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Un derby che nessuno voleva giocare
02 mar 2022
02 mar 2022
Zero a zero come unico risultato possibile.
(articolo)
10 min
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Se avessero potuto, probabilmente Milan e Inter avrebbero evitato di giocare questo derby. Nessuna delle due squadre poteva trarre molti vantaggi da una partita del genere, arrivato nel mezzo di una stagione positiva per entrambe, ma in un momento difficile. Il Milan è in testa alla classifica, l’Inter virtualmente in testa se dovesse vincere la partita che deve recuperare, ma entrambe sembrano aver paura di perdere l’inerzia di questo treno sempre più lento. Il Milan veniva da due pareggi in campionato, contro Salernitana e Udinese; l’Inter da due pareggi e due sconfitte nelle ultime quattro partite. Una sconfitta nel derby avrebbe rappresentato un gomitolo emotivo difficile da gestire per entrambe.

Il frutto delle disfunzioni della Coppa Italia

C’era poi un motivo in più a rendere indesiderabile questa partita, il più grande. La Coppa Italia è un torneo a eliminazione diretta fatto di gare secche, tranne che in semifinale, che è invece andata e ritorno. Una partita d’andata come quella di ieri aveva poco senso, se non quello di suggerire alle due squadre di prendersela comoda, di stare attente più che altro a non perdere, a non commettere disastri, a non scivolare. Il ritorno, del resto, è tra un mese: c’è tutto il tempo per pensarci, e sperare in un momento meno difficile. Si può davvero considerare regolare una doppia sfida in cui tra l’andata e il ritorno trascorre un mese?

Ogni dettaglio regolamentare sembra pensato diabolicamente per rendere il torneo meno interessante, meno spettacolare, meno giusto persino. L’organizzazione ultra-piramidale a ogni livello è pensata per evitare qualsiasi sorpresa, ribadire le gerarchie, annullare lo spettacolo. La logica è di fatto l’inverso delle altre coppe nazionali europee, dove le gerarchie del calcio nazionale vengono mescolate con uno spirito carnevalesco e l’attrazione principale è la possibile sorpresa. La Coppa Italia, invece, non è un torneo organizzato per creare uno spettacolo, ma per rendere la vita più semplice possibile alle grandi squadre, cioè quelle che hanno meno interessi e motivazioni. Entrano tardi in tabellone, devono giocare pochissime partite per alzare il trofeo, giocano sempre in casa. È il torneo che riassume meglio il corporativismo italiano, in cui la conservazione dell’interesse singolo prevale sempre sui benefici collettivi. E la Coppa Italia ha come esito ideale una finale tra la prima e la seconda del campionato, che si ritrovano l’una di fronte all’altra con motivazioni discutibili - aggiungere un trofeo inutile alla bacheca, o salvare la stagione con “almeno” la Coppa Italia (consolarsi con l’aglietto, si dice a Roma). Fino ad arrivare al paradosso di partite come il derby di ieri, in cui non perdere è infinitamente più importante che vincere e il calcio diventa uno strano esercizio a limitare i danni, creare meno spettacolo possibile, mentre noi - sugli spalti dello stadio gli eroi, sul divano di casa gli altri - ci chiediamo cosa ce lo fa fare.

Le due squadre si sono trascinate in campo con poche idee e ancora meno energie. Il Milan è stato più volitivo, soprattutto nel primo tempo, ma è stato impreciso e frettoloso negli ultimi metri. Stanno giocando con poca qualità, aveva ammesso Pioli nella conferenza pre-partita. L’Inter, incerta e timorosa, ha aspettato che la tempesta passasse, incapace di immaginare un modo per fare gol. Infine si è accontentata di un pareggio. La partita ha confermato le difficoltà di Milan e Inter.

Ma l’Inter quando segna?

Ai microfoni dopo la partita Simone Inzaghi si è lasciato scappare una frase pesante: «Ci stavamo ancora leccando le ferite dal derby di un mese fa». Questa sfida quindi era figlia di quella. L’Inter era passata in vantaggio, aveva sostanzialmente controllato la partita, ma poi - come spesso le capita - questa le era sfuggita di mano un po’ alla volta. Finché Olivier Giroud non ha dato un senso al suo arrivo al Milan inventando quel gol decisivo. In quel momento l’Inter sembrava, per distacco, la squadra migliore del campionato. Il miglior attacco, una delle migliori difese. Da quel momento le cose hanno cominciato a precipitare: l’Inter è diventata sempre più incerta, e problemi prima nascosti sono venuti a galla, a cominciare da un’incapacità cronica di generare pericoli intorno alla porta avversaria.

Proprio dopo quel derby Dario Pergolizzi notava: «Il fatto che l’Inter non sia riuscita a trovare un gol su azione nonostante un atteggiamento in possesso che è sembrato più convincente di quello avversario potrebbe essere un campanello d’allarme per Inzaghi».

Anche nella partita di ieri l’Inter ha generato poco o nulla, arrivando a 403 minuti senza segnare. L’ultima rete è arrivata contro il Napoli, il 12 febbraio. La sensazione è che nell’ultimo mese le risorse offensive della squadra si siano impoverite un poco alla volta. Dumfries non è più un fattore negli ultimi metri e negli ultimi minuti delle partite; Calhanoglu tocca meno palloni, è meno coinvolto, più apatico; Barella ha meno intensità, meno ritmo. Come detto da Inzaghi dopo la partita, non è un problema di singoli. L’Inter ha un gioco complesso: un possesso palla che ha bisogno di essere alimentato continuamente di rotazioni e letture ben congegnate in ogni momento. Se questo possesso rallenta, la macchina gira più lentamente, e la palla arriva in zone pericolose, o dietro le linee avversarie, in ritardo.

Il singolo tassello più importante per far ruotare tutti gli altri, naturalmente, è Marcelo Brozovic. Per questo ieri il Milan gli ha messo Krunic a uomo quasi a tutto campo. Una mossa che ha pagato sia in termini difensivi, perché Brozovic ha toccato meno palloni del solito ed è stato meno efficace, ma anche offensivamente, visto che dal recupero palla alto di Krunic sono nate un paio di occasioni, fra cui questa di Saelemakers, una delle più preziose del match.

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Un possesso palla peggiore, per l’Inter, non è solo un problema offensivo ma anche difensivo. Senza controllare il pallone la squadra di Inzaghi perde il controllo del ritmo, che deve essere preferibilmente basso, e il controllo degli spazi. Ieri durante il primo tempo, quando il Milan aveva ancora energie e desiderio di combinare qualcosa, l’intensità e la verticalità della squadra di Pioli hanno messo in crisi un’Inter sonnolenta e con le distanze troppo larghe.

Se il possesso palla dell’Inter non funziona, e l’influenza di Calhanoglu e Barella si spegne - la loro vivacità, la loro capacità di incidere creativamente sulla trequarti - si allarga quella dei due giocatori più capaci di vincere duelli individuali: Perisic e Dzeko. Il croato è forse in leggera flessione dopo il momento di forma da iron man di qualche mese fa, ma tuttora rimane l’unico giocare capace di risolvere da solo certi problemi strutturali della squadra: risalire il campo con le conduzioni, vincere qualche uno contro uno, mettere i cross, attaccare la profondità. Perisic fa troppe cose, e le fa in zone piuttosto lontane dalla porta.

Dzeko è tornato a essere il giocatore paradossale che era a Roma. Nei momenti di difficoltà della squadra, ha la tendenza di Atlante di caricarsi il mondo sulle spalle. Viene incontro e si rende disponibile quasi a ogni altezza del campo; protegge palla, si gira, fa da regista a tutto campo. I suoi movimenti finiscono per mangiarsi gli spazi per le mezzali, e svuotano l’area di rigore. Eppure per la squadra cercarlo è una tentazione irresistibile, perché da solo offre una semplificazione della manovra troppo ghiotta. Appena un giocatore dell’Inter ha palla sulla propria trequarti, alza la testa per cercare Dzeko, e l’attaccante di sicuro avrà già fatto un movimento incontro. La sensazione è che, come la Roma di Fonseca, l’Inter di Inzaghi in questo momento opaco si sia impigrita attorno al talento di Dzeko.

Poi ci sarebbe da parlare di Lautaro Martinez, ma è anche difficile trovare qualcosa da dire. L’ultimo gol su azione risale al 17 dicembre, il mondo non era ancora in guerra e molti di noi non avevano ancora fatto il richiamo del vaccino. L’Inter passeggiò sulle macerie della Salernitana con una brillantezza che, con gli occhi di oggi, fa impressione. Lautaro segnò con un destro secco in area di rigore, e poi si spese in un’esultanza moderata. In fondo era il gol del 4-0 e tutto andava come previsto: era il suo sesto gol in cinque partite.

Nelle ultime settimane il livello delle sue prestazioni ha preso una spirale discendente che non pare potersi fermare. La sfida col Liverpool poteva essere il punto di svolta positivo - «È la partita più importante della mia carriera» aveva detto lui per caricarsi - e invece lo è stato in negativo. Dopo quella partita è arrivato quell’errore incredibile contro il Sassuolo, quando il tiro a lato somiglia a un tentativo di sabotaggio ben riuscito. Lautaro Martinez però è sempre stato un centravanti impreciso; un anno fa scrivevo un articolo in cui mi chiedevo se non avesse forse un problema sotto porta. La risposta è equivoca: Lautaro non è un finalizzatore glaciale, ma i suoi numeri realizzativi sono di tutto rispetto (52 gol in 82 partite nelle ultime tre stagioni). Per segnare ha sempre bisogno di un certo volume di occasioni però, e se il suo contributo alla squadra si limita al rendimento in area di rigore Lautaro diventa un giocatore mediocre. Quando può esprimersi a tutto campo invece il suo livello si alza. L’impressione è che i movimenti di Dzeko lo abbiano tagliato fuori dalla manovra, e lui fatichi a entrare in ritmo nelle partite. Se le sue partite si riducono all’esito di pochi palloni, Lautaro è inutile.

La poca qualità del Milan

In questi casi, con una metafora mutuata dalla boxe, si dice che il Milan avrebbe meritato “ai punti”. Finché ha avuto le energie per farlo, la squadra di Pioli è l’unica che ha provato a vincere. Ha tenuto i ritmi alti, ha alzato il pressing e costruito occasioni come meglio le riesce: in modo diretto, schiacciando il campo in avanti e usando la fase difensiva come innesco di quella offensiva. Nel primo quarto d’ora il Milan ha costruito le sue migliori occasioni, con le conclusioni di Saelemakers e di Theo dopo un bellissimo uno-due con Giroud - un’azione da Milan, con i terzini che attaccano i corridoi centrali, e Theo che sa farlo con straordinaria velocità.

Anche tra la fine del primo tempo e l’inizio della ripresa, comunque, l’Inter non sembrava avere le giuste distanze in campo, e il Milan trovava grandi spazi, sia tra le linee che dietro la linea difensiva. Leao aveva sempre tanto spazio per le sue conduzioni, Giroud ha giocato qualche buona sponda. Le palle migliori però sono capitate sui piedi di Saelemakers e Krunic, che hanno i loro limiti. In particolare il bosniaco, ha sbagliato un paio di tiri sbilenchi, ma ha pagato probabilmente il suo lavoro senza palla in marcatura su Brozovic. Al momento non può certo garantire qualità in entrambe le fasi come Sandro Tonali. Quando Pioli ha tolto Leao dopo poco più di un’ora, per farlo riposare in vista del Napoli, il Milan ha finito le proprie risorse.

Momento più alto della partita: Ibra col cappello "Ibra", una citazione di Gervinho col cappello "Gervinho"?

Il Milan ieri sera aveva il compito più delicato, per le assenze e per il fatto che la partita arrivava a pochi giorni dalla decisiva sfida al Napoli in campionato. Tutto sommato Pioli può essere soddisfatto, per come la squadra è riuscita a giocare sulle debolezze dell’avversario e per come ha cercato la vittoria nonostante fosse l’Inter, per la regola dei gol in trasferta (che vale ancora per quest'anno in Coppa Italia), ad avere più bisogno di segnare. «Se lo consideriamo nell'ottica del doppio confronto questo è un buon risultato. Meritavamo di vincere, questo è un raccolto parziale» ha detto Pioli. Se il Milan non ha segnato è soprattutto per qualche limite strutturale, per una mancanza di qualità offensiva su cui il tecnico può fare poco, nella speranza che Ibrahimovic torni ad avere un impatto di qualche tipo prossimamente.

In fondo c’è una giustizia in uno zero a zero al termine di una partita che nessuna delle due squadre avrebbe voluto giocare.

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