe sceso in campo anche in Champions League, il palcoscenico teoricamente perfetto per mettersi in mostra. Forse, memore di qualche difficoltà di troppo nei Mondiali del 2018 e del 2022, ha preferito non rischiare: quanto durerà il giro di giostra in Arabia Saudita ce lo dirà il tempo. È stata dunque una carenza di ambizione? Impossibile dirlo con esattezza. Magari lo spiegherà proprio Milinkovic-Savic nei prossimi giorni, magari si terrà il segreto, nascondendoci la verità come è abituato a fare con il pallone in mezzo a centrocampisti affamati che cercano di spuntargli da ogni lato per sorprenderlo.

Talvolta finisce male, più spesso è lui a uscire vincitore dalla giungla, con la palla incollata al piede nello stupore generale. Perché saremo anche diventati commercialisti, ma sappiamo riconoscere la bellezza quando la vediamo.

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