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La notte che ha cambiato la NBA
01 lug 2019
01 lug 2019
Durant e Irving a Brooklyn, Russell a Golden State e tutto quello che è successo in una nottata di mercato pazzesca.
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16 min
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Foto di Thearon W. Henderson/Getty Images
(copertina) Foto di Thearon W. Henderson/Getty Images
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Se esiste un limite a quante cose possono cambiare nel corso di una notte, nessuno lo ha ancora spiegato alla NBA. Nel giorno dell’apertura della free agency 2019, la lega di Adam Silver si è confermata la miglior macchina di suspense, effetti speciali e colpi a sorpresa del pianeta, ribaltando tutto e il contrario di tutto nel corso di una notte assurda.

Le #WojBombs sono cadute dal cielo come stelle a San Lorenzo, lasciando a tutti quella sensazione di stupore che si prova quando ci si rende conto di essere parte della storia. O quantomeno di un pezzetto di essa. Poche altre volte – forse mai – si era visto un primo giorno di mercato così drammatico e spettacolare, in grado di coinvolgere così tanti dei migliori giocatori della lega e di cambiare drasticamente gli equilibri delle stagioni a venire.

Cerchiamo di mettere ordine, quindi, nel caos di notizie e considerazioni che ci lascia questa prima notte di mercato, partendo ovviamente da quella più importante: le firme di Kevin Durant e Kyrie Irving ai Brooklyn Nets.

L’alba di una nuova dinastia?

Se la decisione di Irving non ha stupito nessuno, con i rumors di un suo matrimonio con Brooklyn (e agognato divorzio da Boston) confermati ben prima di ieri notte, quella di KD sicuramente ha un significato più ampio. Non che fosse del tutto inaspettata anche questa: era da tempo che Irving e Durant alludevano alla possibilità di giocare assieme, le speculazioni sul futuro di Durant si inseguivano dall’inizio della passata stagione (forse anche da prima) e i Nets avevano sapientemente preparato il campo scambiando il contrattone di Allen Crabbe molto prima. Ma un conto è immaginare, un conto è fare i conti con la realtà.

https://twitter.com/wojespn/status/1145437060519604224

La decisione di Durant non solo sancisce la fine della dinastia Warriors per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi tre anni – chiudendo un ciclo vincente (anzi, dominante) di quella che verrà ricordata come una delle squadre più forti di sempre – ma dovrebbe aver posto la prima pietra su quella che potrebbe essere una nuova superpotenza. Golden State sperava che l’offerta da 221 milioni per cinque anni messa sul piatto fosse sufficiente per trattenerlo, ma nella sua testa KD doveva aver le idee piuttosto chiare, dato che raramente si vede un giocatore del suo calibro prendere una decisione così importante già prima dell’apertura (ufficiale) del mercato. Chissà quanto quella gara-5 ha cambiato la narrativa della sua storia della Baia, chissà quanto la partita con i Clippers di inizio stagione e il litigio con Draymond Green abbiano influito. Durant la scorsa estate si prese sei giorni di tempo prima di rifirmare l’annuale con Golden State: chissà quanto quei giorni gli siano serviti, oggi, per avere una situazione chiara di quello che voleva per il suo futuro. Gli stessi discorsi valgono anche per Irving: quanti turning point ci sono stati nei due anni a Boston che lo hanno portato a questa decisione?

Il dato certo a oggi, e forse l’unico che conta veramente, è che con le loro firme i Nets tornano a scrivere il proprio nome sulla mappa dell’élite della lega, concretizzando l’eccellente lavoro svolto nel corso degli ultimi tre anni e mezzo dal General Manager Sean Marks. Da quando è salito in sella nel febbraio del 2016 Marks non ha sbagliato una mossa: non tanto nello scegliere un giocatore piuttosto che un altro o nel fare una trade, quanto nel ricostruire da zero la cultura sportiva di una franchigia in macerie, assumendo un coaching staff all’avanguardia capitanato dall’ottimo Kenny Atkinson, riempiendo gli uffici di persone altamente qualificate, sviluppando attentamente i compartimenti medici e analitici (due componenti fondamentali nella NBA di oggi). Certo, avere una facility che si affaccia sullo skyline di Manhattan aiuta, ma non basta per attrarre i migliori giocatori – e lo stesso Durant, parlando della sua futura off-season lo ha spiegato molto chiaramente.

La struttura dei Nets era talmente solida da darsi la possibilità di inglobare nel loro spazio salariale due talenti come Irving e Durant (più DeAndre Jordan, fortemente voluto dai due, tanto da accettare di prendere un po’ meno del massimo pur di fargli spazio, più Garrett Temple con la room exception) mantenendo a roster Caris LeVert, Spencer Dinwiddie, Jarrett Allen e Joe Harris, ovvero il frutto del lavoro certosino di Marks e del coaching staff. Adesso per i Nets arriverà il bello, anche perché prima di vedere in campo assieme i due fenomeni in una partita ufficiale occorrerà aspettare almeno quindici mesi. Sapere come rientrerà Durant è pressoché impossibile in questo momento (e dalle sue condizioni fisiche passeranno tante delle fortune della squadra) ma c’è di che essere entusiasti.

Il fit tra lui e Irving è istantaneo e omogeneo: la cifra tecnica e balistica di entrambi, elevatissima, darà ampia possibilità di scambiarsi i ruoli di costruttore e realizzatore, così come di comporre un pick and roll pressoché indifendibile. Entrambi sono creatori dal palleggio quasi inarrestabili e siccome non tutti i mali vengono per nuocere, Atkinson e i Nets avranno a disposizione una stagione per rodare Irving (che deve ancora compiere 27 anni) e renderlo un giocatore più maturo e responsabile, dentro e fuori dal campo.

https://twitter.com/jkubatko/status/1145442315391180800

Nella storia recente della NBA era successo solo altre due volte che una franchigia riuscisse a firmare due giocatori che avevano chiuso la stagione precedente con almeno 23 punti a partita: gli Heat del 2010 (LeBron James e Chris Bosh) e i Cavs del 2014 (sempre LeBron, stavolta con Kevin Love). Entrambe hanno poi vinto almeno un titolo.




Il futuro degli Warriors

Perdere uno come Durant non può essere una cosa piacevole, ma gli Warriors sono riusciti quantomeno a indorare la pillola. La sign & trade con cui hanno portato a casa D’Angelo Russell è arrivata come un fulmine a ciel sereno nel cuore della notte, ma restituisce un po’ di star power a una squadra che dovrà fare a meno per gran parte della prossima stagione di Klay Thompson – il quale non ha avuto dubbi nel legarsi a lungo con la franchigia con un quinquennale da 190 milioni (senza opzioni o no-trade clause).

https://twitter.com/wojespn/status/1145535080305242112

Il fit di Russell con Curry e Green non è istantaneo ma ha del potenziale, mentre quando rientrerà Klay le cose potrebbero farsi un po’ più complicate. Per prendere il 23enne ex Nets, gli Warriors hanno dovuto lasciare andare Andre Iguodala, rinunciando a una delle pietre angolari della loro cultura di squadra e dell’identità difensiva, ma i margini di manovra erano davvero risicati. Russell è ancora molto giovane e il suo valore di mercato può ancora salire, specie dovesse fare bene nella Baia, dando al GM Bob Myers - se le cose dovessero andare male - una pedina di scambio intrigante per migliorare il roster nel prossimo futuro.

Gli Warriors stanno pur sempre per inaugurare la nuova arena da 1.3 miliardi a San Francisco: con Steph Curry e Draymond Green (su cui si discute di una possibile estensione) Steve Kerr potrà ancora dare del filo da torcere nella iper-competitiva Western Conference. I picchi di talento e dominio raggiunti negli ultimi tre anni sono probabilmente finiti, ma questo non significa che gli Warriors non possano reinventarsi ancora – anche perché la trade exception generata dallo scambio con i Nets darà loro modo di migliorare ancora il roster – per considerarsi come una delle favorite anche nella prossima stagione. Per una franchigia che ha appena salutato un giocatore del calibro di Durant, potevano esserci scenari peggiori.


Philadelphia Super Big

Nei giorni che hanno preceduto l’inizio della free agency, i Sixers erano indicati da tutti come una squadra della quale erano difficili leggere le intenzioni - cosa che, a posteriori si è rivelata vera. Il General Manager Elton Brand doveva lavorare su più tavoli e più livelli e dalle sue mosse si può provare a intuire quale fosse il suo piano.

https://twitter.com/wojespn/status/1145469484200804354

Dopo averlo fortemente voluto durante la scorsa trade deadline, Tobias Harris era uno dei capisaldi dell’estate di Philadelphia, quantomeno a giudicare dalle cifre e dagli anni del suo nuovo contratto – un gran colpo per uno che un anno fa aveva rifiutato un estensione da 80 milioni con i Clippers – con la sua capacità di spaziare il campo e costruirsi un tiro dal palleggio, ritenute armi imprescindibili da affiancare a Joel Embiid e Ben Simmons. Discorso diverso invece per JJ Redick, la cui firma con New Orleans pochi minuti dopo la mezzanotte potrebbe indicare la mancata volontà di riportarlo indietro.

Discorso più complesso invece per Butler. Le speculazioni sul suo futuro sono state tante e di diversi tipi: Phila sapeva di dover offrire tutto il possibile per tenerlo (190 milioni per 5 anni) con i rumor sulle possibili destinazioni che sembravano il più classico dei giochi al rialzo. Soprattutto considerata la sua importanza su due lati del campo dimostrata negli scorsi playoff, dove di fatto Butler è stato il principale creatore di tiri della squadra. Invece Brand ha optato per un’altra strada.

https://twitter.com/wojespn/status/1145498443781214208

Nonostante non sia stata ancora stata definita del tutto – con Miami che deve liberare molto spazio per fare posto al suo contratto quadriennale – la sign & trade che lo vedrà accasarsi alla corte dei Miami Heat rimodella la fisionomia della squadra allenata da Brett Brown. L’arrivo di Josh Richardson (che ha ancora tre anni di contratto a ottime cifre) garantisce non solo un altro stopper difensivo di qualità, ma anche una combo-guard in grado di costruirsi un tiro dal palleggio e punire sugli scarichi, con margini per poter crescere ancora. L’aver trovato un accordo con Al Horford pochi minuti dopo, invece, dimostra come i Sixers stessero lavorando a un piano alternativo da giorni, confermando i rumor sia sulla partenza di Butler che sul loro forte interessamento per lo stesso Horford.

https://twitter.com/wojespn/status/1145499428398215168

L’aggiunta di Big Al dà a coach Brown un quintetto fisicamente mostruoso, difensivamente versatile e con un potenziale enorme, soprattutto se Harris dovesse dimostrarsi abile nel gestire gli esterni avversari. Il rovescio della medaglia è che ancora una volta la chimica è tutta da trovare. L’ex lungo dei Celtics giocherà spesso da power forward, ruolo che grazie alla sua mobilità, al suo playmaking secondario e al suo 37% da tre punti in carriera può ricoprire senza grossi problemi, ma offrirà un'alternativa anche a Embiid nel ruolo di centro, riempiendone i minuti quando il camerunese sarà in panchina (e trovare il backup di Embiid è sempre stato difficile negli ultimi anni). A 33 anni è difficile capire quanto sarà ancora in grado di giocare a certi livelli, ed è legittimo chiedersi se fosse proprio questo il giocatore che serviva a Phila per fare il salto di qualità, dal momento che forse serviva più un creatore di tiri che un collante di estrema intelligenza che è al suo meglio quando può agire nelle pieghe della partita.

I Sixers erano chiamati a una grande free agency e hanno finito col costruire, letteralmente, una grande squadra. Se puoi sarà anche forte, questo lo dirà il campo: sicuramente restano una della favorite ad Est, e non era scontato che ci riuscissero con tre quinti del quintetto in scadenza.




Kemba Town

Consapevoli di perdere Horford e Kyrie Irving, i Boston Celtics non sono restati a piangersi addosso. La firma di Kemba Walker (in una sign & trade che vedrà Terry Rozier fare il percorso inverso) è un bel premio di consolazione, nonché un’aggiunta interessante per una squadra in cerca di una nuova identità tattica.

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L’arrivo del tre volte All-Star da Charlotte restituisce a Brad Stevens una point guard di assoluto livello, in grado di orchestrare per i compagni così come di fungere da solista. Il trend di guardie sottodimensionate da cui far passare l’attacco dei Celtics è ormai una cosa consolidata (prima Isaiah Thomas, poi Kyrie Irving), ed è quindi una mossa che ha tutti i contorni del buon senso. Ma sarà anche in grado di risolvere i problemi offensivi dei Celtics?

Il roster costruito da Danny Ainge è pieno zeppo di esterni tanto da essere quasi ridondante e, come ha dimostrato la scorsa stagione, giocatori come Jayson Tatum e Gordon Hayward sono più a loro agio quando possono agire maggiormente con la palla. Walker è un giocatore intelligente e le sue doti balistiche gli permetteranno di giocare più spesso (e bene) anche lontano dal pallone, soprattutto con dei compagni qualitativamente migliori rispetto a Charlotte, ma la sua forza sta nel poter costruire dal pick and roll e nel poter manipolare gli spazi e i tempi dell’attacco. Kemba sembra ben più adatto di Irving a capire la filosofia dei Celtics (le statistiche dei due nelle ultime 300 partite giocate sono pressoché identiche) ma ci sarà da lavorare.

La perdita di Horford (e Marcus Morris, a meno di sorprese) lascia un vuoto enorme nel frontcourt e i soldi e le alternative per migliorare la squadra scarseggiano. Horford, inoltre, era anche la miglior polizza assicurativa contro Giannis e Embiid ai playoff, due avversari che necessariamente i biancoverdi si ritroveranno ad incrociare. Ma è troppo presto per esprimere giudizi tecnici: quello che è importante per Boston è non essere caduta in un’estate che sembrava poter riservare delle grosse insidie. Aver firmato il terzo grosso free agent degli ultimi cinque anni dimostra la bontà del lavoro di Ainge e Stevens. Scommettere contro i Celtics non è mai una cosa buona, storicamente parlando.


Le decisioni dei Bucks

Anche i Milwaukee Bucks non sono rimasti a guardare, e da vice-campioni in carica della Eastern Conference hanno cercato di riportare indietro il grosso del nucleo dello scorso anno.

https://twitter.com/wojespn/status/1145452110051467272

Le firme di Khris Middleton e Brook Lopez erano nell’aria da giorni e hanno rispettato grossomodo le aspettative. Per quanto riguarda Malcolm Brogdon, invece, i Bucks avevano lasciato intendere di essere preoccupati che potesse arrivare un’offerta difficile da pareggiare: ne ha approfittato Indiana, che con una sign & trade costata tre scelte (una prima e due seconde) e 85 milioni tutti garantiti per i prossimi quattro anni, ha messo le mani su un ottimo giocatore di complemento, perfetto da mettere al fianco di Victor Oladipo, ma su cui evidentemente i Bucks avevano fissato l’asticella al massimo a 20 milioni a stagione.

Il GM Jon Horst ha preferito puntare sui contratti di George Hill (29/3) e Robin Lopez (10/2 con player option sul secondo anno), veterani che avranno un buon impatto e con i quali i Bucks sperano di non soffrire troppo l’assenza di quello che era un giocatore fondamentale della loro rotazione della scorsa stagione, ma che spesso ha avuto problemi fisici di varia natura. Milwaukee resta una delle principale candidate ad Est, ma dovrà giocarsi bene le proprie carte (a questo proposito: l’eccezione salariale generata dalla trade Brogdon potrebbe servire per aggiungere un ulteriore pezzo a stagione in corso) dal momento che la prossima estate Antetokounmpo potrà decidere cosa fare del suo futuro. Dovesse rinunciare all’estensione clamorosa che solo i Bucks possono offrirgli, le cose si metterebbero molto male.


Jazz e Pelicans fanno sul serio, a modo loro

Se anche solo un mese fa vi avessero detto che i Pelicans sarebbero stati una delle franchigie più interessanti della lega DOPO aver scambiato Anthony Davis, ci avreste creduto? E se ci avessero detto che i Jazz potrebbero essere una delle favorite a vincere la Western Conference? Il bello della NBA sta anche, se non soprattutto, nella sua totale imprevedibilità.

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Con la firma di J.J. Redick (26.5/2), quella di Nicolò Melli (8/2) e l’arrivo di Derrick Favors, i Pelicans hanno fatto altri tre passi importanti verso la vittoria assoluta del #LeaguePassAlert per la prossima stagione, ma non solo. Tutti gli innesti del nuovo deus ex-machina di New Orleans, David Griffin, trovano la propria posizione con naturalezza, pezzi di un puzzle che entusiasma ancora prima di restituire l’immagine completa. Dopo aver accumulato tutto il talento possibile nella notte del Draft e nella trade-Davis, i Pelicans dovevano munirsi di tiratori e veterani in grado di fare da chioccia ai tanti giovani: fare meglio di così senza compromettere la flessibilità futura era praticamente impossibile.

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Un’altra delle assolute vincitrici della prima notte di mercato sono i Jazz, che dopo aver preso Mike Conley via trade piazzano un colpo importante con Bojan Bogdanovic. L’ex Pacers prenderà il posto (nominalmente) di Favors nello scacchiere tattico di coach Snyder e sembra un elemento perfetto per giocare nel sistema dei Jazz. I suoi numeri al tiro sono impressionanti tanto quelli di Conley – con l’Advantage Basketball di Snyder che finalmente potrebbe venire ricompensato a dovere – e la loro presenza non peggiora l’assetto difensivo della squadra. Nella scorsa stagione Bogdanovic ha dato prova di poter fungere anche da portatore di palla primario e la sua aggiunta è un’ulteriore conferma della volontà dei Jazz di cambiare qualcosa nei loro set offensivi. Il roster è ancora da rifinire (l’aggiunta di Ed Davis è un’altra bella mossa), ma in questo momento poche squadre sembrano possedere la completezza dei Jazz sui due lati del campo.


Perdere l’amore

Come era ovvio che fosse l’apertura della free agency ha portato in dote anche le prime grandi delusioni. E nessuna franchigia ha deluso più dei New York Knicks.

https://twitter.com/wojespn/status/1145476068498989063

Dopo una stagione fallimentare sotto ogni punto di vista e dopo la trade che ha visto Kristaps Porzingis accasarsi a Dallas (con 158 milioni di motivi anche per rimanerci), i Knicks promettevano un’estate da assoluti protagonisti, almeno stando alle parole del proprietario James Dolan. Invece per i tifosi di New York è stato un autentico fallimento: dopo le delusioni al Draft e con Anthony Davis, vedere i cugini dei Nets dominare la scena è un colpo tremendo, soprattutto dopo alcune indiscrezioni uscite in seguito.

Le firme pluriennali di Julius Randle (63/3), Bobby Portis (31/2) e Taj Gibson (20/2) non possono essere un palliativo sufficiente (anzi) per una franchigia che da anni, ciclicamente, fallisce l’opportunità di rimettersi sulla giusta strada e costruire un programma che possa rilanciare l’ambiente. Poco importa che tra due anni torneranno ad avere tutto il loro spazio salariale: i Knicks dovevano dimostrare di essersi lasciati alle spalle i fantasmi disfunzionali degli ultimi anni e nelle ultime 24 ore, invece, non hanno fatto altro che mettere ancora più ombre sulla loro reale tenuta.

https://twitter.com/wojespn/status/1145562746253172737

Per il momento non ridono neanche gli L.A. Clippers, un’altra franchigia che non riesce a lasciarsi davvero alle spalle la nomea che l’accompagna. Il lavoro di Jerry West, Steve Ballmer e Doc Rivers resta di altissimo livello, ma ogni secondo che passa si ha come l’impressione che la finestra Leonard – il vero, grande, obiettivo di mercato dichiarato – si chiuda sempre di più. Soprattutto dopo le ultime indiscrezioni, che vorrebbero i cugini dei Lakers in vantaggio qualora l’MVP delle Finals decidesse di andarsene da Toronto. Patrick Beverley è un buon giocatore e la squadra dovrebbe essere dignitosa anche nella prossima stagione, ma ovviamente tutto passa da Kawhi, l’ultima tessera del domino che definirà questa folle sessione di mercato.

Quasi cinquanta giocatori sono stati firmati o scambiati, con contratti per un valore complessivo di oltre 3.2 miliardi di dollari. Numeri che nei prossimi giorni supereranno anche la folle estate del 2016 e che per importanza ci regalano già oggi una NBA diversa, mutata nella forma ma non nel contenuto: perché se cercate la miglior lega del mondo, l’indirizzo è sempre lo stesso.




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