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Foto di Michael Reaves / Getty
NBA Dario Costa 26 gennaio 2017 10'

Make the Lakers great again

Luke Walton, l’uomo che (forse) riporterà in alto i Los Angeles Lakers.

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Dall’inizio del training camp, le giornate dell’allenatore più giovane di tutta l’NBA cominciano con una seduta di aerobica in acqua. Le lunghe esperienze di sofferenza fisica testimoniate in prima persona — dalle traversie paterne ai continui disturbi del maestro zen Phil Jackson proprio sulla panchina gialloviola, fino al dolore alla schiena che ha costretto Steve Kerr a una lunga assenza a Golden State — hanno segnato Luke Walton. Consapevole di quanto sia importante la piena efficenza fisica anche per chi scende sul parquet in giacca e cravatta — soprattutto nel caso sempre più diffuso in cui si tratti di ex-giocatori reduci da una lunga e logorante carriera — dal suo approdo alla guida dei Lakers, Walton ha istituito, primo e finora unico nella lega, un’equipe medica deputata in via esclusiva al monitoraggio della salute sua e dell’intero coaching staff. Scelta, questa, che oltre a generare un dibattito acceso all’interno delle altre franchigie e nella Coaches Association, sintetizza in modo pressoché perfetto l’atteggiamento con cui Luke Walton intende affrontare il suo primo incarico da capo allenatore: trarre ispirazione dalla incomparabili esperienze maturate come giocatore e nel ruolo di assistente, provando al contempo a innovare laddove l’evoluzione del ruolo apra spazi per nuove visioni.

 

 

L’erede e il discepolo

 

Nato e cresciuto a San Diego, figlio di un’autentica divinità del gioco (l’evidente ereditarietà genetica, testimoniata da attitudine caratteriale e tratti somatici, è confermata dal tatuaggio a tema Grateful Dead, vero e proprio marchio di famiglia), la carriera da giocatore di Luke Theodore Walton si è dipanata in una delle più azzeccate e fruttuose interpretazioni del concetto di role player. Una parte del copione che, per quanto in apparenza marginale, è da sempre decisiva per il successo di squadra, in particolare quando capita di indossare la stessa maglia di superstar come Shaquille O’Neal e Kobe Bryant. La comprensione del gioco e la naturale disposizione a mettersi in relazione con compagni e staff tecnico, dopo avergli regalato undici stagioni nella lega e due anelli di campione, hanno reso quasi inevitabile il passaggio alla panchina, a cui Jackson lo preparava dandogli piccoli compiti di scouting e facendolo partecipare ad alcuni riunioni degli allenatori. Già sperimentato il ruolo come assistente alla University of Memphis durante il lockout del 2011 per poi far di nuovo rotta su L.A. e guidare i D-Fenders in D-League, il vero e proprio salto di qualità per Luke Walton è avvenuto risalendo la costa californiana fino alla Baia. I due anni trascorsi a fianco di Steve Kerr sulla panchina di Golden State sono stati il trampolino di lancio per poi ridiscendere verso sud e sedersi sul pino dell’antico maestro Phil Jackson. Tornando là dove aveva maturato i trionfi da giocatore, il figlio del grande Bill ha accettato una missione quasi impossibile: riportare in alto i Lakers.

 

Dal momento dell’avvento di Phil Jackson, anno domini 1999, la storia della seconda franchigia più vincente della storia NBA si divide in due tronconi. Nelle undici stagioni in cui il Maestro Zen è rimasto in panca sono arrivate sette finali, cinque titoli e una percentuale di vittorie in regular season del 68%. Nelle restanti sei, che hanno visto l’avvicendarsi di cinque diversi allenatori, la percentuale di vittorie è scesa ad un misero 38% e per ben quattro volte i playoff sono rimasti un miraggio. Al netto dell’inevitabile ciclicità a cui ogni squadra NBA che non si chiami San Antonio Spurs è soggetta, è evidente come a L.A. l’ombra lunga di Jackson — allungatasi poi anche sulla lunga faida famigliare seguita al decesso del patriarca Jerry Buss (l’ufficialità della separazione dopo 18 anni tra Phil e Jeanie Buss risale a poche settimane fa) — abbia finito per incombere sulla franchigia contribuendo a sabotare ogni tentativo di voltare pagina. Le ultime tre annate, poi, sono state le peggiori nella storia dei Lakers, i giorni più cupi per una squadra che mai aveva bazzicato i bassifondi della lega con questa continuità.

 

Non bastasse, la situazione a livello di dirigenza sconta ancora gli effetti della discussa presenza di Jim Buss, controverso figlio prediletto del proprietario scomparso nel 2013. Pur messe da parte le aspre polemiche con la sorella Jeanie a proposito del mancato ritorno di Phil Jackson al timone della squadra nel 2012, il responsabile tecnico dei Lakers ha messo in atto strategie confusionarie e foriere di pessimi risultati. Perso da tempo il glamour che permeava la franchigia, i Lakers nelle ultime estati sono stati regolarmente snobbati dai free agent più ambiti, molti dei quali hanno negato loro persino la possibilità di un colloquio conoscitivo, mentre altri (tipo LaMarcus Aldridge) hanno dovuto concederne un secondo per rimediare ai disastri del primo. La promessa fatta da Buss Jr. nel 2014, ovvero quella di riportare i Lakers ai vertici della lega entro tre anni, rischia seriamente di assumere le sembianze della celeberrima Profezia dell’Armadillo di Zerocalcare.

 

Tuttavia, nonostante le perverse strategie di mercato e l’imperscrutabile gestione delle varie guide tecniche succedutesi negli ultimi anni, la proverbiale fortuna gialloviola ha fatto sì che nei meandri dei vari Draft venisse accumulato un nucleo di giocatori giovani da cui ricominciare. E se D’Angelo Russell prima e Brandon Ingram poi sono state le scelte più alte dai tempi di James Worthy (anno 1982, giusto per capire quanto di frequente i Lakers siano stati costretti a ricorrere alle promesse in uscita dal college durante gli ultimi 30 anni abbondanti), i vari Julius Randle, Larry Nance Jr, Jordan Clarkson — e forse forse anche Ivica Zubac — sono stati colpi tutto sommato positivi, considerata la posizione in cui sono stati scelti. Il materiale, insomma, è di quelli ideali per un coach giovane, alle prime armi e armato di pazienza, perché in questa lega non si vince con i ragazzini (il maestro zen diceva che NBA stava per No Boys Allowed). Quanto all’essere snobbati dai grandi nomi, Walton non ha fatto mistero di preferire una ricostruzione più graduale attraverso lo sviluppo e la crescita dei giocatori a disposizione, puntando poi sul prossimo Draft per aggiungere l’ultimo e definitivo pezzo.

 

Quello del 2017 sarà infatti l’ultimo nel quale i Lakers godranno della protezione del loro pick nel caso fosse tra i primi tre, eventualità già verificatasi negli ultimi due anni (la fortuna di cui sopra, gentilmente fortificata dalla presenza di un mammasantissima del tanking involontario come Byron Scott), ma di cui non potranno avvalersi nel 2018, quando, indipendentemente dal posizionamento, la loro scelta andrà a Philadelphia (applausi, tardivi, per lo scienziato pazzo Sam Hinkie, please). Per gli adepti al culto gialloviola, la professione di Walton suona come una vera e propria messa nera. Ma i tempi sono questi, per essere una star globale va bene anche giocare a Oklahoma City o Milwaukee e la scritta Hollywood attira ormai solo turisti in cerca di un selfie celebrativo a basso coefficiente di creatività.

 

Non bastasse la diminuzione della forza di gravità che storicamente attirava le star verso L.A., il nuovo contratto collettivo recentemente rinnovato, che in sostanza concede un vantaggio nella proposta economica alla squadra che detiene i diritti del proprio giocatore pescato al Draft, rende ancora più complicato tentare campioni di quel calibro dal punto di vista economico. In ultima analisi, poi, quel motto che spesso si sentiva mormorare dagli addetti ai lavori nei corridoi della lega — “Ciò che è bene per i Lakers è buono per l’NBA” — non sembra avere più il riscontro che, in un’epoca non così lontana, concedeva ai Lakers, e ai Celtics rivali di sempre, un recondito vantaggio operativo sulle rivali. La missione di Walton sarà quindi quella di condurre la squadra privilegiando la ricerca di un’identità caratteristica, pur sapendo al contempo che la pazienza degli adepti di cui sopra e il boomerang rappresentato dalle scelte di mercato effettuate negli anni precedenti finirà giocoforza per accorciare i tempi della rincorsa verso una nuova era di supremazia purple&gold.

 

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Tags : coachlos angeles lakersluke walton

Dario Costa è nato trentotto giorni dopo Kobe Bryant. È innamorato e scrive di musica e pallacanestro, spesso mescolate insieme. Ha collaborato con Barracuda Rock Tour e Rivista Ufficiale NBA.

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