L'Ultimo Uomo

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Foto di Vince Bucci/Getty Images
NBA Andrea Beltrama 23 febbraio 2016 8'

L’ultima recita di Kobe

Siamo stati allo United Center di Chicago per l’ultimo passaggio del Kobe Farewell Tour.

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Domenica strana nel West Side di Chicago. Perché la domenica, per cominciare, è il giorno sacro dell’hockey. E perché, per una partita che inizia alle 19, non ci era mai capitata una convocazione così precoce. Ma tutto passa in secondo piano davanti alla macchina del Farewell Tour di Kobe Bryant, che tocca queste parti per l’ultima volta, radunando allo United Center folle che non si ricordavano da tanto tempo. Probabilmente troppo.

 

L’appuntamento con Bryant è alle 17 nel magazzino dello United Center. In mezzo a zainetti, pon pon e cimeli dell’ultima parata dei Blackhawks, hanno allestito una sala interviste improvvisata, tutta per Kobe. E così, mentre le cheerleader ripassano gli ultimi dettagli, il flusso di telecamere procede ininterrotto nell’angolo più dimenticato del palazzetto, improvvisamente diventato il fulcro di tutto.

 

Ore 16.50: Voci incontrollate

La saletta è gremita, smartphone pronti all’attacco. I reporter di Chicago sono schiacciati lungo le pareti. Sulle sedie ci sono invece i media che seguono i Lakers. Un operatore, spalle al palco, riprende i giornalisti: forse la rappresentazione migliore dei bizzarri mesi che hanno seguito l’annuncio del ritiro. Un lasso di tempo in cui epica, celebrazioni e agiografia attorno a Kobe sono diventati un evento a sé. Notizia fusa nella notizia. «È la prima volta che mio padre mi ha chiamato e mi ha detto: ok, oggi ti invidio davvero» dice una giovane stagista della NBC pronta a entrare in azione. Dalle retrovie arrivano aggiornamenti su Anthony Davis: 59 e 19. No, aspetta. 59 e 20. Voci incontrollate parlano di supplementare in arrivo. Quel tabellino potrebbe diventare ancora più assurdo. Qualcuno chiede quanti assist abbia. «Solo 4, niente tripla doppia» dicono da dietro. «Beh, sempre 4 in più di quanti ne avrebbe Carmelo a questo punto» risponde un altro. Risate. La notizia del supplementare, come era arrivata, viene subito smentita.

FOTO SALETTA

 

Ore 17.00: Psicoterapia

Kobe arriva puntuale, facendosi strada tra gli strumenti delle cheerleader abbandonati per terra. «Il dito c’è ancora» esordisce, mostrando la vistosa fasciatura dopo l’infortunio subito nella partita contro gli Spurs. Ci sono 15 minuti a disposizione. Le domande arrivano da ogni dove, sovrapponendosi di continuo. Si parla quasi solo del passato. Chi prova a ricordare che c’è una partita da giocare, o una stagione in corso, rischia il ritiro dell’accredito. «La prima volta qui? Ricordo che provai a marcare Jordan. Sapevo che faceva quelle virate sulla linea di fondo. Me l’aspettavo. Eppure lui la fece lo stesso. Un decimo di secondo prima di quanto mi aspettassi. Mi schiacciò in testa e pensai… beh, non male».

 

Se per i media è una mucca da mungere fino all’ultima goccia, per Kobe stesso il Farewell Tour sembra una gigantesca sessione di psicoterapia. L’occasione giusta per rimuovere i traumi, smussare gli spigoli, ripulire la narrazione davanti a qualcuno che ascolta. Senza nemmeno preoccuparsi di pagare l’analista. Il prezzo, in verità, ci sarebbe anche: mesi di partite non competitive; un interesse a dir poco tiepido verso i compagni e la franchigia di oggi; e uno stridente contrasto tra il relax un po’ narcisista di queste passerelle e il furore competitivo che ci ricordiamo nei tempi di gloria. Ma nessuno, a dirla tutta, sembra volersi lamentare. «Sono stato fortunato ad aver potuto giocare per così tanto tempo. Oltre metà della mia vita. Ho fatto errori, avrei potuto vincere di più. Ma sono giunto alla conclusione che può bastare» dice.

 

C’è spazio per un ultimo ricordo. «Quando giocai qui per la prima volta andammo avanti di 18. Poi a un certo punto Jordan e Pippen dissero basta. Quello che fece Scottie fu incredibile. Raddoppiava sulla linea di fondo, poi a metà campo. E prendeva comunque il rimbalzo» racconta. «Pensai: non è fisicamente possibile coprire così tanto campo con un corpo umano». Sgoccioli. Qualcuno chiede un pensiero sui Bulls. «Rose sta imparando a usare la stazza, più della velocità. È un cambiamento necessario per allungarsi la carriera. Se trovano gli equilibri giusti possono fare strada nei playoff».

 

Ci sarebbero altre domande. Il PR dei Lakers ferma tutto. Sono le 17.18, mancano quasi due ore alla partita. Hoiberg, pronto a rispondere alle domande del prepartita dall’altra parte dello United Center, è rimasto solo. Dimenticato da tutti.

 

Ore 18.23: «Vedrai che bello vedere Kobe l’anno prossimo!»

La partita si avvicina. All’uscita del tunnel i tifosi Lakers provano vari espedienti. C’è persino una canotta calata dell’altro con uno spago, ultima frontiera della caccia all’autografo. Ma Kobe rimane nelle sue stanze private.

 

FOTO SPAGO

 

Il jumbotron dello United Center mostra un curioso video anti-bagarinaggio, con due personaggi che provano a vendere biglietti di aereo ai primi che passano fuori dall’aeroporto di O’Hare. «Non prenderesti un biglietto da loro. E allora perché dovresti prenderne uno per vedere i Bulls?».

 

Incuriositi, prendiamo la giacca e usciamo su Madison Avenue, dove la temperatura, nel giro di due ore, è calata di 15 gradi. A cinquanta metri all’ingresso dello United Center le scene non sono esattamente quelle del video della pubblicità progresso. La domanda abbonda, l’offerta scarseggia. Si parte dai 200 dollari, piccionaia senza posto a sedere. Una coppia di bianchi con la canotta gialloviola sopra al piumino fa la voce grossa: «Manca mezz’ora, non cediamo. Troveremo qualcosa di meno crazy» dicono al personaggio che ha appena proposto il prezzo. «Vedrai che bello vedere Kobe l’anno prossimo!» risponde lui, senza muovere ciglio.

 

Mi guarda. Chiede se mi interessa un biglietto. Terzo anello, posto assegnato: 250 dollari. Il tempo di proporre e sono circondato da uno sciame di bagarini. «Nah, sono solo curioso» rispondo io. «Lo faccio da 15 anni. Quest’anno è magra, mai venduto nulla sopra ai 50. Ma questa sera sono già a 1.600 dollari. E vedrai adesso che manca poco alla partita. Meno male che Kobe si ritira». Passano due poliziotti. Non ci degnano di uno sguardo. «C’è un accordo non scritto. Se stiamo a qualche decina di metri, non ci rompono» spiega. L’organizzazione è ferrea. Uno si procura i biglietti da chi ne ha in sovrannumero. Un altro si procura i clienti. Se l’offerta viene accettata, un terzo membro arriva dal nulla con i tagliandi. Un marchingegno degno dei corner di The Wire, per organizzazione e tipologia dei personaggi coinvolti.

 

Passano due studenti dai lineamenti orientali. Dicono di cercare biglietti. Lo sciame si materializza ancora. Piovono offerte. 400 dollari in due. In piedi. Sono scettici. Dicono che è troppo per il valore nominale. «It’s Kobe’s night, come on!» spiega il mio amico. Tentennano. «Vi accompagno fino all’ingresso, vedrete che entrate». Ultime resistenze. Poi accettano. «Credo che sia la nostra ultima possibilità di vedere questa partita» dice uno dei due. Spariscono in un angolo per pagare lontano da occhi indiscreti. Colpito dall’ennesima fucilata di vento, mi decido a rientrare.

 

Ore 19.06: «The Michael Jordan of our generation»
Il tempo di salire in postazione, attaccarsi al rubinetto della Coca Cola per una decina di minuti – rituale che rende tollerabile anche la più tossica partita di regular season, come sperimentato in anni e anni di esperienza –  ed è tempo di iniziare. Questa volta, lo United Center è pieno per davvero. Ci sono almeno tre file di persone in piedi nel corridoio pedonale sopra all’ultimo anello. Inno nazionale. Poi presentazioni. Dopo i primi quattro giocatori accolti nell’indifferenza, cala il silenzio. «Ed ora, un saluto particolare al quinto starter dei Lakers» dice Tommy Edwards, lo storico speaker dello United Center. Sul tabellone parte il video. «È il Michael Jordan della nostra generazione» dice Derrick Rose.

 

Certo che anche noi italiani sappiamo sempre come farci riconoscere…

 

Poi spunta Pau Gasol, incaricato della presentazione ufficiale. La folla è in piedi. Bryant si inchina, mentre sul maxischermo rimane, fissa, la scritta “Thank you Kobe”. La presentazione dei Bulls arriva come un fulmine a ciel sereno, un intruso a spezzare il ritmo. Se non altro, ci ricorda che ci sarebbe pure una partita da giocare.

 

Ore 19. 26: «Can we see some defense?»

Dati cause e pretesto, il copione non si scosta da quello che si poteva prevedere. Rose, pressato a morte (…) dalla difesa dei Lakers, si butta dentro come in un esercizio di uno contro zero, raccattando falli e appoggi plastici. Dall’altra parte Kobe valuta passivamente gli attacchi dei compagni dal punto in cui la linea dei tre punti si fa improvvisamente retta, davanti alle corna del Toro arrabbiato. Quando la palla gli arriva, tira. I suoi movimenti sono accompagnati da boati che non si sentivano dai tempi di Kyle Korver nei playoff del 2011. Esce il primo. Poi ne insacca un paio, stimolando la folla. Dal minuto seguente riprendono i mattoni, senza nemmeno fingere di guardare i compagni.

 

Sfilacciate come in una partita di Summer League, le squadre trotterellano per il campo. Ice si sente da una fila sotto. Sguardi interrogativi, ma è solo un urlo del venditore di birra. Mai come in questi stralci di basket fantozziano le urla di Thibodeau sono sembrate così lontane. Esasperato, un tifoso di Chicago prova a spezzare l’incantesimo. «Can we see some defense, please?». Solo E’Twaun Moore prova ad accontentarlo.

 

Intanto, su un batti e ribatti a centrocampo, arriva il brivido. Kobe ha un corridoio. L’area è sguarnita. Si sente già l’adrenalina della schiacciata. Il gesto vintage. Il tripudio nostalgico. Eppure nessuno, Kobe compreso, ha fatto i conti con Roy Hibbert, che intasa magistralmente l’area e manda a monte l’entrata. Dopo lo scontro, si vede finalmente il vintage Bryant: due gesti inequivocabili, parole a denti stretti, reiterando il principio basilare per cui una penetrazione ha più probabilità di successo con l’area sguarnita. Hibbert annuisce contrito, mentre il pubblico si riprende a fatica dal livore.

Quando parliamo di “vintage”, ci riferiamo a questo

 

Ore 19.45: Summer League

Più i minuti passano e più Las Vegas sembra materializzarsi nell’aria. Hoiberg spedisce in campo Cristiano Felicio, corpaccione scalda-panchina che, con un’infermeria stracolma, trova inspiegabilmente diritto di cittadinanza a metà del secondo quarto. Se non altro prova a sbattersi, nella disarmante passività delle due difese, strappando i timidi applausi di chi ha deciso di continuare a guardare la partita anche mentre Kobe è in panchina. Non sono tanti. Il primo tempo finisce 62-58 per Chicago.

 

In avvio di ripresa c’è tempo per una fiammata di Kobe, che segna quattro canestri quasi identici dalla stessa posizione. Pugni alzati e persone in piedi, mentre i rientri difensivi dei Bulls continuano a non essere quelli di una squadra che, da qui al prossimo mese, giocherà contro lo spettro di un fallimento impensabile. C’è solo uno sprazzo di pallacanestro accettabile, a fine terzo quarto, sufficiente per scavare il primo vantaggio sostanzioso: 97-81 sotto i colpi di Bobby Portis e E’Twaun Moore, scaltri a trarre beneficio dalle nefandezze difensive degli avversari. Sarà una riserva sufficiente anche per l’ennesimo ultimo quarto mediocre giocato dai Bulls in questa stagione.

 

Ore 20.10: «We want Kobe»

Prima sommesso, poi più energico, il grido si alza. Lasciando da parte le infuocatissime e inarrivabili Dunking Donut races, l’ultima volta in cui la folla si era prodotta in un simile sforzo vocale risale ai playoff dei 2013, subito dopo lo spintone a due mani con cui Nazr Mohammed decise di abbattere LeBron James a gioco fermo. Tempi e atmosfere leggermente diverse.

 

Bryant è seduto in fondo alla panchina. Ha passato quasi tutta la ripresa seduto, con i compagni che, dopo essere affondati, hanno riaperto la gara. Scott accontenta il pubblico quando mancano meno di 3 minuti alla fine, il punteggio ancora in bilico. Kobe entra, raccatta un paio di liberi, poi manda sul ferro l’ultimo tiro della sua serata. Viene richiamato in panchina a 45’’ dalla sirena per l’ultima ovazione. Tutti in piedi, braccia alzate a ringraziare, prima degli abbracci finali. I Bulls chiudono con il 55% dal campo e il 65% da 3 in una partita in cui anche i possessi decisivi sono stati giocati corricchiando. «Per fortuna che ha 39 anni. Mi avrebbe sparato 60 punti in faccia ne avesse avuti dieci di meno» dirà Mike Dunleavy. «Ho visto il vecchio Derrick Rose, sono ottimista per questi Bulls» è invece il commento di Kobe dopo un’altra passerella stampa.

 

Una serata che in altri tempi lo avrebbe fatto imbestialire si conclude con pensieri dolcissimi. Ce la ricorderemo a lungo, pur preferendo la faccia spietata dei tempi che furono. Siamo vecchi anche noi, del resto.

 

 

Tags : chicago bullskobe bryantlos angeles lakersmichael jordan

Andrea Beltrama nasce a Sondrio, Valtellina County, e vive a Costanza, al di là delle Alpi. Università a Bologna, poi sette anni a Chicago, dove consegue, tra una partita dei Bulls e l’altra, un dottorato di ricerca. Vorrebbe scrivere un reportage di basket su ogni college di Division I NCAA, e pure un reportage di pesca su ogni porto di Lake Michigan. Mentre pianifica, inganna l’attesa seguendo l'hockey svizzero.

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