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Dario Vismara
Come diventare Phil Jackson
28 apr 2014
28 apr 2014
Phil Jackson è il nuovo Presidente dei New York Knicks. In onore della pubblicazione del suo libro, "Eleven Rings", ecco gli undici passi da seguire per diventare l'allenatore più vincente della storia NBA.
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Dario Vismara
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Phil Jackson è, è stato e sempre sarà un uomo enigmatico, spigoloso, controverso nel senso letterale della parola. A tratti incomprensibile, anche per chi gli sta intorno; allo stesso tempo tremendamente affascinante, profondo, vincente. Diverso. Diverso da tutti gli altri allenatori della storia NBA, diverso da tutti gli altri personaggi dello sport contemporaneo, diverso nei modi di fare e di essere. Unico, e per questo difficilmente catalogabile. Phil Jackson è Phil Jackson, un nome prima ancora che una persona in carne ed ossa, e per capire cos'è bisogna scavare nel suo passato. Qui, in undici passaggi come gli undici titoli NBA che ha vinto da capo allenatore, e come il titolo del suo ultimo libro, Eleven Rings – L’anima del Successo che ho avuto il piacere di tradurre e da cui sono tratti i virgolettati di questo pezzo, cercherò di spiegare Come Diventare Phil Jackson. 1. CRESCERE IN NORTH DAKOTA Osservando e conoscendo le idee filosofiche e politiche di Phil Jackson, sarebbe plausibile pensare che il piccolo Phil sia cresciuto in un ambiente da “figli dei fiori”, con droghe leggere e idee di sinistra fin dall'infanzia. In realtà i suoi genitori—Charles («un uomo alto e bello dai capelli ricci, occhi scuri e un contegno sempre discreto e pacato») ed Elizabeth («una donna forte e carismatica, con occhi blu cristallo, capelli biondi e forti tratti germanici»)—sono probabilmente le persone più bigotte dell'intero stato del North Dakota, dove Phil è cresciuto. Non solo fanno i pastori pentecostali di professione, ma seguivano alla lettera gli insegnamenti di San Paolo, ovverosia «fare parte di questo mondo ma non esserne parte». Quindi l'infanzia di Phil e dei suoi fratelli (Charles, Joe e Joan) consiste di: messa tutti i giorni (la domenica due volte, per seguire i sermoni sia di papà che di mamma), niente televisione, niente film, niente fumetti, figuriamoci andare a ballare—anzi, non gli è permesso nemmeno «socializzare con i nostri amici di scuola alla mensa del paese». I genitori costringono i ragazzi a vestirsi solo con magliette bianche, e all'unica sorella Joan non è permesso di indossare né i pantaloncini né ovviamente un costume da bagno. Insomma, se l'ambientino in casa non è dei migliori, fuori è pure peggio, perché tutti i compagni di classe li prendono in giro, definendoli «strani e antiquati». Tutte queste costrizioni hanno progressivamente spinto Phil ad allontanarsi dalla religione professata dai suoi genitori—che ambivano a far diventare tutti i figli pastori come loro—e a cercare ogni modo possibile per fuggire da casa e dagli obblighi della domenica. In questo contesto il basket liceale—che lo impegnava per trasferte di oltre 200 km—diventa il diversivo principale. Come per tutte le persone di questo mondo, vivere questo tipo di infanzia «costrittiva» ha un profondo effetto sul resto della sua vita: Phil vuole bene ai suoi genitori, chiaro, ma la loro rigidità lo spinge ancor di più a cercare «altro», a liberarsi e a sperimentare una nuova spiritualità, cercando di distanziarsi dal cristianesimo pentecostale che a lui appariva falso e poco adatto alla sua mente «sempre in movimento». Questa apertura mentale e la costante curiosità per modi diversi di intendere la vita sarà di fondamentale importanza per la sua carriera. 2. NEW YORK, NEW YORK Dopo aver frequentato l'Università del North Dakota sotto la guida di Bill Fitch (che nella sua carriera sarebbe diventato due volte allenatore dell'anno e campione NBA nel 1981 con i Boston Celtics), Phil viene notato da uno scout, tale Jerry Krause, che lo vorrebbe scegliere al Draft per i Baltimore Bullets, squadra NBA per cui lavora. Ad agire d'anticipo però sono i New York Knicks, che lo prendono con la 17° scelta assoluta e, nella persona di Red Holzman, vanno direttamente in North Dakota per fargli firmare un contratto, portandolo nella Grande Mela. L'impatto di Phil con New York è fortissimo: nel corso degli anni inizia a vivere «come un uomo del Rinascimento, ma degli anni '60, con capelli lunghi e jeans», inserendosi negli ambienti della controcultura e ricongiungendosi «con la mia parte spirituale, che per troppo tempo avevo ignorato». Questo significa molte cose, come ad esempio comprare una bicicletta e girare per la città in salopette «cercando di calarmi nella vera New York» e prendere possesso di Central Park, unico luogo in cui può «ricongiungersi con la natura». Phil riprende anche gli studi sulle religioni orientali, abbandonati ai tempi del college, e ovviamente si dà alla sperimentazione di ogni tipo di droga possibile, tra cui l'LSD. Questo altro passaggio chiave della sua vita è ben documentato in due libri: Take It All!, un libro fotografico del 1970 (nel quale avrebbe voluto pubblicare anche una foto della famosa iniezione di carbocaina nella gamba di Willis Reed prima di gara-7 delle Finali NBA, foto poi bloccata da Holzman), e Maverick nel 1974, libro di autentico culto scritto con Charley Rosen e ormai quasi introvabile (se non a prezzi tutt'altro che convenienti). Ah, e poi ci sarebbe anche il campo: Phil fa parte di due squadre da titolo NBA, quelle del 1970 e 1973, gli unici due anelli della storia dei Knicks. Nella prima stagione da titolo non metterà mai piede in campo per colpa di un infortunio alla schiena, ma passerà comunque l'anno a fare da assistente a Red Holzman. L'influenza di Red sulla sua vita e sulla sua carriera è decisiva: Jackson lo elegge a suo mentore e modello, implementando i suoi due semplici principi di gioco a tutte le sue squadre: guarda la palla (in difesa, giocando sempre con grande intensità) e passala al compagno smarcato (in attacco, senza individualismi). Red non è uno che ama gli schemi o le alchimie tattiche, tende a rendere il gioco il più semplice possibile, cercando di portare le sue squadre a giocare the right way, nel modo giusto (che è il modo che hanno gli americani per dire “passandosi il pallone”, che a noi europei pare scontato, ma di là non lo è esattamente). Inoltre è uno straordinario gestore di uomini, trattando tutti i giocatori come pari ma facendoli sentire delle persone, accogliendoli nel suo studio privato (il bagno degli spogliatoi, alla Fonzie) per discutere faccia a faccia con loro. Tutte caratteristiche che il futuro allenatore Jackson farà sue.

3. LA SCOPERTA DELLO ZEN Dopo qualche anno in NBA Phil decide di mettere su casa a Flathead Lake, nel Montana, e insieme al fratello Joe inizia a costruirla con le sue mani. Assume un muratore, dal nome sconosciuto, il quale ha «un modo di fare calmo e concentrato, accompagnato da un approccio pratico al lavoro». Ne rimane colpito, e quando inizia a parlargli viene a conoscenza della pratica dello zen, che il muratore aveva studiato al monastero del Monte Shasta nel nord della California, e se ne interessa sempre di più. La ricerca spirituale di Jackson ha un obiettivo ben preciso: far stare zitta quella sua dannata testa. Come tutti gli uomini di grande intelligenza, non riesce mai a essere davvero tranquillo e in pace con se stesso, ma è sempre pervaso da una sensazione di irrequietezza e agitazione. La meditazione zen, a suo dire, è l'approccio migliore per lui per via della «sua intrinseca semplicità. Non c'era bisogno di cantare dei mantra o di visualizzare immagini complesse come invece accadeva in altre pratiche che avevo provato. Lo zen è pragmatico, tiene i piedi ben piantati a terra ed è aperto all'esplorazione. Non richiede di aderire a un gruppo di principi né di avere fede in qualcosa; in realtà lo zen incoraggia i praticanti a mettere in dubbio qualsiasi cosa». E con lui funziona: da uomo irrequieto Phil si trasforma in una specie di monaco buddhista, con un approccio molto più calmo e aperto nei confronti della vita, sostanzialmente tutto l'opposto rispetto a quanto si aspettavano i suoi genitori da lui. La meditazione diventerà una parte talmente importante della sua vita da entrare anche nella sua carriera da allenatore, quasi un marchio distintivo, tanto da venire soprannominato “Coach Zen” o “Master Zen” dai giornalisti. Le sue sedute di meditazione con i giocatori («10 minuti prima dell’allenamento, niente di trascendentale») diventano leggendarie, ma da ex giocatore Jackson ha un’idea: l’atleta ha bisogno di calmare la mente prima di una partita importante, di ridurre lo stress, e non di essere caricato con discorsi alla Ogni Maledetta Domenica. È per questo che una volta arrivato in NBA farà creare delle stanze comuni con incenso e simboli tribali dove portare la squadra a fare meditazione o passare del tempo insieme. Poco importa che i giocatori dormono o ridacchiano tra di loro: l’obiettivo è di creare un rapporto «non verbale», di interconnetterli ad un livello più profondo per farli entrare in sintonia e portare questa connessione in campo. Sentitevi liberi di considerarle stronzate, però con queste stronzate Phil Jackson ci ha vinto 11 anelli di campione NBA… 4. LA CARRIERA DA ALLENATORE E LA CBA Essere di ampie vedute e aperti al mondo è un'ottima cosa nella vita di tutti i giorni, ma non lo è così tanto nei (repubblicani anziché no) circoli NBA: nel 1978 i Knicks, vedendolo ormai alla fine della carriera, lo scambiano con i cugini sfigati, i New Jersey Nets, e per quasi 10 anni Jackson sarà un reietto della NBA. Ai Nets è ancora nominalmente un giocatore ma funge principalmente da assistente di Kevin Loughery, un altro anticonformista della NBA, da cui impara a «pensare fuori dagli schemi». In 14 partite Jackson deve anche prendere le redini della squadra (Laughery aveva un rapporto complicato con gli arbitri, diciamo) e prende, per la prima volta, le misure delle panchine NBA. Non appena chiude la carriera da giocatore attivo, però, le porte principali della Lega per lui si chiudono: all'improvviso la nomea da “figlio dei fiori” è diventata scomoda, e Jackson—che in ogni caso non è proprio del tutto convinto di allenare—si divide tra qualche consulenza (un breve ritorno da assistente ai Nets per qualche mese) e il commento televisivo. A un certo punto, mentre Phil sta lavorando insieme alla moglie a un centro benessere, gli Albany Patroons—squadra della ormai defunta CBA—gli offrono un contratto. Ad Albany, insieme all'amico/scrittore/filosofo-fuori-di-testa Charley Rosen (che fa il finto fisioterapista della squadra, dato che non era permesso avere un assistente), Phil manda in scena la sua versione della "Democrazia corinthiana”: impone che i dieci giocatori della squadra vengano tutti pagati allo stesso modo (330$ la settimana) e abbiano lo stesso minutaggio in campo (quintetti fissi, otto minuti ciascuno, di cinque in cinque). Una cosa mai vista prima, ma il bello è che funziona! Nel 1984, al suo primo anno alla guida della squadra, vince il titolo CBA contro i Wyoming Wildcatters. Cercando di arrotondare lo stipendio (ad Albany veniva pagato 18.000$ l'anno) inizia ad allenare in estate in Portorico, più precisamente ai Piratas de Quebradillas, dove tenta di imporre il suo modello egualitario e comunistoide ai duri boricua. Dura 3 settimane. Gli viene data una seconda chance dai Gallitas de Isabela, dove ammorbidisce un po' le sue idee estremiste. Nel corso di quelle estati sull'isola affronta: partite in notturna all'aperto nelle conchas, spettatori ubriachi e armati di tamburi (ufficialmente) e altro (ufficiosamente), proprietari di squadre che si portano la pistola alle partite perché «non corre buon sangue tra le due città» e, in un'occasione, UN SINDACO della città che spara a un arbitro dopo una chiamata avversa ai suoi beniamini. Anni dopo, quando i giornalisti NBA gli chiedono se il pubblico di Sacramento sia il più rumoroso che abbia mai affrontato, Phil risponde col suo solito sorriso sornione: «Io ho allenato in Porto Rico, dove se vincevi in trasferta ti tagliavano le gomme e ti potevano anche inseguire fino a fuori città, spaccandoti a pietrate i finestrini della macchina». Tutto questo per dire che Phil Jackson non è esattamente “nato con la camicia”: nella CBA era lui a guidare il furgoncino Dodge durante le trasferte della squadra (mentre faceva le parole crociate, colpo classico che spaventava a morte i suoi giocatori) e ha costruito le sue idee facendo la gavetta nelle serie minori, bussando alle porte della NBA e venendo ripetutamente rimandato indietro. Forse, Phil Jackson è diventato il più vincente allenatore di tutti i tempi proprio in questo periodo, tra la CBA e le leghe estive dei proiettili puertorriqueños.

5. IL SALVATAGGIO DI JERRY KRAUSE In realtà la NBA proverebbe anche a riportarlo in pista. Anzi, più che la NBA a provarci è Jerry Krause—sì, lo stesso Jerry Krause che lo voleva ai Bullets da giocatore—che lo porta a Chicago, dove nel frattempo è diventato GM, per un colloquio di lavoro per il posto di assistente allenatore di Sten Albeck nel 1984. Phil, fedele a se stesso, appena sbarcato dal Porto Rico si presenta in queste condizioni: barba sfatta, camicia di vari colori non ben definiti, bermuda, infradito, cappello di paglia ecuadoreño con piuma di pappagallo blu che spunta da dietro («un capo molto alla moda e pratico giù nelle isole»). Passeranno altri tre anni prima che lo stesso Krause riesca a convincere il nuovo allenatore, Doug Collins, a prenderlo come assistente—un periodo nel quale Phil, per sua stessa ammissione, stava iniziando a pensare di chiudere definitivamente col basket e di trovarsi un lavoro serio perché «ero diventato indifferente e disilluso da come potere, soldi e gloria personale avevano contaminato lo sport che amavo». Krause, che avrà mille difetti (primo tra tutti quello di considerarsi più importante di Michael Jordan: grave errore) ma sa come riconoscere il talento, lo salva, in quello che sarà il vero momento di svolta della vita di Jackson: sarebbe potuto diventare un filosofo, uno scrittore, un commentatore televisivo, un maestro zen, un monaco tibetano, un senatore, un istruttore di yoga, un carpentiere. Invece Phil Jackson diventa un allenatore di basket della NBA, e la Lega da quel momento in poi non sarà più la stessa. 6. L’INCONTRO CON TEX WINTER A Chicago, sotto gli ordini di Doug Collins, entra in contatto con due veri e propri guru del basket mondiale: il primo è Johnny Bach, un ex militare e un vero pozzo di scienza cestistica, uno capace di riconoscere qualsiasi schema dandogli solo una fugace occhiata; il secondo, il più famoso, è Tex Winter, il perfezionatore del celeberrimo attacco Triangolo. Sì, celeberrimo ora, ma prima chi se lo filava? Tex aveva imparato il sistema negli anni '40 alla University of Southern California, e lo aveva implementato con ottimi risultati in vari college per oltre 30 anni; ma nella Lega il sistema non era mai riuscito veramente a imporsi, rimanendo confinato in suo libro (di culto) chiamato The Triple Post Offense. Phil—che per sua stessa ammissione ha gravi lacune dal punto di vista di schemi e tattiche, ma è un genio nella gestione dei rapporti interpersonali—si abbevera alla fonte dei due altri assistenti e fa suo il Triangolo, trovando in esso una sorta di «"tai chi a cinque uomini", perché coinvolge tutti i giocatori in un movimento unico e continuo in risposta al modo in cui la difesa avversaria si posiziona. L'idea non è di andare a testa bassa contro gli avversari, ma di leggere ciò che la difesa propone e reagire di conseguenza. Ad esempio, se la difesa si concentra su Michael Jordan su un lato del campo, questo apre una serie di opzioni per gli altri quattro giocatori. Ma tutti devono essere davvero consapevoli di ciò che sta accadendo e abbastanza coordinati da muoversi all'unisono per trarre vantaggio dalle aperture che la difesa concede. È lì che arriva la musica». È tutto ciò che ha sempre sognato di trovare: nel giro di un anno Collins viene licenziato e la squadra viene affidata a Jackson, che rifiuta la panchina dei “suoi” New York Knicks pur di dare sfogo alle sue idee in NBA e di portare, finalmente, Michael Jordan al titolo NBA. 7. SEI TITOLI IN NOVE ANNI Il primo vero colloquio faccia a faccia tra MJ e Phil Jackson è andato all'incirca così. Jackson va da Collins, dicendogli quello che Red Holzman era solito dire a lui: «La vera impronta della stella è quanto riesce a rendere migliori i propri compagni». Risposta: «Bravissimo Phil! Adesso però vallo a dire a Michael», come a dire “sì, tutto molto bello, ma chi glielo dice a quello là?” Ecco chi ci va: ci va Phil, il fricchettone, il figlio del pastore, il reietto della NBA. Piccola parentesi: a quel tempo Jordan, pur senza anelli, era già Michael Jordan, ovverosia l'MVP di una Lega in cui giravano ancora Magic Johnson e Larry Bird al loro massimo o quasi. Jackson, fedele a se stesso, va da Jordan e gli ripete la frase di Holzman. Michael lo studia per qualche secondo, poi risponde «OK, grazie» e se ne va. È un piccolo momento, ma significativo: Jackson è il primo a dire in faccia a Jordan quello che Jordan non vuole sentirsi dire, e piano piano lo mette davanti all'evidenza dei fatti—giocando nel modo in cui ha giocato fino a quel momento (in maniera individuale, cercando di trascinare la squadra alla vittoria da solo e considerando tutti i suoi compagni come inferiori) potrà vincere tutti i premi individuali possibili e immaginabili, ma mai il titolo. L'anno dopo, quando Jackson diventa capo-allenatore e implementa il Triangolo, Jordan in pubblico dice di accettarlo e girato l'angolo lo definisce in maniera sprezzante «quell'attacco delle pari opportunità», sussurrando ai giornalisti amici «gli do due partite al massimo». Ma, vedendo che Phil non sarebbe arretrato di un passo e, soprattutto, notando un cambiamento nella squadra, Jordan mette anima e corpo nell'imparare il sistema. Non passa allenamento senza che litighi con Tex Winter (uno degli uomini più intransigenti della storia dell'umanità, ma anche uno dei più grandi insegnanti di sempre—anche al di là del basket) e convince/costringe i suoi compagni a seguirlo, perché se lo fa Michael, perché non dovrebbero farlo gli altri? Il resto, come si suol dire, è storia: i Bulls di Jackson, Jordan e Scottie Pippen vincono 6 titoli NBA in 9 anni dal 1989 al 1998, di cui 6 su 7 potendo contare su Jordan dall'inizio dell'anno. E Phil Jackson diventa il miglior allenatore della NBA.

8. UN MOSTRO A DUE TESTE Dopo la straordinaria avventura ai Bulls, Jackson approfitta del lockout del 1998 per prendersi un anno sabbatico. Sua moglie June vorrebbe che lasciasse definitivamente il basket e si dedicasse a qualcosa di meno stressante a livello fisico, e per qualche tempo Phil lavora alla campagna da senatore del suo ex compagno Bill Bradley, ma in poco tempo le sirene della NBA tornano a farsi sentire e i Los Angeles Lakers lo contattano. Mentre Jackson si trova in Alaska a fare pesca d'altura in compagnia dei figli, un ragazzino del posto gli si avvicina e gli dice: «Ehi ma tu sei Phil Jackson! Lo sai che sei il nuovo allenatore dei Lakers? L'ho visto su ESPN». Già, Phil è il nuovo allenatore dei Lakers di Shaquille O'Neal e Kobe Bryant, che a quel tempo erano due enormi talenti individuali incapaci di trovare un modo per funzionare insieme, reduci da ripetute e dolorose eliminazioni ai playoff. Jackson, che intanto si è portato dietro Tex Winter da Chicago, arriva a L.A., prende casa a Playa del Rey, si fidanza con la figlia del proprietario (l'ex coniglietta Jeanie Buss, responsabile della parte finanziaria dei Lakers) e, soprattutto, implementa il Triangolo anche ai Lakers. Il risultato? Altri tre titoli in tre anni. Che a scriverlo in sei parole sembra semplice, ma far funzionare Kobe e Shaq è stata tutt'altra faccenda. A differenza dei Bulls, dove c'erano sì due “capi” in Pippen (nel ruolo del poliziotto buono) e Jordan (nel ruolo del poliziotto cattivo), qui i due capi sono due immature superstar poco più che ventenni, il cui passatempo preferito sembra essere prendersi a cornate per essere considerati il “capo branco”, per vedere che su ESPN dicono «sì, è la squadra di Kobe» oppure «sì, è la squadra di Shaq».Una situazione del genere nello spogliatoio—con i due giocatori principali che si lanciano continue frecciate attraverso la stampa e arrivano al punto di evitare di farsi fasciare le caviglie dallo stesso massaggiatore—sarebbe risultata esplosiva per qualsiasi altro allenatore al mondo, che avrebbe cercato di imporre la sua autorità e di raddrizzare la situazione in maniera coercitiva. Ma Phil Jackson? Lui, fedele a se stesso, sceglie di non agire. Shaq e Kobe vogliono fare i bambini? Bene, che lo facciano pure: fintanto che andate in campo e fate il vostro dovere a me non interessa, risolvetevela da soli. Scrive nel libro: «Il miglior modo per controllare le persone è di lasciare loro molto spazio e incoraggiarli a essere "molesti", e poi osservarli. Ignorarli non è una buona cosa; è l'abitudine peggiore. La seconda cosa peggiore è cercare di controllarli. La migliore è osservarli, semplicemente guardarli, senza cercare di avere il controllo su di loro». Proprio il fatto di non agire è stato il segreto: dopo qualche tempo i due bambini, vedendo che non riuscivano a provocare una reazione da parte di loro “padre”, smettevano di litigare e si trasformavano in una delle più grandi combinazioni lungo-piccolo della storia del basket. Semplicemente geniale. 9. L’ADDIO E IL RITORNO La situazione tra Shaq e Kobe, Phil o non Phil, non sarebbe potuta durare a lungo. Arrivati al quinto anno insieme, dopo essere stati eliminati nel 2003 dai San Antonio Spurs e aver perso le Finali NBA nel 2004 (prima sconfitta alle Finals per PJ) contro i Detroit Pistons, i Lakers arrivano a un bivio: o Kobe o Shaq. Jackson si schiera dalla parte del secondo, definendo Kobe come «inallenabile» e consigliando a Jerry Buss di scambiare Bryant. Buss non lo ascolta e sceglie di scambiare Shaq con Miami, annunciando il rinnovo di Kobe il giorno dopo lo scambio di O'Neal. A Jackson non viene rinnovato il contratto, e Phil parte per una lunga vacanza tra Australia e Nuova Zelanda. Non appena sta per mettersi in sella per un lungo viaggio in moto, riceve la chiamata di Jeanie: «Qui è tutto un casino, puoi tornare ai Lakers subito?» La risposta è no nell'immediato, ma a fine stagione Jackson (che nel frattempo ha pubblicato L'ultima stagione, in cui scrive peste e corna di Kobe) torna ai Lakers, con l'obiettivo di ricostruire il roster da zero e di «restaurare l'orgoglio perduto». Seguono anni complicati, ma pur con un roster oggettivamente scarso (provate a nominare Smush Parker, Kwame Brown e Chris Mihm a un tifoso gialloviola qualsiasi e vedete cosa vi risponde...) Phil tira fuori alcune delle sue annate migliori a livello di coaching, portando i Lakers a un passo dall'eliminare i favoritissimi Phoenix Suns nel 2006. Kobe però è profondamente scontento della situazione e richiede a più riprese di essere ceduto: i Buss tengono duro, anche perché non si presenta mai una vera e propria offerta irrinunciabile, e Jackson zitto zitto inizia a costruire il suo capolavoro. In una situazione difficilissima, sfrutta l'incertezza riguardo il futuro della sua stella e leader di squadra per cementificare ancora di più il gruppo e pungolare l'orgoglio dei suoi giocatori, che iniziano ad andare oltre i loro stessi limiti, iniziando la stagione con un record di 30-16. E, con l'arrivo di Pau Gasol da Memphis a inizio febbraio, i Lakers si trasformano definitivamente in una squadra da titolo: con lui in campo L.A. perderà solo 9 volte fino al termine della stagione. Arriveranno in Finale ma perderanno con i Boston Celtics in una dolorosissima gara-6 chiusa a -39, ma i semi sono ormai piantati: in meno di tre anni, Phil Jackson ha riportato i Lakers ai vertici della NBA.

10. ALTRI DUE TITOLI E IL CROLLO DELL'IMPERO GIALLOVIOLA Come tutte le squadre di Jackson, i Lakers due volte campioni nel 2009 e nel 2010 sono una raffinata macchina offensiva, capace di far girare al massimo il Triangolo sfruttando la presenza contemporanea di realizzatori in post basso, capacità di passaggio e un Kobe Bryant al massimo dei suoi poteri. Ma se c'è un aspetto delle squadre di Jackson che non viene mai sottolineato abbastanza era la capacità di difendere forte delle sue squadre nei momenti veramente importanti: magari nel corso della regular season si prendevano delle pause, specchiandosi nella loro bellezza, ma nei playoff le sue squadre da titolo sono sempre state capaci di produrre i cosiddetti “stops”, i possessi in cui gli avversari non vanno a punti, che alla fine fanno la differenza tra la vittoria e la sconfitta. In particolare, Jackson ha sempre avuto una predilezione per le guardie con grande fisicità (di cui il terzetto Harper-Jordan-Pippen è stato il massimo esempio) per poter cambiare su tutti i blocchi e mischiare le carte in difesa alternando le marcature, e sulla libertà data ai suoi giocatori cardine (Jordan e Kobe) di difendere in free roaming, ovverosia mettendoli sugli esterni meno pericolosi e permettendogli di raddoppiare o intercettare i passaggi avversari secondo la loro lettura in campo, senza seguire i tagli dei diretti avversari. Le ultime due squadre campioni non sono state da meno: oltre al mostro a tre teste in area (Gasol, Bynum e Odom) e alla eccellenza tout-court di un Bryant finalmente leader di uomini e coinvolto nei destini della squadra, i giocatori chiave sono stati i Derek Fisher, i Trevor Ariza/Ron Artest, i Sasha Vujacic e i Jordan Farmar, giocatori capaci di difendere forte e di segnare triple di importanza capitale (chi più chi meno), mettendo grande agonismo in campo. Il marchio del grande allenatore è vedere che impatto hanno i giocatori di complemento del roster, perché è con quelli che si vincono davvero i titoli. E i giocatori di complemento dei Bulls prima (Steve Kerr per dirne uno) e dei Lakers poi (Fisher per citare il principale) sono stati fondamentali per gli undici titoli di Jackson tanto quanto le stelle, vivendo le migliori stagioni della loro carriera sotto la guida di Phil. Alcuni tipi di giocatori, come ad esempio Luke Walton, non avrebbero avuto alcuno spazio in nessuna altra squadra NBA, ma grazie a Jackson riescono ad avere un impatto anche in una squadra da titolo. Il mantra di Coach Zen è sempre stato: «Il Triangolo non è fatto per le stelle: loro segneranno 30 punti in qualsiasi sistema offensivo. Il Triangolo è per i giocatori di complemento, per quelli che per trovare buoni tiri e avere successo hanno bisogno di un sistema nel quale ricavare il proprio ruolo». In questo modo ha vinto altri due titoli NBA, superando la doppia cifra (unico nella storia NBA, Auerbach si è fermato a 9) e poi, in un'annata che per sua stessa ammissione non sarebbe mai dovuta accadere, i suoi Lakers sono crollati contro i Dallas Mavericks nel 2011, ponendo fine alla sua carriera di capo-allenatore in NBA. 11. UN LEADER UNICO All'inizio dell’articolo definivo Jackson come diverso. Abbiamo visto come nel corso della sua carriera ci siano stati innumerevoli momenti in cui si è dimostrato diverso, e tanti altri ancora ne ho dimenticati o ho scelto di non raccontarli per non rendere questo pezzo ancor più lungo di quello che già è. Ma questo è ciò che lo ha contraddistinto: nessuno ha avuto la sua capacità di entrare nella testa dei giocatori, sia che fossero stelle o gregari, per farli remare nella stessa direzione verso l'obiettivo comune e ad essere realisticamente altruisti nel loro modo di giocare. E badate bene, questo è successo anche prima che vincesse quello che ha vinto: quando si presenta da Jordan e gli dice, tra le righe, che deve iniziare a passarla se vuole vincere, Jackson non è nessuno, solo un altro assistente un po' strano. Eppure riesce a convincere il più grande giocatore del mondo che il suo è il modo giusto di giocare a pallacanestro, e lo porta a vincere. Prima di incontrare lui nessuna delle sue stelle (Jordan, Pippen, Shaq, Kobe) aveva mai vinto un titolo NBA: con lui ne hanno vinti almeno tre a testa, e solo Shaq è riuscito a vincerne un altro dopo senza di lui. Certo, verrebbe da pensare che con giocatori di questo calibro chiunque avrebbe potuto vincere il titolo NBA, ma non c'è niente di più sbagliato: in campo non vanno giocatori ma uomini, e nessuno è stato capace di “arrivare” agli uomini quanto Phil Jackson. L’anima del suo successo, alla fine, sta proprio qui. Eleven Rings – L’anima del Successo esce il 5 maggio per Libreria dello Sport.

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