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Foto di Harry Aaron/Getty Images
NBA Dario Vismara 10 gennaio 2020 8'

Gli Heat hanno creato un nuovo capolavoro

Dietro la leadership di Jimmy Butler, a Miami è nata una squadra che ha sorpreso un po’ tutti.

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I Miami Heat hanno già vissuto un momento molto simile a questo. Era la seconda metà della stagione 2016-17: dopo aver cominciato la regular season con 11 vittorie e 30 sconfitte, una volta superata la boa di metà anno gli Heat hanno cambiato marcia, finendo per vincere 30 delle successive 41 partite e sorprendendo l’intera NBA. Anche allora li avevamo definiti come “La mina vagante della Eastern Conference” nonché “la squadra che tutti vogliono evitare ai playoff”, anche se poi quella post-season non l’agganciarono pur chiudendo con lo stesso record dei Chicago Bulls ottavi.

 

Il problema è che quella squadra di “scappati di casa” ha finito per fare più male che bene alla franchigia stessa. Invece di rendersi conto che quel gruppo era esattamente ciò che il record suggeriva, cioè una squadra da 50% ad Est, gli Heat decisero di allungare contratti pesanti a James Johnson (60 milioni in quattro anni), Dion Waiters (52 milioni in quattro anni) e Kelly Olynyk (50 milioni sempre in quattro anni). Tre contratti che hanno azzoppato le successive due stagioni di Miami, nelle quali la squadra non è più riuscita a replicare quanto fatto in quella sorprendente seconda metà di stagione vivendo nel limbo di un’eliminazione al primo turno contro i Sixers (4-1 dopo una regular season da 44 vittorie) e i playoff mancati nella scorsa stagione (39 vittorie e 43 sconfitte).

 

La polvere degli ultimi due anni e di quei contratti diventati presto delle zavorre è stata nascosta sotto il tappeto del ritorno di Dwyane Wade, specialmente nella scorsa stagione in cui ogni velleità di tornare ai playoff è stata presto andata perduta, celebrando al meglio l’ultimo giro di giostra del giocatore più importante nella storia della franchigia. I problemi però non erano scomparsi, e l’attrattiva esercitata da South Beach nell’estate dei free agent più combattuta degli ultimi anni era ben al di sotto rispetto a quello che Pat Riley sperava. Ciò nonostante, gli Heat sono riusciti a convincere Jimmy Butler a unirsi a loro, una firma che al tempo sembrava ben al di sopra delle loro possibilità e che a qualcuno ha fatto anche po’ storcere il naso.

 

Ora sembra una mossa vincente da parte di Butler, ma lo scorso luglio era stato fortemente criticato per aver preferito “i soldi” (140 milioni di dollari in quattro anni) piuttosto che la possibilità di continuare a competere per il titolo con i Philadelphia 76ers. Un po’ come se andare a Miami rappresentasse una scelta di ripiego (o peggio ancora di “pigrizia”, di poca voglia di vincere) rispetto a quella di rimanere con Embiid e Simmons per completare quanto cominciato l’anno precedente. Gli Heat, in realtà, avevano già cominciato a costruire la squadra di quest’anno facendo quello che viene loro meglio, ovverosia andando a caccia di diamanti nei bassifondi della lega. Ad esempio firmando Kendrick Nunn con un contratto di tre anni all’ultimo giorno disponibile della regular season, anche se nemmeno loro si sarebbero potuti aspettare che nel giro di un anno potessero finire a competere per il secondo posto nella Eastern Conference.

 

Le alchimie di Erik Spoelstra

Esattamente come nel 2016-17, a coach Erik Spoelstra è stato consegnato un gruppo di misfits: attorno a Jimmy Butler il quintetto è stato tutto da inventare, visto che solamente nell’ultimo mese e mezzo della scorsa stagione Bam Adebayo era stato schierato stabilmente da titolare. Sfruttare le doti del lungo da Kentucky è diventato immediatamente uno dei punti focali di questa stagione, specialmente dopo aver tolto di mezzo l’ingombrante Hassan Whiteside — e lui ha risposto presente, mettendo assieme una stagione che merita un approfondimento a parte nel prossimo futuro. Messi i due paletti fondamentali in lui e Butler, il resto della costruzione era più una questione di trovare i fit giusti tra i tanti giocatori a disposizione, sempre secondo i dettami della pallacanestro positionless di Spoelstra in cui, più che parlare di posizioni, bisogna parlare di compiti.

 

Con due giocatori abituati ad avere il pallone tra le mani senza però il bisogno di comandarlo come Butler e Adebayo, c’era bisogno di un terzo portatore di palla con punti nelle mani che però non monopolizzasse i possessi. Per questo Kendrick Nunn si è imposto su Goran Dragic pur avendo un pedigree nettamente inferiore rispetto a quello dell’ex All-Star: dopo un’ottima pre-season e complici i problemi fisici dello sloveno (oltre che il contratto in scadenza che lo rendono inevitabilmente spendibile sul mercato), Nunn si è imposto in fretta come titolare nella posizione di point guard, anche se sarebbe più appropriato definirlo come “spalla di Butler”. Gli altri due membri del quintetto base sono lì per spaziare il campo: Duncan Robinson e Meyers Leonard non hanno teoricamente le fattezze di due titolari NBA, ma nel particolare sistema messo in piedi da Spoelstra fanno poche cose e le fanno benissimo, tirando con percentuali irreali da tre punti (entrambi oltre il 44% su quasi 10 tentativi combinati a partita).

 

36 punti di Nunn, 34 di Robinson e doppia tripla doppia di Adebayo e Butler. Ok, con la non-partecipazione difesa di Atlanta, ma comunque.

 

La miscela di questi cinque improbabili ingredienti ha portato alla creazione di un quintetto da +15.8 su 100 possessi, con numeri altissimi sia in attacco (114.4 di rating offensivo, su base stagionale sarebbero secondi solo all’attacco atomico dei Dallas Mavericks) che in difesa (98.6, nessuno su base stagionale va sotto il 102 dei Milwaukee Bucks). Il tutto su un numero estremamente consistente di minuti, 377, buono per i quarto posto in tutta la NBA, nonché quello col rating migliore tra quelli schierati per almeno 300 minuti.

 

I titolari sono la roccia a cui aggrapparsi in momenti di difficoltà per stabilizzare la squadra, ma l’estro di Spoelstra nel trovare alchimie sempre nuove si nota con l’utilizzo dei giocatori della panchina: il secondo quintetto più utilizzato, infatti, ha disputato assieme appena 46 minuti, con un vorticoso avvicendamento di lineup alla ricerca dell’accoppiamento perfetto con gli avversari o dell’equilibrio giusto tra attacco e difesa. Spoelstra usa dalla panchina soprattutto Goran Dragic e Tyler Herro (533 minuti insieme, seppur con differenziale non esaltante per via di una difesa sotto media) mettendogli attorno Kelly Olynyk nel ruolo di Meyers Leonard e Derrick Jones Jr. in quello del tuttofare che si lancia da una parte all’altra del campo, stabilizzando la bench unit con Adebayo visto che di Justise Winslow sono ormai scomparse le tracce.

 

Pregi e difetti di un attacco egualitario

Il risultato è una squadra vorticosa, che fa girare il pallone da una parte all’altra del campo con un utilizzo spasmodico del passaggio consegnato e che crea tiri che vanno dentro con grande continuità, passando dal 54.2% di percentuale reale (27° posto lo scorso anno) al 58.1% di questa stagione (secondi solo ai Bucks). Ci sono un po’ di dati che suggeriscono che questo non sia necessariamente destinato a continuare: gli Heat si prendono i tiri “giusti” evitando di abusare del tiro dalla media distanza (di fatto solo Butler se ne prende tanti, e come squadra sono nella media NBA) e producendo tante conclusioni dagli angoli, ma stanno tirando quasi due punti percentuali in più di quello che dovrebbero in base alla loro selezione di tiro, con un 38.5% di squadra da tre punti che si posiziona al secondo posto dietro solo agli Utah Jazz. 

 

Molto probabilmente è un dato insostenibile, come dimostrano i recenti cali offensivi contro Toronto e Orlando senza riuscire a raggiungere neanche quota 90 punti. A questo si aggiungono anche i problemi di palle perse e nell’andare in transizione, anche se che vengono compensati dagli innumerevoli viaggi in lunetta di Butler (terzo solo a James Harden e Giannis Antetokounmpo nel procurarsi tiri liberi) e dei compagni, che tirano a cronometro fermo più di chiunque altro in NBA, James Harden Houston Rockets compresi.

Entrare e uscire dal sistema: esegue il Professor Butler.

 

Gli Heat riescono a creare tiri per tutti, trovando un canestro assistito nel 63.3% dei casi (quinto miglior dato NBA): sono ben sei i giocatori con uno Usage Rate superiore al 20% e cinque quelli con almeno il 18% di assist, nonché sette quelli che tengono una doppia cifra di media a partita.  Pur avendo una stella designata in Butler per i finali di gara, il sistema creato da Spoelstra non prevede che un solo giocatore crei per tutti gli altri, ma che tutti sappiano fare (quasi) tutto. Butler, dal canto suo, ha avuto l’intelligenza di non pretendere che l’attacco diventasse il suo show personale come suggerirebbe il suo contratto, condividendo oneri e responsabilità con gli altri e permettendo loro di avere successo, come testimoniano le stagioni eccellenti di Adebayo, Nunn e Tyler Herro. Come dice Udonis Haslem: «Più portatori di palla hai attraverso i quali far passare l’attacco, più diventi pericoloso con più opzioni a disposizione». Semplice a dirsi, meno a trovare dei ball-handler in grado di sostenere un attacco NBA.

Nella metà campo difensiva, invece, gli Heat non possono più proteggere il ferro come facevano con Hassan Whiteside, perciò devono cercare di impedire agli avversari di arrivarci grazie alla loro mobilità laterale e la loro eccellente condizione fisica. Laddove non arriva il corpo, ci arriva la testa: un po’ come i Bucks, gli Heat concedono a selezionati avversari di tirare moltissimo da tre punti pur di non compromettere la propria difesa in area, lasciando agli avversari tante conclusioni dall’arco. Fino ad ora, però, le percentuali li hanno sostenuti, visto che solo Denver difende le triple meglio di loro pur con un volume altissimo, e sono molto bravi a non concedere seconde opportunità andando forte a rimbalzo difensivo anche con le guardie (in particolare Herro è un rimbalzista sorprendente per la taglia).

 

Della faccia tosta di questo ragazzo torneremo a parlare.

 

L’attenzione al rimbalzo difensivo serve per colmare una mancanza in termini di centimetri che si è vista soprattutto nell’unica sconfitta casalinga arrivata fino a questo momento, quella contro i Los Angeles Lakers che ha esposto il difetto difensivo più grande degli Heat, ai quali oggettivamente manca qualcosa in termini di stazza. Un difetto che per ora riescono a nascondere bene durante la regular season, ma che ai playoff potrebbe rivelarsi pesante contro squadre come Philadelphia o Milwaukee.

 

Hanno abbastanza talento quando conta?

Proprio cercare di immaginarsi questi Miami Heat ai playoff è un esercizio più complicato di quanto possa sembrare. Jimmy Butler finora si è comportato da rappresentante ideale della “Culture” della franchigia, calandosi perfettamente nel ruolo di leader e dando grandi responsabilità ai compagni (fino agli eccessi della dichiarazione, un po’ paracula, secondo la quale la stella della squadra è Adebayo). Ma una volta arrivati in post-season ci si aspetta un ulteriore salto di qualità nel suo gioco non solamente nei momenti finali delle partite, ma anche nell’arco degli interi 48 minuti e della serie. 

 

Butler finora si sta limitando a essere il closer della squadra, producendo 3.8 punti nelle dodici occasioni in cui le partite sono finite “in the clutch” (10-2 il record, peraltro). Solo Kyrie Irving, D’Angelo Russell, Joel Embiid e James Harden fanno meglio di lui a livello quantitativo, ma le sue percentuali (32.4% dal campo, 21.4% da tre e 70% ai liberi) non fanno esattamente gridare al miracolo, per quanto il record di Miami sia un perfetto 6-0 nei supplementari.

 

È lecito chiedersi se una squadra formata sostanzialmente da giocatori che non hanno ancora dimostrato nulla in carriera (tolti Butler e Dragic) possa mantenere gli stessi altissimi livelli a cui sta viaggiando in questa regular season. Nella quale giocare alla morte ogni possesso di ogni singola sera paga dividendi altissimi, e in cui le difese a zona — di cui spesso Spoelstra fa utilizzo — finiscono per sorprendere gli avversari. Ma quando le altre squadre avranno interi allenamenti di tempo per preparare la serie e avranno il giusto livello di intensità, gli Heat avranno abbastanza talento per poter comunque emergere vittoriosi?

 

È una domanda a cui si potrà rispondere solamente a primavera inoltrata. Ma già il fatto che ce la stiamo ponendo, invece di chiedersi se questi Heat arriveranno ai playoff oppure no, è già una vittoria sorprendente della squadra di coach Spoelstra, che anche quest’anno ha creato un piccolo capolavoro.

 

 

Tags : jimmy butlermiami heat

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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