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Stefano Piri
Mai stanco
01 mar 2016
01 mar 2016
Pavel Nedved: campagnolo diffidente e Pallone d'Oro.
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Stefano Piri
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Nedved lo vedo giocare dal vivo per la prima volta contro il Genoa, l’anno dopo Calciopoli. La Juve in Serie B è più che un’avversaria, è uno spettacolo esaltante e malinconico, come un grande circo in tournée in provincia. In campo ci sono freschi campioni del mondo come Buffon e Camoranesi, talenti di caratura internazionale come il Bojinov dell’epoca, giocatori con centinaia di presenze in A come Birindelli e Zebina. Nedved però è quello che fa più impressione di tutti, forse per via della criniera di capelli biondi che non ti permette di scordarti di lui nemmeno per un secondo. O perché solo tre anni prima ha vinto il Pallone d’Oro.

 

Mi aspetterei un contegno aristocratico, un distacco da nobiltà decaduta, e invece Nedved gioca la classica partita teppistica da mediano di categoria, solo su un livello tecnico sideralmente diverso. Ha trentaquattro anni, per cui il passo non è più quello di un tempo, ma esercita sul campo un dominio privo di frenesia, da capo branco. E non va tanto per il sottile. Strattona, pesta e tira calci, ma appena lo sfiorano vola a terra come se gli avessero sparato. E poi protesta, protesta continuamente, in pratica ogni volta che l’arbitro gli passa abbastanza vicino. Tra Nedved e i tifosi del Genoa inizia una partita nella partita. Ogni volta che tocca palla si sentono fischi assordanti.

 

A venti minuti dalla fine, sullo 0-0, c’è una punizione dal margine sinistro dell’area, su una zolla laterale dalla quale ci si aspetterebbe un cross. A calciare va proprio lui, prende la rincorsa a rientrare e punge il pallone all’improvviso, superando la barriera e il portiere del Genoa Barasso. Il pallone strattona la rete, la gonfia, mentre Nedved corre a esultare sotto il settore dei tifosi juventini, facendo un giro un po’ largo per lanciare una svelta occhiata di sfida a quelli del Genoa. È un gol molto bello, ma anche un gol cattivo, perché calciare di potenza da quell’angolazione ha senso solo se speri che barriera e portiere avversari commettano errori piuttosto gravi. Nedved scommette sulla modestia del livello tecnico del Genoa e vince, e se questo fa di lui un cinico, dimostra anche quanto si sia calato - proprio lui, un Pallone d’Oro - nella categoria.

 

Tre minuti dopo il suo gol viene vanificato dal pareggio di Juric, che scappa alla distratta difesa della Juve e infila Buffon. Nedved non la prende per niente bene, e nel recupero si lascia andare ad un’assurda entrata con il piede a martello, su Milanetto. Lo stadio ruggisce di rabbia, poi esulta quando l’arbitro gli mostra il cartellino rosso. Applausi ironici e bordate di fischi accompagnano Nedved verso il tunnel per gli spogliatoi. Un tizio in gradinata, vicino a me, con la faccia tutta rossa si sgola gridandogli insulti irripetibili, allungandosi con tutto il corpo come potesse davvero arrivare in campo a menare le mani. Appena la sagoma di Nedved scompare il tizio si ricompone, si volta verso quello che immagino essere un suo amico e gli fa: “Che giocatore però. Avercene mezzo”.

 


“Il calcio non mi manca. Perché ho già dato tutto”


 

Quarantatré anni, vicepresidente della Juventus, nume tutelare della juventinità e del calcio europeo. Qualche tempo fa si è parlato parecchio di lui perché durante la Partita del Cuore si è vendicato di un tunnel subito entrando duro sul rapper Moreno, e la scena ai più non è parsa tanto edificante. Dopo si è pure scatenata una rissa in campo durante la quale Luca Barbarossa ha minacciato di morte Eros Ramazzotti (viviamo in un paese meraviglioso).

 

Comunque qualche giorno dopo Moreno ha ricevuto una telefonata in cui Nedved si scusava profusamente. Solo che non era il Nedved vero, era un imitatore della radio.

 


“Hobby? Quando ho tempo mi piace giocare a tennis.


È moltissimo tempo che non ci gioco. Ci gioco solo in vacanza”.


 

Pavel Nedved nasce a Cheb il 30 agosto del 1972, ma con la sua famiglia cresce nel vicino villaggio di Skalna, duemila abitanti sul confine tedesco, l’abitato delimitato dalle torrette di guardia della cortina di ferro. La madre Anna è commessa in un emporio, il padre Vàclav minatore durante la settimana e, di sera e nel weekend, centrocampista offensivo del Cheb in seconda divisione.

 

Pavel è il quinto figlio di Anna e Vàclav, che immaginano per lui un futuro da impiegato o da contabile ma non scoraggiano la sua naturale inclinazione per gli sport e per il calcio in particolare. Spesso accompagna il padre agli allenamenti, e qualche volta partecipa. Per colmare il gap fisico che non gli consente - naturalmente - di affrontare i contrasti con gli adulti, cerca di tirare in porta appena vede lo specchio, anche da posizione angolata o da molto lontano. Il suo leggendario tiro da lontano prende forma così.

 

Nella squadra giovanile di Skalna si allena più e meglio degli altri, e dopo gli allenamenti continua a giocare in strada con gli amici. Si distingue per tecnica e velocità ma ha un fisico più esile della maggior parte dei coetanei. Stilisticamente non è impeccabile, ha un talento debordante ma ruvido, venature d’oro puro che si fondono nel metallo grezzo in una lega il cui valore complessivo non è semplice da stimare a prima vista. Ad esempio per un certo periodo un allenatore lo prende di mira, ripetendogli che non ha nessun talento e che dovrebbe essere già contento di avere un posto in panchina. Nedved ne parla ancora adesso, con l’eleganza di omettere il nome dell’allenatore ma allo stesso tempo con una nota di inestinto risentimento.

 

A 14 anni gli viene offerta l’opportunità di andare a giocare nelle giovanili del Viktoria. Nedved lascia così la provincia e la sua famiglia per trasferirsi a Plzen, una vera e propria città da 150.000 abitanti che a lui, che ancora oggi si definisce “un campagnolo diffidente”, sembra una vera metropoli. Oggi racconta di aver vissuto bene il passaggio grazie al supporto della sua famiglia e al suo carattere precocemente indipendente, anche se nella sua autobiografia ci ragiona così: “Quello che la gente non capisce degli sportivi professionisti e di alcuni loro atteggiamenti è che noi spessissimo lasciamo le nostre famiglie, le case e le città in cui siamo nati all’età in cui tutti gli altri sono ancora coccolati e protetti dai genitori come fossero dei bambini. (…) Nella migliore delle ipotesi (…) riesci a crescere bene, a diventare prima un ragazzo e poi un uomo. Nella peggiore delle ipotesi ti perdi o rimani un bambino per sempre”.

 

Se per Nedved si avvera la “migliore delle ipotesi” è anche merito di Josef “Pepi” Zaloudek, un burbero ma appassionato allenatore delle giovanili del Viktoria che diventa una specie di secondo padre per lui e per molti dei suoi compagni, li ospita a casa sua e si assicura che non soffrano troppo la solitudine nel tempo libero. Nel weekend, quando gli altri tornano a casa, Nedved si ferma a Plzen da Zaloudek per continuare ad allenarsi. Si conquista cosi il nemmeno troppo allusivo soprannome “il Folle”.

 

Dopo qualche tempo, comunque, riesce ad affittare una stanzetta per conto suo, una prova di maturità che - sempre stando alla sua autobiografia - gli permette di impressionare e conquistare definitivamente Ivana, una ragazzina di Cheb che qualche anno dopo diventerà sua moglie. Stanno insieme ancora oggi, e quando Nedved parla di Ivana nelle interviste gli cambia il taglio dello sguardo, come se cercasse di dare forma a qualcosa che non riesce a descrivere con le parole. Ai due figli hanno dato i loro stessi nomi di battesimo, “così anche quando noi non ci saremo più, ci saranno sempre un Pavel e una Ivana che si vorranno bene”.

 

Nelle giovanili del Viktoria Nedved riesce a farsi notare, ma al compimento dei 18 anni si trova di fronte al problema del servizio militare, un obbligo che possono eludere soltanto i giovani calciatori delle migliori squadre del paese. Quindi lascia il Viktoria e si trasferisce al Dukla Praga, la squadra dell’esercito cecoslovacco il cui nome commemora i caduti nella sanguinosa battaglia del passo di Dukla contro con la Wehrmacht. È un trasferimento importante, nella capitale, in una squadra ora in lieve decadenza ma che fino a cinque o sei anni prima aveva dominato il calcio cecoslovacco.

 

Dopo un breve e soddisfacente prestito in seconda divisione, nella stagione ‘91/’92 Nedved esordisce in prima squadra con il Dukla. Le sue prime foto ufficiali da calciatore professionista sono impressionanti, ritraggono un ragazzino di diciannove anni che ne dimostra almeno quattro di meno, un bambino con le spalle sottili e lineamenti ancora sbozzati. Lo sguardo però è già quello di un adulto. Con 19 presenze e 3 gol Nedved è la rivelazione del campionato del Dukla e si guadagna il trasferimento alla miglior squadra del paese, lo Sparta Praga.

 

A vent’anni si ritrova a condividere lo spogliatoio con alcuni idoli della propria adolescenza come Michal Bilek, Jiri Nemec, e soprattutto Jozef Chovanec, bandiera della nazionale e vera e propria leggenda del calcio cecoslovacco. Chovanec, che più tardi diventerà il ct della nazionale ceca di cui Nedved sarà il leader indiscusso, racconta cosi il primo impatto col più grande non-predestinato del calcio contemporaneo: “Quando lo vidi la prima volta pensai semplicemente che non avesse il talento di altri. Poi capii di essermi sbagliato, aveva grandi qualità non solo come giocatore ma anche come persona. Aveva molto rispetto per i veterani. Non parlava molto ma ci osservava”.

 

I quattro anni con la maglia di quella che potremmo definire la “Juventus ceca” sono per Nedved una crescita continua, individuale e collettiva, scandita dalla progressione geometrica del numero di gol segnati: nemmeno uno il primo anno, tre al secondo, sei al terzo, quattordici nel ’95/’96. In quattro anni lo Sparta vince tre campionati e una Coppa di Lega. Nel ’93 arriva per Nedved l’esordio in Champions League e nel ’94 quello in nazionale ceca, nei minuti finali di una partita contro l’Irlanda.

 

https://www.youtube.com/watch?v=aOoMxIlsm90#t=01m41s

Uno dei primi gol “alla Nedved”, maglia granata numero 5, sponsorizzata OPEL come il Milan dell’epoca. Del replay da dietro colpiscono in egual misura l’effetto impresso al pallone e la stortura delle gambe di Nedved.


 

Il ’95/’96 è l’anno della svolta, l’unico in cui lo Sparta non vince il campionato, ma anche quello in cui diviene evidente che Nedved non ha più niente a che vedere con il livello del campionato ceco. I 14 gol in 30 partite di campionato, alcuni dei quali bellissimi, si accompagnano ad una Coppa UEFA da trascinatore in cui lo Sparta viene eliminato agli ottavi dal Milan di Baresi e Weah, ma Nedved in 8 partite fa in tempo a segnare 5 gol. La statistica totale di stagione, mostruosa per un centrocampista, è di 19 gol in 38 partite giocate.

 

https://www.youtube.com/watch?v=h3oOUD33t9Y

Doppietta in Coppa UEFA contro il Galatasaray su punizione (6:35) e botta di sinistro (11:34). La sintesi intera dà la misura di come Nedved dettasse in pratica tutti gli attacchi dello Sparta. I compagni gli passano il pallone e poi si spostano per non ostacolarlo, in quel modo un po’ impacciato che hanno sempre i compagni di squadra nei filmati di inizio carriera dei futuri fenomeni.


 

La prima squadra ad offrirgli la possibilità di approcciarsi all’élite del calcio europeo è il PSV Eindhoven, dove ha giocato anche il suo idolo Chovanec. Si trova un accordo di massima con lo Sparta Praga per un miliardo e mezzo e Nedved si prepara a trasferirsi in Olanda, ma prima c’è l’appuntamento destinato a cambiargli la vita: l’Europeo d’Inghilterra del 1996.

 

Quando il 14 giugno, ad Anfield Road, la linea difensiva dell’Italia di Sacchi si piega come una canna da zucchero al vento e Nedved infila Peruzzi, agli italiani che imprecano guardandolo esultare in TV sembra uno qualunque, il tipico carneade esotico che fa lo scherzetto all’Italia e poi torna nell’anonimato. Ha il numero 4 da mediano, il taglio di capelli militare, le spalle squadrate da socialismo reale, un cognome pieno di consonanti.

 

In Italia però c’è anche qualcuno che lo conosce molto bene: il suo connazionale Zdenek Zeman, che vince la riluttanza di Cragnotti – per nulla intrigato – e lo convince ad offrire 8 miliardi allo Sparta Praga. Nedved all’inizio non ne vuole sapere, non si sente pronto per il campionato più competitivo del mondo, ma Zeman convince anche lui. “Non solo sei all’altezza – gli dice – ma diventerai uno dei più forti”. Il PSV si arrabbia, ma è troppo tardi. Nedved vive fino in fondo la favola della nazionale ceca a quell’europeo, interrotta solo in finale dal golden gol di Bierhoff, e poi si trasferisce a Roma per vestire il biancoceleste.

 

Sui giornali italiani il trasferimento passa quasi sotto silenzio. Di Nedved si sa poco e quel poco è contraddittorio: è un mediano, uno che corre, ma segna quasi quanto un attaccante. Anche lui non fa molto per presentarsi, sembra uno di poche parole. In patria gli storpiano il nome in “Medved”: l’orso.

 


“Roma è bellissima, ma la conosco molto poco, in centro sarò andato 10 volte in 5 anni. Io sono più uno di campagna, mi piacciono i paesini qui vicino a Torino, dove io e mia moglie possiamo andare a fare due passi, fermarci a fare due parole con i grandi... i vecchi. Non sempre di calcio, anche di vita normale, io sono uno normale”


 

Il calcio europeo di fine anni Novanta è una festa mobile come la Parigi degli anni ’20 descritta da Hemingway: in giro c’è tanto di quel talento che si rischia di diventare schizzinosi o di desensibilizzarsi del tutto. In pratica non c’è grande squadra che non sia costruita intorno a un numero 10 coi piedi d’oro e l’estro di un artista. Nel 1996 sono contemporaneamente in piena attività Zidane, Baggio, Del Piero, Rivaldo, Veron, Rui Costa, Leonardo, Beckham, Figo, Bergkamp, Djorkaeff, Savicevic, Boban e Laudrup, per fare solo i nomi enormi.

 

Pavel Nedved arriva da un paese senza alcun fascino calcistico, è sgraziato e irruento, e in quel contesto sembra un campagnolo invitato per scherzo a una festa di Vogue. Però non è il tipo da farsi timori reverenziali, e invece che starsene in un angolo a sudare in silenzio nella sua camicia di acrilico inizia a tirare olive nella fontana di Martini ovvero, fuor di metafora, a segnare gol assurdi da distanze inconcepibili.

 

Facciamo tutti conoscenza con il tiro-di-Nedved, destinato a diventare un’antonomasia calcistica generazionale al pari delle accelerazioni di Ronaldo e delle punizioni di Roberto Carlos, grazie ad un corso accelerato di due settimane, che si tiene tra 15 e il 29 ottobre 1996.

 

In casa contro il Tenerife, in coppa UEFA, Nedved ha la maglia abbondante, i lineamenti lisci e affilati. È magro, asciutto, nervoso. Avvia l’azione nelle propria metà campo, serve Fernando Couto e ne precede l’escursione offensiva tagliando freneticamente da una parte e dall’altra per offrigli diverse linee di passaggio. Couto aspetta troppo e alla fine sbaglia l’appoggio servendo un giocatore avversario, che però esita un attimo di troppo e perde l’equilibrio. Nedved si avventa su di lui, gli strappa il pallone, resiste di potenza alla carica di un secondo avversario invece di prendersi il fallo, arriva alla lunetta dell’area di rigore e calcia di sinistro. La palla non si alza, è una rasoiata che si insacca nell’angolo basso alla sinistra del portiere. Nedved grida, alza le braccia, salta, corre

verso la panchina di Zeman e quasi si tira dietro Signori che lo ha preso per la maglia per abbracciarlo. Girano due volte su se stessi prima che Nedved esaurisca lo slancio e si lasci trascinare per terra, le braccia buttate al cielo, gli occhi sgranati.

 

https://www.youtube.com/watch?v=xEJ0hnaWyoA

 

Cinque giorni dopo contro il Cagliari, sempre all’Olimpico, la partita prende subito una brutta piega per la Lazio: una verticalizzazione improvvisa sorprende l’altissima difesa biancoceleste e Marchegiani è costretto a respingere il pallone con il pugno fuori dall’area di rigore per toglierlo a Dario Silva lanciato a rete. Cartellino rosso, Lazio in dieci per 85 minuti e fuori Casiraghi per il giovanissimo portiere di riserva Cudicini. La squadra prova a farsi forza, e al minuto 22 i tifosi hanno di che stropicciarsi gli occhi. Nedved piomba come una locomotiva su un pallone alla trequarti, scassina rabbiosamente la serratura che due avversari cercano di chiudergli attorno e calcia senza guardare la porta, con uno schiocco secco. La rete si gonfia prima che i tacchetti della sua scarpa destra si appoggino di nuovo sull’erba, lo stadio esplode con una frazione di secondo di ritardo, e anche in tv c’è bisogno del replay per apprezzare appieno la parabola della palla, che si è alzata e poi è scesa sotto l’incrocio dei pali, fendendo in diagonale l’area di rigore.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Dn_R17PpyMc#t=00m22s

 

Non è finita. Il 29 ottobre, al quattordicesimo minuto della partita di ritorno contro il Tenerife, Nedved chiude il trittico autunnale con uno dei gol più spaventosi della sua carriera. Rimessa laterale battuta rapidamente da Casiraghi, Nedved controlla e da posizione angolata, a forse 25 metri dalla porta, calcia di collo pieno.

 

https://www.youtube.com/watch?v=A7j9r9LOorU

 

Il tiro-di-Nedved è un’esecuzione, è un soffio di cerbottana, è una sistole che spezza il respiro della partita e il battito degli altri ventuno in campo, delle panchine, degli spettatori. È qualcosa di meraviglioso e terribile, come tutti i fenomeni fisici su cui nessuno – nemmeno Nedved, dall’istante in cui la palla si stacca da piede – può realmente esercitare un controllo. Per un ragazzino della mia età è qualcosa di esaltante, nello stesso modo assertivo e profondamente maschile della lotta o dei giochi di guerra.

 

Ma le sue bordate non bastano ad arginare il naufragio dell’ultima Lazio di Zeman, che viene esonerato alla fine del girone d’andata e sostituito da Zoff. In una disamina di

sulla crisi della squadra, lo stesso Nedved viene definito “giocatore appena discreto”, al pari di Protti e Okon e in contrapposizione ai campioni che sono stati venduti in estate. Secondo altri giornali è “nervoso” e gli manca “l’intesa con i compagni”.

 

Nedved all’inizio patisce l’esonero del connazionale, ma via via che Zoff riesce rimette ordine nel gioco della Lazio inizia a giocare come sa. Nel nuovo modulo si sposta più avanti, a ridosso delle punte, e i risultati si vedono: nel buon pareggio per 2-2 contro l’Inter di Hodgson, Nedved trova due assist per le reti di Fuser e Signori. L’indomani la

lo celebra con il titolo “Il boemo che è rimasto”, e lo stesso Nedved si lascia sfuggire una dichiarazione ambigua sul boemo che invece è andato via: “Resto grato a chi mi ha voluto, ma questa Lazio è più equilibrata”.

 

Il resto della stagione è in crescendo e nel 6-1 rifilato alla malcapitata Reggiana (forse l’unica giornata di gloria in biancoceleste per

, che segna addirittura una tripletta) Nedved trova la prima doppietta italiana. Il secondo gol è un bolide di sinistro dalla distanza, davvero impressionante.

 

https://www.youtube.com/watch?v=K5Jw7ltSZh0

 

A questo punto peraltro nessuno ha ancora capito se sia destro o mancino, e l’equivoco si trascinerà per anni, alimentato dalla sua incredibile capacità di giocare con entrambi i piedi. Io stesso prima di mettermi a lavorare su questo pezzo ero convinto che fosse destro, ma Wikipedia dice che è nato mancino. Nella prima parte della carriera in effetti ha segnato molto di sinistro, ma alla Juve – per dire – i calci piazzati li batteva col destro. Comunque Nedved una volta ha chiarito la questione a modo suo: “con il sinistro tiro più forte, col destro più preciso”. E vabbé.

 

La prima stagione con la Lazio si chiude con 7 gol in 32 presenze, e una consacrazione che diventa una vera e propria esplosione l’anno successivo.

 

Il '97/'98, con Eriksson in panchina e Roberto Mancini come nuovo compagno di squadra, in realtà non si apre per Nedved nel migliore dei modi. La Lazio ha troppi extracomunitari e nel turnover gli toccano un paio di tribune. Non è ancora finito settembre quando le dichiarazioni di Nedved durante un’intervista fanno scoppiare un piccolo caso: “La situazione per me non è delle migliori. Non so quale sarà il mio futuro. Se arriveranno delle offerte le prenderò in considerazione, questo posso già dirlo. Mi sento in discussione, qui, gioco poco e così tutto diventa tremendamente difficile. Anche il modulo con tre attaccanti che ha scelto Eriksson per me non è il migliore. Di sicuro mi penalizza visto che io sono un centrocampista, non un attaccante. Con Zoff facevamo il 4-4-2 e la squadra, secondo me, giocava, davvero, in modo meraviglioso”.

 

Per fortuna le cose si sistemano in fretta. Il campionato italiano scopre un giocatore debordante, impossibile da inquadrare nelle dicotomia tra estro e quantità tipica di un’epoca in cui il concetto di centrocampista completo o “box-to-box” non è ancora di moda. Nedved è una forza della natura, una valvola che si muove freneticamente per il campo congestionando il gioco degli avversari e sfogando quello della sua squadra a piacimento. I quadricipiti enormi e le ginocchia vare disegnano un campo di energia centrifuga intorno al pallone dentro il quale gli avversari sembrano aver paura a mettere la gamba. Allo stesso tempo è rapido, leggero, spesso sembra che l’avversario stia per portagli via il pallone e invece con uno strappo Nedved è già oltre. Se negli spazi chiusi sembra un toro da corrida, quando ha campo ricorda una lepre.

 

https://www.youtube.com/watch?v=BdgwRl5dm8E

Il gol del vantaggio contro il Parma. Col suo stile asciutto Nedved faceva sembrare semplici anche delle cose difficilissime, tipo tenere basso questo pallone calciando forte e angolato.


 

Il primo gol stagionale contro il Bari fa paura per come Nedved

a Francesco Mancini. Contro l’Inter di Ronaldo, una settimana dopo, prima fa piovere sassate verso la porta da tutte le parti, e poi invece segna da attaccante, inserendosi in un’azione rapida in verticale e mettendo il corpo tra la palla e Galante. La fa scorrere e poi calcia a incrociare,

.

 

La data che consacra il grande amore tra i tifosi della Lazio e Nedved è però il primo novembre 1997, quando con un gol pazzesco (avversario saltato in palleggio, controllo a seguire, colpo sotto sull’uscita disperata di Konsel) porta a 3-0 il risultato del derby. Sulla panchina della Roma c’è Zdenek Zeman, che per la prima volta rincontra la Lazio da avversario e dopo la batosta conserva abbastanza humour per commentare: “Mi hanno cantato ‘boemo di merda’? Ce l’avevano con Nedved!”. Poche settimane prima in un intervista Nedved aveva definito il gioco di Zeman “non adatto a vincere in Italia” e l’aveva invitato prendere esempio da Eriksson sul dialogo con i giocatori: “Se hai un problema fisico, ora basta comunicarlo al massaggiatore, che riferisce a Eriksson il quale magari non ti fa allenare. Con Zeman succedeva l'opposto; lui veniva a sapere del problema, ma ti diceva: 'Stai male perché non hai lavorato abbastanza, allenati che migliorerai!’”. In un’altra intervista era stato anche più caustico: “Gli schemi di Zeman? Non li capivo”.

 

https://www.youtube.com/watch?v=QkUZ1w8CVMc#t=2m13s

Questo gol contro la Samp invece rientra nella categoria “Nedved che gioca a squash usando avversari e portiere come muro finché non riesce a segnare”. Nedved ha segnato davvero tanti gol restando concentrato e in agguato dopo aver fallito la prima occasione, invece di fare sceneggiate mettendosi le mani nei capelli o roba del genere.


 

Gli 11 gol di Nedved (capocannoniere stagionale della squadra) non bastano a portare la Lazio più in alto del settimo posto in campionato, in una stagione che però regala grandi soddisfazioni nelle coppe. È l’anno della grande cavalcata in Coppa Uefa, che si conclude soltanto con la finale tutta italiana persa con l’Inter al Parco dei Principi. Ma soprattutto è l’anno del primo trofeo italiano vinto da Nedved, la seconda Coppa Italia della storia della Lazio. Nella semifinale contro la Juve è proprio Nedved a rovesciare il punteggio con una doppietta dopo il gol di Fonseca. Il primo gol arriva con uno scavetto di sinistro che dimostra una volta di più la capacità quasi musicale di Nedved di passare da una forza travolgente a una levità assoluta. Il secondo, forse viziato da un intervento in gioco pericoloso, lo vede entrare in porta con il pallone in una perfetta metonimia della sua determinazione.

 

https://www.youtube.com/watch?v=gplwgCHygwQ

 

A fine stagione, la Roma biancoceleste è ai suoi piedi. Non è necessariamente il giocatore più forte di una squadra in cui gioca gente come Nesta e Mancini, ma ha quel fuoco, quella determinazione a lottare su ogni pallone che i tifosi di tutto il mondo cercano nei loro idoli. Il soprannome “Pavelino” che gli danno i tifosi della Lazio descrive bene l’affetto per un giocatore a colpo d’occhio quasi mingherlino – il Nedved della Lazio ha i capelli corti e un fisico nervoso e angoloso, i muscoli tesi ma non espansi, come corde di chitarra – capace di esplodere all’improvviso di un’energia travolgente.

 

Poi arriva un’annata di transizione: soprattutto nella prima metà della stagione '98/'99 Nedved soffre molti infortuni, e il suo rendimento ne risente. Nel grande campionato della Lazio, che sfiora lo scudetto e chiude al secondo posto trascinata da Salas, Nesta e Christian Vieri, Nedved segna solo un gol. Questo comunque non gli impedisce di essere decisivo quando ce n’è bisogno, all’inizio e alla fine della stagione. Il 30 agosto un suo gol di esterno destro porta in vantaggio la Lazio in finale di Supercoppa italiana contro la Juve. Finirà 2-1, e per i biancocelesti sarà il primo trofeo stagionale.

 

Quasi nove mesi dopo, a Birmingham, sul risultato di 1-1 e a meno di dieci minuti dalla fine della finale di Coppa delle Coppe contro il Maiorca, succede questa cosa qui:

 

https://www.youtube.com/watch?v=TZFZI2UzFrQ#t=02m52s

 

L’esultanza di Nedved, il suo urlo “alla Tardelli”, diventa l’immagine di copertina della stagione della Lazio e di quella vittoria indiscutibilmente storica, anche perché quella che la Lazio si porta a casa è l’ultima edizione della Coppa delle Coppe.

 

Per lui, che sta per compiere 27 anni, è il primo trofeo internazionale in carriera. Ma è solo l’inizio.

 



Marchegiani ; Negro, Nesta, Mihajlovic, Pancaro; Sergio Conceiçao, Simeone, Nedved; Veron; Mancini, Salas.

 

Alla luce di quel che è successo dopo, la nostalgia  - inevitabile – per l’ultima epoca d’oro della Serie A si intorbidisce di una luce squallida. Oggi sappiamo che la Lazio di Cragnotti era solo un meraviglioso castello di carte, come lo erano il Parma di Tanzi e la Fiorentina di Cecchi Gori, e in misura minore tante altre squadre. Il finale da

che da lì a poco tempo avrebbe spazzato via tanti giganti dai piedi d’argilla non cancella però il ricordo di squadre brillanti, robuste e meravigliosamente intessute come le camicie di alta sartoria che Jay Gatsby fa volteggiare tra le mani di Daisy.

 

La favola dello scudetto della Lazio è impreziosita da simboli e coincidenze – prima di tutto, è l’anno del centenario– e come tutte le favole comincia per davvero quando tutto sembra perduto. A otto giornate dalla fine, la Lazio è seconda in classifica con nove punti di distacco dalla Juve e un calendario durissimo: il derby, lo scontro diretto coi bianconeri, il Perugia in annata di grazia (prendete nota) e poi la Fiorentina di Batistuta e Rui Costa.

 

Al terzo minuto del derby, quando Montella anticipa Marchegiani con un tocco da aspide, i giochi per lo scudetto sembrano davvero chiusi. La partita si innervosisce e Conceiçao rischia il rosso per un fallo di reazione, ma c’è qualcuno che riesce a non perdere la testa e continuare a giocare: Pavel Nedved. Senza palla pressa a tutto campo, con la palla consuma la resistenza degli avversari, li logora, li sfibra come una febbre alta. Sembra uno squalo in perenne movimento, e i compagni possono nuotare nelle sue remore come pesci pilota. Al venticinquesimo minuto raccoglie in area una sponda di Simone Inzaghi, Aldair alla disperata gli strozza con la punta del piede il primo tentativo di conclusione, la palla resta lì e Nedved la tocca ancora con la punta del piede, facendola passare piano tra le gambe di due difensori della Roma e i guantoni di Lupatelli. Questione di millimetri, è l’anno buono, è l’anno del centenario.

 

Tre minuti dopo Veròn raddoppia, e la Lazio vince un derby storico che diventa il punto di svolta della stagione, insieme alla vittoria del turno successivo nello scontro diretto contro la Juve. Da lì a fine campionato arrivano solo altre vittorie, ad eccezione di un pareggio con la Fiorentina, ma alla vigilia dell’ultima di campionato la Juve ha ancora due punti di vantaggio, da conservare battendo un Perugia senza più ambizioni. Il resto è storia: il diluvio, la partita sospesa da Collina, il gol di Calori nell’acquitrino del Curi.

 

La Lazio festeggia così, nel modo più imprevisto, il suo secondo scudetto, due ore dopo aver battuto la Reggina per 3-0. Nella grande festa che illumina fino a tarda notte le vie di Roma, il nome di Nedved è forse quello che risuona più spesso, nelle urla e nei cori dei tifosi.

 

Il giorno dopo Cragnotti dice che terrà tutti, e anzi rafforzerà la squadra. Conferma che Overmars è un obiettivo, e addirittura è possibilista quando gli chiedono se intende ricomprare Vieri, venduto a peso d’oro all’Inter l’anno prima. Alla fine invece arriva Crespo e la Lazio gioca un’altra ottima stagione, ma solo dodici mesi dopo la squadra inizia a perdere i pezzi.

 

Nell’estate 2001 la cessione di Veròn al Manchester United viene presentata ai tifosi come l’unico, inevitabile sacrificio. Intanto la Juventus presenta un’offerta da 60 miliardi per Nedved, che però oppone un secco rifiuto alla prospettiva del trasferimento: lui e Ivana vivono benissimo a Roma, lui si sente laziale e progetta addirittura di finire la carriera in biancoceleste.

 

https://www.youtube.com/watch?v=HrK4a8WVP88

La famosa sequenza di “sombreri” che Cafu rifilò a Nedved nel suo ultimo anno alla Lazio.


 

Sugli avvenimenti successivi, che portano alla ferita mai del tutto chiusa dell’addio di Nedved alla Lazio, esistono versioni divergenti. Cragnotti ad esempio dichiarerà di essere stato vittima di “un tradimento e una rapina”, rispettivamente da parte di Nedved e della Juve. Di recente però Mino Raiola, all’epoca procuratore di Nedved, ha ricostruito quello che accadde in modo opposto: Cragnotti, desideroso di incassare i soldi della Juve, “sfidò” Nedved ad accettare una riduzione di stipendio, per spingerlo ad andare via. Nedved firmò il nuovo contratto senza battere ciglio e Cragnotti lasciò trasparire il proprio disappunto.

 

Raiola non depositò il contratto, e convinse Nedved – turbato dalla strana reazione di Cragnotti - ad accettare la proposta di Luciano Moggi di andare a visitare il centro sportivo della Juve, senza impegno e in gran segreto. Quando Nedved sbarcò dall’aereo, Moggi gli fece invece trovare una folla di giornalisti. Le immagini di Nedved a Torino finirono sui giornali, e i tifosi della Lazio ci videro naturalmente le prove del tradimento.

 

Perso l’affetto dei suoi tifosi, Nedved si co

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