Il racconto di una delle partite più iconiche della carriera di Magic Johnson, e di riflesso della storia dell’NBA, inizia due giorni prima rispetto a quando è accaduta. Los Angeles Lakers e Philadelphia 76ers sono arrivate alle Finali NBA del 1980 in grande stile, dopo aver eliminato per 4-1 rispettivamente Seattle e Boston nelle finali di Conference. La serie è sul 2-2 e nessuna delle due ha ancora vinto con più di 10 punti di scarto, con il fattore campo è già saltato due volte. Kareem Abdul-Jabbar, che nei cinque anni losangelini non ha ancora vinto un titolo, sta facendo una serie e una partita strepitosa, ma verso la fine del terzo quarto si scontra con Lionel Hollins e si infortuna alla caviglia. Costretto a tornare negli spogliatoi, si cura mentre i suoi compagni tengono botta contro Philly. Kareem rientra in campo aggiungendo 11 punti ai 26 già segnati e la partita sembra scivolare via verso i Lakers, ma c’è un Sixer che non è d’accordo: Julius Erving.
In Gara-4 aveva tirato fuori dal cilindro questa roba qui, la celeberrima Baseline Move; in Gara-5 segna 11 punti in un paio di minuti e quando mancano 43 secondi alla fine la partita è in parità. Possesso Lakers: Magic Johnson serve Kareem sopra la testa di Darryl Dawkins, il fu Lew Alcindor riceve e schiaccia, subendo il fallo e realizzando il libero aggiuntivo. Fanno 40 punti tondi tondi. Il disperato tentativo di Doctor J non ha esito positivo: si va a Philadelphia per Gara-6 con il primo match point sulla racchetta dei Lakers. Ma quella caviglia malandata del capitano gialloviola preoccupa.
Quarantotto ore per recuperare si rivelano troppo poche. Kareem non è neanche sull’aereo che porta la squadra verso la Città dell’Amore Fraterno: rimane in California a curarsi in vista dell’eventuale e a quel punto decisiva Gara-7, ammesso che sia in grado di poterla giocare. Per dare un’idea del peso dell’assenza basti dire che nelle cinque sfide per il titolo il numero 33 aveva messo a referto 33.4 punti e 13.6 rimbalzi di media. Insomma il clima in casa Lakers non è dei più sereni. Soprattutto c’è una decisione da prendere: chi parte in quintetto al posto del capitano? La logica dell’epoca vorrebbe l’inserimento obbligatorio del centro di riserva, Mark Landsberger. E invece coach Paul Westhead decide ancora prima di viaggiare per la Pennsylvania che in quintetto partirà Michael Cooper, una guardia, e che nel ruolo di Kareem giocherà il rookie Magic Johnson, formalmente un play, volendo una guardia, certamente non un lungo nonostante i due metri d’altezza. È una scelta che lascia dubbiosi i veterani ma che entusiasma la giovane rampante stella, che si sente talmente responsabilizzato da sedersi in aereo al posto che spetterebbe a Kareem. «Have no fear, EJ is here»: non preoccupatevi, EJ è qui, dice ai compagni sempre più perplessi.
L’importanza di giocare ad alti ritmi
Alla prima partita decisiva per il titolo i Lakers si presentano dunque con una novità tattica di proporzioni enormi per l’epoca. Di contro i Sixers allenati da Billy Cunningham - una leggenda della franchigia, con nove anni da giocatore e un titolo alle spalle - non cambiano proprio nulla: hanno il loro assetto consolidato, un fuoriclasse totale come Erving, un centro che sa essere dominante come Dawkins (detto “Chocolate Thunder”, lo avremmo poi visto a Torino, Milano e Forlì), una panchina più lunga di quella avversaria. Insomma, la scelta di andare con le proprie armi per allungare la serie appare logica e scontata.
È il 16 maggio 1980. Si gioca allo Spectrum, lo storico impianto di Philadelphia che ospita i 76ers e i Flyers in NHL (sconfitti dai New York Islanders in Gara-6 della Stanley Cup otto giorni dopo), oltre ad essere stata casa dei match tra Rocky Balboa e Apollo Creed. Nell’intervista pre-gara, al giornalista della CBS Rod Hundley che chiede conferma del fatto che giocherà da centro, Magic sorride come sempre e dice: «Mi divertono le sfide e quella di stasera è una sfida: vediamo cosa potrò fare». Bill Russell, che da uomo Celtics a 360 gradi si è trasformato in voce tecnica, è profetico nel suo intervento: «Se i Sixers non giocheranno di squadra i Lakers avranno un’ottima chance di vincere, perché possono giocare in velocità e a ritmi alti sono temibili». Ecco, i ritmi alti. Non siamo ancora all’epoca dello Showtime, ma la tattica di Westhead non ci va molto lontano.
I primi fotogrammi della partita non sono particolarmente brillanti per i Lakers. Alla palla a due Dawkins vince con facilità irrisoria e nell’azione immediatamente successiva Magic non può far altro che far fallo sul suo avversario. Quei due istanti però si trasformano ben presto negli unici momenti di difficoltà del prodotto di Michigan State nell’inedito ruolo. L.A. alza subito il ritmo e piazza un primo break di 7-0.
Il problema principale dei Sixers appare chiaro sin dalle prime battute: quali accoppiamenti avere in difesa? Maurice Cheeks prende Norm Nixon in un classico play contro play; Lionel Hollins prende Cooper, guardia contro guardia; Dawkins prende Jim Chones, l’altro lungo gialloviola titolare, e fin qui ci siamo. Però Caldwell Jones chi marca? L’ex San Diego Conquistadores è un’ala forte vecchio stampo, alto 2 metri e 11, pochissima abilità al tiro lontano da canestro ma eccellente rimbalzista e stoppatore temibile, soprattutto in aiuto. Uno così non ha la mobilità per stare dietro a Magic, su cui infatti dopo due azioni si piazza Erving. Ma la coperta resta corta: Jones deve andare in marcatura su Jamaal Wilkes.
Wilkes è californiano doc: nato a Berkley, laureatosi a UCLA, ex Golden State Warriors. All’anagrafe si chiama Jackson Keith Wilkes, nel 1975 si converte all’Islam e diventa Jamaal Abdul-Lateef ma continua ad usare il suo cognome per farsi riconoscere meglio. È un’ala piccola dal notevole talento offensivo e uno dei primi a capire che, in assenza di Jabbar, dovrà e potrà prendersi molte più responsabilità offensive rispetto al solito. Quando poi si trova marcato da Jones, gli si illuminano gli occhi.
Nell’altra metà campo Philadelphia non riesce a sfruttare il vantaggio di chili e centimetri: Magic difende con grande maestria in post basso contro Jones, Chones si immola su Dawkins ma soprattutto il quintetto dei Lakers si muove con grande armonia, sporcando di continuo le linee di passaggio e attivando i retrorazzi per volare in transizione. Coach Cunningham pesca dalla panchina e trova i baffoni di Henry Bibby, papà di Mike, con l’idea di dare all’attacco di Philly la vivacità necessaria per pareggiare il ritmo gialloviola. Il quintetto con Dawkins e Jones in campo dura poco: i Sixers sono costretti ad adeguarsi e per loro fortuna i giocatori adatti in panca ci sono. Un altro Jones, Bobby, entra per marcare Magic mentre Steve Mix allarga il campo in attacco obbligando la difesa a non stare arroccata nel pitturato.
Occorre mettere la partita in pausa per chiarire il concetto di “allargare il campo”, che è alla base del basket contemporaneo ma che all’epoca aveva ben altro impatto. La stagione 1979-80 è la prima in NBA con la linea del tiro da punti, una diavoleria neanche troppo moderna visto che era stata testata già nel 1945 a livello collegiale; la American Basketball League lo inserì già nel 1961, la American Basketball Association ne fece un motivo di vanto e di forte differenza tecnica rispetto alla NBA. Tre anni dopo l’unificazione delle leghe, anche la NBA si adegua e ridisegna i propri parquet. Da qui a cambiare il modo di giocare ce ne vorrà, eccome. Basti pensare ad un dato: nelle Finals del 1980 Lakers e Sixers insieme chiudono con 1/20 da oltre l’arco, con l’unico a metterla dentro che è Erving in Gara-3. Va anche aggiunto che otto tentativi sono stati effettuati da metà campo o oltre al suono della sirena dei quarti, e cinque solamente nel disperato tentativo di rimonta dei Sixers in Gara-6. Insomma il tiro da 3 in questo basket non è un’opzione, neanche secondaria.
Questo canestro dà il primo vantaggio a Philadelphia sul 36-35. Guardate il movimento di piedi di Mix, che non tiene minimamente conto della presenza della linea: più che normale considerando l’abitudine a non averla, quella linea. Peraltro viene da pensare che Steve Mix avrebbe avuto tutte le qualità per essere un 4 tiratore con costanza anche da 3 punti se fosse nato una ventina d’anni dopo.
Leadership
Nella parte centrale del secondo quarto i Lakers vanno in difficoltà: Philly si è adeguata a un quintetto più “basso”, difensivamente regge meglio i cambi che i Lakers forzano e in attacco il pallone gira più velocemente, raggiungendo il +8. Ma anche L.A. può contare su un innesto dalla panca che dà ossigeno e freschezza: Brad Holland, rookie anche lui, toglie pressione a Magic e Nixon e segna i tipici canestri dell’outsider che sparigliano le carte. Il 10-2 di parziale Lakers manda tutti all’intervallo sul 60 pari.
Fin qui la partita di Magic Johnson è stata estremamente positiva. Oltre ai 20 punti EJ ha difeso con la tecnica prima ancora che con il fisico, e anche se in attacco sotto canestro ci è andato poco - costringendo, come abbiamo visto, Cunningham a modificare le sue rotazioni -, quando ci è andato si è fatto sentire. Magic non ha ancora compiuto 21 anni ma che avesse leadership e carisma se ne erano accorti tutti sin dai tempi del college. È grazie a lui che, per citare Cooper, i Lakers passano dal pensare di non poter vincere al parlare di come avrebbero vinto.
In avvio di ripresa i Lakers piazzano un parziale di 14-0 sublimato da questi due assist di Magic. Nel primo punisce il rientro scoordinato della difesa (con la regia che ci fa vedere quanto è ganza con il replay dalla cupola dello Spectrum: peccato che il gioco stia proseguendo…); nel secondo, dopo aver rubato palla, non dà neanche il tempo alla difesa di coordinarsi e serve Wilkes per un comodo lay-up. Sono due giocate esemplificative del piano partita di coach Westhead.
I Lakers iniziano subito a ritmo alto in attacco e per gli spettatori del 2020 non può non esserci un pensiero ai “7 Seconds or Less” di Mike D’Antoni a Phoenix - va da sé, con le dovute differenze. Ci sono quattro “piccoli” che raddoppiano sui portatori di palla impedendo facili ricezioni in post basso (nel caso specifico a Dawkins) e che a suon di contropiede vedono aumentare il proprio vantaggio. Con una postilla non da poco: c’è un dominio incontrastato e a tratti imbarazzante a rimbalzo, a testimonianza del solido equilibrio che questi Lakers mettono sul campo e che i Sixers faticano a scalfire. Contribuiscono tutti e in quattro vanno in doppia cifra: in primis i due centri Chones e Landsberger - che in alcuni frangenti è commovente per come difende -; poi c’è Magic, naturalmente; e infine c’è il protagonista dimenticato di questa storia. Jamaal Wilkes è incontenibile: nel terzo quarto segna 16 punti e nonostante sia gravato dai falli chiude con 37 punti a referto, suo massimo in carriera. Sarebbe l’MVP della serata se non fosse per quel suo compagno con il numero 32 che qualche tempo dopo ammetterà: «Tutti parlano della mia partita, ma quella di Jamaal fu incredibile».
Nonostante l’aumento dell’intensità difensiva e qualche scorribanda in campo aperto, a 12 minuti dalla fine i Sixers hanno sempre 10 punti da recuperare. Per rientrare definitivamente in partita servirebbe che il fuoriclasse dei padroni di casa, l’autore di questa roba qui (vale la pena ribadirlo) e di tante altre meraviglie, si prendesse qualche responsabilità in più. Julius Erving è arrivato ai quei playoff sull’onda lunga di una stagione da 26.9 punti a partita: non era stato e non sarà mai più così prolifico in NBA. A 30 anni è un uomo squadra conscio del suo ruolo, del suo talento e del fatto che da solo non potrà mai vincere. Ma allo stesso tempo sa che deve fare qualcosa in più per evitare che il trofeo prenda l’aereo per la California. Nel quarto periodo ci sono 3 minuti in cui per fermarlo non basta neanche sparargli: segna in ogni modo, nessun Laker riesce a limitarlo, in difesa alza la voce per guidare i compagni. Fa il leader, insomma. Aggrappati al suo talento, i 76ers recuperano fino al -2.
Nel momento del bisogno Doctor J fa Doctor J, aiutato da un quintetto più agile e versatile in cui sostanzialmente lui gioca da guardia e Bobby Jones e Steve Mix si scambiano facilmente le posizioni in ala. Il referto finale di Erving dirà 27 punti e 7 rimbalzi.
103-101 Lakers, 5 minuti e 11 secondi alla fine, timeout ospite. È l’ultimo momento in cui le due squadre sono a contatto, perché da quel minuto di sospensione i Lakers mettono la quinta e se ne vanno definitivamente. Il parziale di 20-6 è fin troppo eloquente e nasce perchè i californiani riprendono a correre, vanno a rimbalzo d’attacco in maniera ancora più aggressiva e in difesa collassano in area scommettendo sulla scarsa vena da fuori degli avversari, o sarebbe meglio dire sulla scarsa predisposizione a tirare da fuori degli avversari . Forse Mix nel finale sarebbe potuto tornare utile, e invece langue in panchina.
All’uscita dal timeout non c’è un quintetto atipico perché Chones e Landsberger giocano insieme, con Magic (autore di 9 punti in quel break) praticamente da guardia e Cooper in panca a farsi medicare dopo un duro scontro con Dawkins. Ma ormai il piano partita è entrato sotto pelle ai Lakers anche in questo contesto straordinario. Quando poi rientra Coop, Chones gioca lontanissimo dal ferro: lì non è un pericolo in attacco, ma la difesa dei Sixers ormai è in tilt e non riesce a leggere a dovere la situazione.
Cooper si butta dentro e scarica fuori per Chones, che da inizio azione non ha messo piede in area. Il lungo riapre per Nixon mentre Dawkins resta a metà strada tra il suo avversario diretto e il canestro, finendo pure per indicare a Cheeks di andare a marcare Chones. Così nel pitturato si apre una voragine che diventa un invito succulento per Magic, servito da Nixon. L’aiuto di Bobby Jones arriva tardi, la schiacciata della staffa arriva invece puntualissima.
La rivoluzione di Magic
Quando suona la sirena la partita ha già detto quello che aveva dire da almeno un paio di minuti e non ci sono dubbi su chi debba essere proclamato MVP. 42 punti, 14/23 da 2, 14/14 ai liberi (tutti i Sixers chiudono con 13/22), 15 rimbalzi, 7 assist, 3 recuperi, 1 stoppata: Magic Johnson ha giocato la partita totale, senza un ruolo definito, difendendo sui lunghi o sui piccoli, guidando la transizione o facendosi trovare pronto a rimorchio. E rimanendo in panchina un solo minuto su 48. Ha fatto esattamente tutto quello che serviva per vincere gara e titolo al suo primo anno in NBA. Ha giocato da leader tecnico ed emotivo, sostituendosi in quest’ultimo aspetto a Kareem Abdul-Jabbar. È il primo, e finora unico, rookie a vincere il premio di Miglior Giocatore delle Finali. È il primo che prende il concetto tradizionale di ruoli nel basket, lo accartoccia e lo butta nel cestino.
Negli spogliatoi il commissioner della NBA Larry O’Brien consegna il trofeo nelle mani di un emozionato Jerry Buss. Per i Los Angeles Lakers è il settimo titolo, il secondo dal trasferimento da Minneapolis, il primo per il neo proprietario. Per i Philadelphia 76ers e per Julius Erving la strada per il titolo sarà lastricata di delusioni, di sconfitte, di amarezze per altri tre anni fino al 4-0 con cui Doctor J, Bobby Jones, Maurice Cheeks e coach Billy Cunningham - gli unici superstiti dell’80 - si prenderanno la rivincita contro i Lakers, forti anche dell’arrivo di Moses Malone.
Gara-6 delle Finals NBA passa alla storia per la partita a tutto campo di Earvin Magic Johnson e perché segna uno spartiacque nella storia del rapporto NBA-televisione. Si gioca di venerdì sera e la CBS, detentrice dei diritti, ha già il palinsesto occupato da Hazzard e Dallas, che portano con sé alti indici d’ascolto nonostante siano delle repliche. Ergo Sixers-Lakers va in differita alle 23.30 ora della costa Est, mentre in cinque città - Los Angeles, Philadelphia, Seattle, Portland e Las Vegas - viene trasmessa in diretta. C’è un altro posto negli States dove la gara si può vedere in tempo reale, ovvero un ristorante di Boston che ha fatto montare uno speciale impianto. Tra i presenti c’è un biondino piuttosto alto e che guarda la partita con un mix di ammirazione e rabbia per quello che Magic combina sul parquet. Il contrasto di sentimenti è dovuto al fatto che quel biondino, che arriva dall’Indiana e si chiama Larry Bird, ha appena concluso la sua prima stagione ai Celtics ed è già il grande rivale del gialloviola dopo averlo incontrato - perdendo - nella finale del torneo NCAA di un anno prima. Sarà proprio il loro duello a fare da fondamenta al lancio in grande stile dell’intera lega, soprattutto quando al suo comando a O’Brien succederà David Stern. Nessun network sarà più intenzionato a trasmettere una partita di finale in differita.