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Emanuele Mongiardo
Sofiane Boufal ti dribbla in un fazzoletto
07 dic 2022
07 dic 2022
Spagna-Marocco ha evidenziato il talento tutto magrebino nel dribbling del giocatore dell'Angers.
(di)
Emanuele Mongiardo
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Hector Vivas - FIFA/FIFA via Getty Images
(foto) Hector Vivas - FIFA/FIFA via Getty Images
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Qatar 2022 si porta dietro questioni problematiche. In questo articolo abbiamo raccolto inchieste e report che riguardano le morti e le sofferenze ad esso connesse. Prima di rivelarsi come una delle sorprese dei mondiali in Qatar, si era parlato del Marocco soprattutto per la provenienza geografica dei suoi calciatori. Su ventisei convocati, infatti, ben quattordici sono nati e cresciuti in Europa, legati alla propria terra solo dalle origini dei genitori o addirittura dai nonni. Per questo motivo da più parti il Marocco è stato definito come la più europea tra le Nazionali africane – magari con una punta di eurocentrismo, anche in riferimento all’eccellente organizzazione difensiva dei "leoni dell’Atlante", come se una buona preparazione tattica non potesse appartenere alle nazionali del continente africano. Il discorso sui luoghi di nascita dei calciatori marocchini porta, per i più conservatori, ad un quesito piuttosto spontaneo: quanto c’è davvero di marocchino in questa nazionale? È un prodotto genuino di quel sistema calcistico di quel paese o è una versione raffazzonata del calcio europeo? Senza sindacare sulla retorica nazionalista e reazionaria che spesso accompagna questo tipo di domande, da un punto di vista calcistico non c’è una risposta univoca. Ci sono giocatori il cui modo di stare in campo ha subito di certo l’influenza della nazione di nascita, ma ce ne sono altri in cui radici magrebine sono individuabili già al primo tocco di palla.

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Prendiamo Ziyech per esempio. Il trequartista del Chelsea ha sempre vissuto in Olanda, è cresciuto in Eredivisie e ha indossato la maglia di tutte le nazionali giovanili oranje. Nel 2015, però, grazie ad una certosina opera di persuasione della federazione marocchina ha deciso all’improvviso di abbracciare la causa del paese dei suoi genitori. Nonostante la scelta, la formazione di Ziyech suggerisce che dovrebbe trattarsi di un puro talento olandese. Basta guardare il suo modo di stare in campo, però, per accorgersi che non è così: fate un confronto con i pari ruolo dell’Olanda attuale, e osservate quanto è più minimale il calcio dei Gakpo, Klaassen o Berghuis rispetto al suo. Credete sia solo una questione di talento? Fate allora un confronto con due fuoriclasse del passato come Sneijder e van der Vaart: di certo si tratta di due giocatori superiori a Ziyech (almeno il primo) ma quanto era più convenzionale il loro modo di controllare e colpire la palla rispetto a quello del giocatore del Chelsea? Nel repertorio di Ziyech, nei suoi cambi gioco tagliati, nei suoi tunnel, nelle sue rifiniture a volte geniali e spesso incomprese, c’è un gusto molto più vicino al calcio del Maghreb. Si può dire quindi che l’Olanda avrà di certo instradato la sua carriera, ma nel patrimonio genetico del suo sinistro c’è altro. Ziyech, però, non è l’esempio canonico dell’ideale di calciatore nordafricano perché gli manca forse uno degli aspetti più caratteristici, ovvero il dribbling nello stretto. È difficile da spiegare la capacità che hanno in quelle zone di produrre calciatori capaci di nascondere la palla in un fazzoletto. Per i trequartisti, gli esterni, le mezzepunte algerine, marocchine, tunisine il calcio è innanzitutto espressione della propria personalità: l’indole artistica del loro gioco, soprattutto nei dribbling, è veramente un fenomeno unico al mondo, che meriterebbe un approfondimento a livello antropologico. Altre scuole hanno prodotto grandi dribblatori, ma quella nordafricana è differente da chiunque. Rispetto ad argentini e brasiliani lo stile magrebino delle volte rimane fine a sé stesso, non riesce a legarsi in modo organico allo sviluppo del gioco, tuttavia, nessuna tradizione riesce ad esprimere l’impronta del futsal e del calcio di strada più di quella magrebina. Non è un caso che i frutti migliori – Zidane, Ben Arfa, Belhanda – arrivino quando il retaggio nordafricano si lega alla formazione nella banlieue, dove diventa necessario adattarsi col pallone alle condizioni della strada: l’asfalto, gli spazi angusti, il battimuro come miglior alleato. Così, nasce una stirpe di calciatori ossessionati dalla suola e dai tunnel, a cui può bastare un solo movimento del bacino, senza nemmeno toccare la palla, per mandare fuori strada il marcatore. Se avete guardato l’ottavo di finale tra Spagna e Marocco, a questo punto dell’articolo avrete capito che il massimo esponente della tradizione magrebina, tra i leoni dell’Atlante, è Sofiane Boufal. Da dove viene Boufal La partita di ieri pomeriggio non è stata di certo spettacolare. Fino a quando è rimasto in campo, però, Sofiane Boufal è stato la principale attrazione dell’incontro. Si credeva che il Marocco potesse giocarsela per la corsa, per la compattezza, per il coraggio, non di certo per il talento. Invece, ad un certo punto del primo tempo, abbiamo avuto tutti l’impressione che il giocatore con i piedi migliori in campo appartenesse alla nazionale nordafricana. Boufal si è dimostrato all’altezza di avversari più blasonati. Con i suoi dribbling, ci ha offerto una prospettiva su due modi differenti di declinare la tecnica: più ortodossa quella degli spagnoli – evidente soprattutto nella pulizia di Dani Olmo, per larghi tratti il migliore dei suoi – più estrosa, imprevedibile, quella del marocchino. Boufal aveva attirato l’attenzione del grande pubblico qualche stagione fa, nel 2015/16, al termine di una stagione col Lille in cui aveva realizzato undici gol e quattro assist. Quell’annata gli era valsa un trasferimento in Premier League, al Southampton, dove nel giro di qualche mese è diventato solo uno dei tanti talenti ingrigiti dalla mediocrità di squadre più ricche delle loro reali ambizioni. Della sua esperienza in Inghilterra rimane soprattutto un gol incredibile segnato ad ottobre 2017, dopo uno slalom partito dalla propria metà campo, per il resto poco altro; una infausta parentesi in Spagna al Celta Vigo e poi il ritorno all’Angers, la squadra in cui è cresciuto e dove milita ancora oggi.

Angers, d’altra parte, è anche la città di Boufal. Abitava alla Roseraie, quartiere popolare che negli anni ‘60 si è riempito di immigrati dalle vecchie colonie. Ha vissuto lì, con sua madre, fino al giorno del trasferimento al Lille, nell’estate del 2015. Senza partire dal suo quartiere, è impossibile comprendere il calcio di Boufal. È entrato nelle giovanili dell’Angers da giovanissimo, ad undici anni, ma non si è limitato ad allenarsi solo con la squadra della città. Lontano dal campo, ha continuato a giocare a calcetto al Jean Vilar, centro ricreativo di quartiere frequentato da tutti i ragazzi de La Roseraie. C’è altro, però, che ha forgiato la tecnica del marocchino. «Il futsal mi ha aiutato a migliorare», ha detto in un’intervista, «ma mai quanto le partitelle nei parcheggi sotto casa mia». La dimensione di strada è il tratto prevalente del calcio di Boufal. Nel suo repertorio ci sono trucchi che non si spiegano altrimenti. La partita di Boufal Quando Spagna-Marocco comincia, la sensazione è che telecamera sia piazzata troppo in basso rispetto al campo. La prospettiva è schiacciata (un problema di alcuni grandi stadi come Allianz Arena e Stamford Bridge) e quindi cogliere lo sviluppo del gioco e le reali distanze tra i ventidue in campo diventa più difficile. Per fortuna, Boufal gioca proprio sul lato della telecamera, a sinistra dell’attacco nordafricano, e così, almeno, le riprese diventano una sorta di primo piano dedicato alla sua tecnica, perfetto per godere di un modo così particolare di trattare la palla. Boufal entra in possesso per la prima volta dopo sei minuti e mette subito in chiaro qual è il suo calcio. C’è un rinvio dal fondo per il Marocco e la Spagna è alta in pressing. Bounou calcia lunghissimo verso la fascia sinistra, dove En-Nesyri impedisce a Rodri di saltare e fa scorrere la palla verso Boufal, appostato alle spalle della difesa iberica. L’ala prova a crossare per Ziyech sul secondo palo, Laporte risputa il pallone fuori area e Ounahi, che raccoglie la seconda palla, appoggia nuovamente per Boufal aperto. Llorente, schierato per la prima volta come terzino destro titolare da Luis Enrique, gli si fa sotto. Il marocchino non aspettava altro. È un isolamento frontale, la sua situazione preferita, in cui si può sbizzarrire se l’avversario non è scaltro quanto lui. Boufal finge un doppio passo, si sbilancia totalmente col corpo verso l’interno, come se volesse convergere, ma la palla non la tocca mai, resta ferma. Lo spagnolo abbocca, lo segue verso il centro e così a Boufal, che nel frattempo è già tornato sul pallone, basta un tocchetto di sinistro verso il fondo per saltarlo. È come se il marocchino si fosse sdoppiato e Llorente avesse seguito il suo ologramma.

Non sarà l’unica volta in cui Boufal ingannerà il giocatore dell’Atletico Madrid con un movimento del corpo, senza nemmeno sfiorare la sfera. Un quarto d’ora dopo, infatti, riceve ancora largo a sinistra, in uno contro uno col terzino. Boufal prepara la trappola con la suola, scuote la palla sotto i tacchetti come solo i magrebini sanno fare; nessuno, forse nemmeno gli argentini, usa quella parte del piede meglio di loro. È un modo per sfottere, e quindi per sfidare, l’avversario. Llorente all’inizio resta in posizione, ma con giocatori ingannevoli come Boufal è quasi impossibile applicare il vecchio adagio «guarda solo la palla». Il marocchino prima abbozza un doppio passo, poi all’improvviso scopre totalmente il pallone saltando come un canguro sulla sua sinistra, verso la linea laterale. Llorente prova a seguirlo, ma con un altro flessuoso saltello Boufal ritorna sulla palla e piega il ginocchio del destro fintando di convergere, stavolta verso il centro. Llorente ci casca in pieno, il suo occhio non è abbastanza veloce, e così si sbilancia di nuovo sull’interno. Come nel loro primo incontro, Boufal ha ancora una volta la strada spianata per saltarlo verso il fondo.

L’idea dietro i due dribbling su Llorente è lo stessa: ingannarlo con i movimenti del bacino e delle gambe per saltarlo verso il fondo. L’esecuzione, però, non è mai uguale ed è sempre estremamente elaborata, piena di ricami preziosi. Nessun dribbling è uguale a quello precedente per un giocatore come Boufal, il cui campionario di tranelli e ricorsi tecnici è infinito, difficile anche solo da immaginare per chi non si è formato per strada. Il dribbling per Boufal non è solo questione di tecnica ma anche di furbizia, che deriva dalle ore passate a sperimentare i propri artifici sul parquet o sull’asfalto. Ad esempio, saltare l’uomo in pochi metri è più difficile, certo, ma come tutti i grandi maestri del calcio di strada, Boufal sa che più si riducono gli spazi, più l’avversario diventa aggressivo e maggiore è la possibilità di ingannarlo. Lo impara a proprie spese Gavi, intorno al 20’ del primo tempo.

Il centrocampista del Barcellona prova a verticalizzare sulla trequarti nordafricana, ma Ounahi intercetta la palla che arriva tra i piedi di Boufal, vicino la linea laterale. Il marocchino rallenta e si avvicina il più possibile al bordo del campo. Sa che in quella zona Gavi, che lo immagina intrappolato per il poco spazio, proverà in maniera decisa ad affondare il tackle. È proprio quello che succede. L’andaluso mette la gamba e Boufal pattina con una croqueta sulla linea laterale, in un cunicolo sufficiente a sfilargli accanto e superarlo. A quel punto gli si para davanti Llorente, che preferisce coprire il fondo; Boufal si flette verso l’interno e lo salta. In uno slancio di onnipotenza prova il cambio gioco per Ziyech, ma Jordi Alba intercetta. Ecco, se si deve trovare un difetto alla partita di Boufal, è che spesso dopo il dribbling l’azione non ha avuto sbocchi interessanti, un po’ per le sue cattive scelte, un po’ perché il Marocco, difendendo con un blocco basso, non sempre faceva in tempo a fornirgli buone soluzioni. Boufal stesso si è prodigato in rientri profondi, è stato ligio al dovere nel 4-1-4-1 con cui Walid Regragui ha imbrigliato Luis Enrique. I suoi dribbling, allora, più che a creare occasioni, sono stati utili ad allentare la pressione spagnola e ad accendere l’animo del Marocco, convincendo i compagni e i tifosi che si potesse competere occhi negli occhi contro un avversario di livello così alto. L’azione del cambio gioco su Jordi Alba, d’altronde, si è conclusa con una seconda palla riconquistata da Hakimi a cavallo del centrocampo, che ha permesso di alzare il baricentro, quindi il lancio di Boufal non è stato del tutto velleitario. Le volte in cui è riuscito ad incidere sulla produzione offensiva, invece, i compagni non sono stati alla sua altezza. In più di un’occasione, con un dribbling verso l’interno, è riuscito a creare spazio sulla corsia per la sovrapposizione di Mazraoui. Quando Boufal lo ha servito sulla corsa, però, il terzino del Bayern ha sempre sbagliato il cross (è destro naturale, ma a causa della presenza di Hakimi si adatta a giocare a sinistra) o ha provato a rientrare sul piede forte senza esito. L’opportunità migliore Boufal l’ha creata verso la fine del primo tempo: dopo una spizzata verso il secondo palo, Boufal si è ritrovato in isolamento con Pedri sul lato corto dell’area. Niente da dire sul centrocampista canario, ma i giocatori poco abituati a difendere come lui Boufal potrebbe saltarli con gli occhi bendati: fa per rientrare sul destro, Pedri mette il piede e a Boufal basta una normalissima sterzata - normale per uno come lui, perché in realtà la esegue in un fazzoletto di campo - per saltare lo spagnolo verso il fondo e disegnare un cross di sinistro sul secondo palo, che Aguerd spedisce di poco alto di testa.

Una delle battute più note di C’era una volta in America è quella di Noodles, nel momento in cui cerca di sfilarsi dalle ambizioni di Max: «A me piace moltissimo la puzza della strada, mi fa sentire bene, mi si aprono i polmoni quando la sento… e mi tira anche di più». La scuola magrebina non ha il successo, né l’eleganza di quella sudamericana o anche di quella balcanica, per citare altre due tradizioni da sempre attente all’estetica, tuttavia nessuna si porta dietro la puzza della strada più di quella nordafricana, anche nel torneo più importante al mondo, in una partita in cui il compito del Marocco fosse soprattutto di rottura del gioco avversario. Forse è anche il motivo per cui i suoi talenti, salvo rari casi, non riescono mai ad imporsi fino in fondo e finiscono per perdersi. Boufal, Fekir, Boudebouz, Belhanda, Feghouli, Harit, Taarabt, e prima di loro Saïfi, Meghni e Ben Arfa. Quello stile fa parte del proprio patrimonio personale, non è possibile negoziarlo. Servono ore e ore di pratica, lontano dagli allenamenti, per raggiungere quell’intimità con la palla. È un modo di giocare difficile da applicare con continuità, non sempre si trasforma in qualcosa di concretamente utile e spesso si perde negli stereotipi che penalizzano i talenti di origine algerina, marocchina o tunisina, soprattutto se nati in Francia. Boufal ha ventinove anni e il suo Angers è ultimo in classifica. Potrebbe essere stata l’ultima volta in cui il mondo lo ha visto in televisione. Gli amanti del genere conserveranno con cura nella memoria quell’oretta di gioco in cui, per una volta, uno dei talenti migliori e meno reclamizzati della scuola dei trequartisti magrebini ha trovato un palcoscenico grande abbastanza in cui esprimere la propria arte.

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