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La lista della fine del mondo pt.4
29 dic 2014
È la fine del mondo, è la fine dell'anno, ed è ora di classificarne ogni aspetto. In questa quarta parte della nostra maxi-lista apocalittico-annuale: Fabrizio Gabrielli mette in fila i sette ritiri calcistici più importanti del 2014, Francesco Pacifico fa la top ten delle serie tv tra delusioni e sorprese, Giulio D'Antona confessa i suoi rugbisti del cuore, Dario Vismara elenca i 10 articoli che meglio raccontano l'NBA, mentre Pietro Minto narra l'anno della rete tra Doge e Bitcoin.
(articolo)
26 min
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Qui trovate la prima parte della lista. Qui la seconda. Qui la terza.

7 calciatori che si sono (più o meno) ritirati nel 2014

di Fabrizio Gabrielli

Piccola Nota Di Chi Scrive: tra quelli che non ho nominato, ovviamente, ci sono calciatori ritirati nel 2014 che in alcuni casi hanno anche scritto pagine di storia più importanti di quelli che ho scelto io; per la cronaca hanno detto basta Puyol, Di Vaio, Gallas, Zanetti, Heinze, Camoranesi e Seedorf.

Juninho Pernambucano. Ritirato a Gennaio, ultimo club Vasco da Gama. Se decidesse di registrare il marchio e fissare una royalty di, che ne so, cinquanta centesimi di dollaro per ogni volta che nel mondo risuona il cliché «punizione alla Juninho Pernambucano™» (io, fossi in lui, alzerei la tariffa a 1 dollaro per l’applicazione della definizione a sproposito), forse Antônio Augusto Ribeiro Reis Júnior diventerebbe miliardario e potrebbe investire il suo tempo, ora che non gioca più, nel comprarsi il Vasco da Gama, l’Olympique Lyonnaise, la città di Recife e a conti fatti tutto il Pernambuco. Qua sotto ci sono 75-avete-letto-bene-75 sue punizioni, diciotto anni di parabole e palle che crollano a spiovente. Giusto per farsi un’idea di cos’era, davvero, incontestabilmente una «punizione alla Juninho Pernambucano™».

Rivaldo. Ritirato a Marzo, ultimo club Mogi Mirim. Certo, lo so perfettamente che dopo Barcellona non ha più senso parlare di Rivaldo come il calciatore spettacolare che sprizzava onnipotenza, non lo era già più durante la parentesi italiana con il Milan, figuriamoci nell’appendice greca con Olympiakos e AEK. È chiaro che ogni avvenimento successivo non è stato che l’appendice di una carriera, il colpo di coda - o forse più di teatro - di un personaggio protagonista di scelte bislacche e stravaganti, tipo quelle di andare a calcare i campi dell’Uzbekistan o dell’Angola, quel tipo di calciatore che quando ne sentivi parlare ti veniva da dire, con amarezza, «ma tu guarda Rivaldo, che fine». Ma gli ultimi quattro anni sono stati davvero strepitosi: prima è tornato nella società in cui è cresciuto, il Mogi Mirim, con la doppia carica di presidente-calciatore; poi si è auto-rescisso il contratto per accasarsi al São Caetano, mossa del tutto plausibile se non fosse la squadra acerrima rivale di quella della quale aveva appena lasciato la presidenza, per infine redimersi, tornare al Mogi e togliersi lo sfizio di giocare un anno insieme al figlio, Rivaldinho. «Ma tu guarda che fine, Rivaldo», anche se il tono non è lo stesso con cui te lo raccontavi qualche anno fa, ora è più ammirato, più clemente.

Juan Sebastián Verón. Ritirato a Giugno, ultimo club Estudiantes de La Plata. Ho un ricordo lucidissimo del goal su punizione di Verón nel derby del marzo del 2000, dei pioppi che circondavano la casa nel salotto della quale ho visto la partita, immerso nelle campagne del pays plat appena fuori Anversa; non ho dimenticato e anzi ripenso con nostalgia al profumo del parquet di quella casa e di certi capelli biondi adagiati come una macchia d’inchiostro su quel parquet; e poi oggi Verón è il Presidente dell’Estudiantes de La Plata, la squadra che l’ha lanciato e della quale il padre è stato un eroe, un Presidente in giacca e cravatta, e io sono qua a scrivere di lui, quattordici anni più tardi, mentre indosso una giacca e una cravatta: questo fa di Verón un'unità di misura temporale con cui realizzo quanta strada mi sono lasciato alle spalle.

Rogério Ceni. Ritirato Dicembre 2014, ultimo club - in realtà l’unico - São Paulo. Prima che Neuer facesse del ruolo del portiere quello che Ferràn Adrià ha fatto con la cucina molecolare, c’è stato un tempo in cui ci siamo entusiasmati per i portieri goleador. Ceni (che poi anche lui qualche uscita pazza la fa, il dribbling con scavetto è un suo marco di fabbrica) ha segnato 123 reti in carriera: 10 nell’ultimo campionato Paulista, 21 nella sua stagione migliore. Ha messo il suo nome nel cartellino della Copa Libertadores, della Copa Sudamericana, addirittura della FIFA Club World Cup. È il portiere del São Paulo dal 1990, da ventiquattro anni; ne ha quasi quarantadue e sembra che abbia detto basta, anzi no, anzi sì, sta tentennando come un Riquelme qualsiasi. Il fatto che i paulisti si siano qualificati per la prossima Libertadores, che li vedrà inseriti nello stesso girone degli uruguayani del Danubio ma soprattutto dei detentori del trofeo, gli argentini del San Lorenzo, potrebbe fargli prendere la decisione di provare a continuare ancora qualche mese. Anche se sembra abbia assicurato al presidente Carlos Miguel Aidar che in caso dovessero vincere la Libertadores potrebbe prolungare fino al prossimo Mondiale per Club. Magari lo metto anche nella lista dell’anno prossimo (dove magari ci sarà anche Riquelme). (Nel frattempo l’altro portiere-goleador, Chilavert, s’è tolto i guanti da un pezzo, e adesso gira scattandosi foto con Justin Bieber).

Thierry Henry. Ritirato a Dicembre, ultimo club New York Red Bulls. Non sono tanto le compilation su YouTube, gli annunci stampa dei club per i quali hai fatto la storia, le testimonianze d’affetto di compagni presenti e passati su Twitter, le recriminazioni di chi non t’ha saputo capire e valorizzare quando non eri ancora maturo, i meme sull’henrying o il posto che avrai nell’immaginario collettivo, nel caso specifico con una maglia rossa dalle maniche bianche e il numero 14 sulle spalle, a fare di un addio l’Addio Perfetto: per Thierry sono state quattro parole, pronunciate nello spogliatoio di uno stadio ipermoderno nel Massachusetts, al termine della finale di Eastern Conference della MLS tra i suoi Red Bulls e i NE Revolutions, che ha sancito l’accesso dei Revs alla finalissima e l’eliminazione di New York dalla corsa al titolo, quattro parole gonfie di rabbia, orgoglio e al tempo stesso rispetto, rimpianto per non aver potuto portare a termine una missione che era già deciso dovesse compiersi: «Well done New England», prima di dare le spalle ai giornalisti, ai tifosi, al calcio tutto, lasciando con un palmo di naso giornalisti, tifosi, il calcio tutto.

Raúl Gonzalez Blanco. Non ancora ritirato, ma insomma; club attuale New York Cosmos. È vero, Raúl non s’è ritirato, anzi. Però il passaggio dai qatarioti dell’Al-Sadd ai Cosmos ne è il prodromo, perché diciamoci le cose come stanno, possiamo parlare di crescita del calcio nei paesi in via di sviluppo e ad elevata possibilità di spesa quanto vogliamo, ma io quest’estate sono andato a vedere una partita dei Cosmos allo Shuart Stadium, il transfer dalla stazione del treno al complesso universitario lo fanno con lo School Bus, nei banchetti vendono hot-dog e pretzel coloratissimi, in tutto saremmo stati non più di duemila spettatori, e tutti prendevano serissimamente il fatto che mia moglie non si fosse alzata in piedi e non avesse messo la mano al cuore durante l’esecuzione dell’inno, anche mia figlia è riuscita ad addormentarsi e insomma non è ancora ufficialmente un calciatore ritirato, Raúl, ma davvero ci manca poco, davvero, se il gioco a cui giocano i Cosmos è calcio allora dimmi tu (qui sotto un video di Raúl con la colonna sonora di R Kelly che lo trasforma in qualcosa di erotico).

Eric Abidal. Ritirato lo scorso venerdì 19 dicembre, ultimo club Olympiakos Pireo. È complicato resistere alla tentazione di non andare ad affondare la lenza nel pescoso oceano dell’emozionalità, con Abidal; complicato e quasi impossibile. L’immagine di Puyol che gli lega la fascia da capitano al braccio e gli permette di alzare la Champions League del 2011 a Wembley, dopo che aveva combattuto e sconfitto un tumore al fegato, è davvero too much emotion. Ma c’è una scena che addirittura la supera, e cioè quella in cui Puyol solleva il trofeo de La Liga 2013, poi dà le spalle al comitato della premiazione e va a cercare Abidal, e Tito Vilanova, per lasciare che la gioia erompa tra le loro mani.Vilanova se n’è andato ad Aprile, ucciso da un tumore; Puyol ha smesso a maggio. E ora Abidal dice adieu. Ci vuole d'averci il cuore nero per, non dico non commuoversi, ma almeno non emozionarsi almeno un po’.

Le mie serie preferite

di Francesco Pacifico

Transparent

Della serie di Jill Solloway ho scritto su IL, quindi cito: "Solloway ha prodotto per Amazon dieci episodi di mezz’ora in cui si racconta di un padre che annuncia ai figli ormai più che trentenni di essere sempre stato un travestito, e di aver deciso di cominciare a vestirsi da donna anche in pubblico, il che vuol dire anche farsi chiamare Maura invece che Mort. Ora i tre figli e la ex moglie devono fare i conti con questa cosa. Soprattutto i figli: e qui sta il genio della serie. I tre figli sono tre losangeleni idioti che sembrano composti, nei loro vizi e nevrosi e tic di borghesi liberal, da un generatore automatico di radical chic. Il maschio è amatissimo, fa il produttore di gruppi hipster, a quindici anni andava a letto con la governante, è moscio e troppo bisognoso d’affetto. Delle due figlie femmine, invece, una è la moglie/madre performativa, tanto performativa che scappa con una sua vecchia fiamma lesbica, con cui fonderà un rapporto ancora più performativo fra varie crisi di nervi. La figlia minore è una talentuosa mantenuta fancazzista, sessualmente confusa, continuamente o imbronciata o fatta."

Inside Amy Schumer

Non è una serie tv, ma in fondo sì: sarebbe una serie comica di sketch, ma se pensiamo che Louie di Louis CK è un'autobiografia/autofiction, allora uno show di sketch è una serie. IAS è il modo più interessante possibile di seguire argomenti femministi e capirli forse per la prima volta. Nel primo sketch della serie, Amy e un'altra ragazza fanno le audizioni per girare "Two Girls One Cup". Lei accetta il ruolo nonostante le perplessità perché vuole fare esperienza nel cinema.

The Leftovers

Ha la premessa da serie non d'autore: un giorno, il 2 percento della popolazione mondiale scompare: assunzione in cielo o evento scientificamente spiegabile? Tutti i punti di vista sono leciti, tutte le reazioni sono lecite, e la cosa, metafisica, viene trattata come fosse un nuovo undici settembre. C'è chi si rifugia nella religione o nella superstizione, chi vuole "ricominciare", chi pensa che sia un punto di non ritorno. Chi si dà alle orge. La varietà delle reazioni nel cosmo di un paesino americano produce continue variazioni nella velocità del racconto. mi è piaciuto un sacco. Due puntate su due personaggi vagamente secondari che improvvisamente prendono la scena, e una perfetta puntata di intero flashback, ormai un classico delle serie tv. Qualcuno la trova noiosa, per me questa prima stagione è molto promettente.

Delusioni:

The Strain

Vampiri, New York, fine del mondo. L'operazione "voluta" di far suonare ogni frase dei personaggi come un luogo comune da opera di genere ti porta a non ascoltare più i dialoghi dalla quarta puntata in poi.

The Affair

Fa sembrare l'amore extraconiugale molto noioso e pieno di responsabilità. Ho smesso più o meno come ho smesso di giocare a The Sims quando ho scoperto che anche lì dovevi farti la doccia e lavare i piatti.

The Americans

Dopo la prima stagione avevo scritto che il tema della serie era il matrimonio di copertura tra due spie, gli autori non mi hanno ascoltato e insomma sembra che per seguire quella serie ci si debba appassionare alla noiosa, circolare vita delle spie: ho smesso a metà della seconda stagione.

Episodes

La storia di come Matt LeBlanc, il Joey di Friends, prova a tornare alla ribalta con una serie scritta da due inglesi comincia con dialoghi perfetti e un immoralismo coniugale quantomeno innovativo per l'America, ma nel corso delle stagioni gli autori scoprono il tasto "basito" di Boris e diventa inguardabile.

True Detective

Si salva, si scopre che è Gesù. Basta eroi che si salvano, America, ti prego. (Rustin Cohle si salva anche da un buco nero, nel prosieguo dell'anno.)

Breaking Bad

L'ossessione di Walter White si risolve in una perfetta partita a Mouse Trap in cui tutti i pezzi tornano a posto, la famiglia prende i soldi, il genio criminale di WW ridiventa ciò sotto cui si nascondeva: l'amore per la famiglia.

Mad Men

L'ultima stagione divisa in due: pessima idea per Breaking Bad, altrettanto pallosa per Mad Men.

I dieci rugbisti che ho scoperto di amare nel 2014

di Giulio D'Antona

Il 2014 per il rugby è stato un anno di tranquillo trascinamento attraverso la comprensione dello sport. Non ci sono state grandi sorprese, il Sei Nazioni è andato come doveva andare, con un'Irlanda straordinariamente perfetta. Gli All Blacks hanno fatto i diavoli a quattro nel Championship, ma nemmeno uscendo dal seminato, l'Argentina ha proseguito la sua strana e sgangherata scalata verso un successo che è ancora difficile da immaginare. L'Italia ha perso pezzi, ha masticato retorica, ha “sfiorato imprese”, perso bene e vinto male. Le Zebre sono un po' migliorate, ma hanno cambiato campionato, e Treviso è un po' peggiorata. A fine anno quello che mi rimane è la soddisfazione di avere avuto il tempo per fissare un po' di volti, per affezionarmi sinceramente a qualche giocatore che finalmente ho potuto studiare al di fuori della frenesia da prestazione.

I motivi per cui mi piace l'uno o l'altro sono del tutto personali, non essendo io un analista sportivo, ma nella mia visione del gioco mettono assieme la direzione che il rugby internazionale ha preso in quest'anno che sta per finire.

Bakkies Botha (RSA)

Botha scende a valle con la delicatezza di una slavina, abbatte tutto quello che vede correre più del dovuto e quando ha finito di fare il suo sporco lavoro, sigla l'impresa con un bacio. Ha mandato baci a chiunque, dalla seconda linea, dai ruck intricati a centro campo, dalle touche. Quando Botha manda un bacio c'è sempre sotto qualcosa di losco ed è sicuro che quel qualcosa lo ha architettato lui. È uno che conosce il campo come le sue tasche e tutti i vecchi avversari come vicini di casa. Non si fa intimorire dai giovani, perché i giovani di solito sono troppo intimoriti da lui da tentare qualsiasi mossa sovversiva. Non è un disonesto, è uno che interpreta il rugby alla sua maniera e fin ora è andata molto bene così. Se il Sudafrica ha un'anima, quella è indubbiamente il vecchio Bakkies, che se ne sta lì dietro, a meditare qualche trucco.

Giulio Toniolatti (ITA)

Devo ammetterlo, l'Italia del 2014 mi ha deluso. Non ha giocato necessariamente peggio di quanto abbia mai fatto, ma il Sei Nazioni è stato un fallimento sconfortante. Ormai è tutto un rischiare di far bene e poi fare quel poco di male che manda a monte l'impresa. Ma non posso scaricare le colpe sui giocatori, è più una faccenda di alchimia di squadra, di poca determinazione e di un'ancora scarsa furbizia nel gioco alla mano. La maggior parte degli azzurri, presa singolarmente, non ha nulla da invidiare agli alti papaveri che ammantano i campi internazionali. Toniolatti è bravissimo all'ala, discreto come mediano di mischia e abbastanza scafato da metterci dell'inventiva. Risente di una difficoltà nella determinazione dei ruoli che è ormai propria dell'organizzazione italiana, ma sicuramente potrebbe sistemarsi da solo senza problemi. Mi sono accorto di lui a un certo punto durante una partita delle Zebre: prendeva la palla, faceva da solo e macinava metri. Passava, tagliava al centro e difendeva. Senza tradire un briciolo di indecisione. Cosa succeda in nazionale che fa cambiare tutto, non lo so. Sicuramente Toniolatti è nato per indossare la maglia numero quattordici e questo nessuno me lo toglierà dalla testa.

Sonny Bill Williams (NZ)

Oh, Sonny Bill! Un uomo sprezzante degli avversari quanto dei tifosi, uno a cui piace menare le mani e inventarsi cose pericolosissime con la palla in mano, uno che piuttosto che stare fermo va a target="_blank">tirare di boxe — e vince, in qualche occasione. Sonny Bill, che c'è bisogno di specificare che “però è tanto educato”, perché quando lo vedi in campo è di una sfacciataggine da manuale. Tra gli All Blacks del 2014 la presenza di Williams ha risollevato le sorti di un futuro vincente ma non troppo brillante e messo a tacere parecchie malelingue. È tornato in maglia nera dopo un periodo lontano dai campi di casa e ha portato al centro una sferzata di ottimismo e velocità esplosiva che non si vedeva da parecchio. Sa inventare e sa essere impertinente quanto basta da affrancare l'immagine della Nuova Zelanda che tutti abbiamo in testa, quella che segna le mete una dopo l'altra. Però sa anche essere rispettoso, questo va concesso, e più disciplinato di quanto ci si aspetterebbe. Oh, Sonny Bill!

Kieran Read (NZ)

Quello che potevo dire di Read l'ho scritto qui. Potrei riscriverlo, ma mi ripeterei. È l'anima di una squadra ai suoi fasti, è il degno erede di Richie McCaw e di tutta una tradizione All Black che ormai rasenta la leggenda. È tagliato per il gioco e impaziente di arrivare in fondo. Tanto basta a farmelo piacere.

Nick Cummins (AUS)

Cummins l'ho visto volare a Torino durante un test con l'Italia, ma era ancora il 2013. Poi è successo qualcosa, è diventato intermittente sia per l'Australia che per i club, ha fatto poche apparizioni internazionali — me lo ricordo a Rosario, contro l'Argentina nel Championship e poi basta — e alla fine pare che sia andato a giocare in Giappone. Lo chiamavano “Honey Badger”, tasso del miele, perché quando prendeva la palla cominciava a salire a passi rigidi e inarrestabili finché non arrivava in fondo o veniva abbattuto di forza. Le sue sortite sono state splendide e pulite. Cummins completava l'ala australiana con un misto di esplosività e determinazione rare, per l'anno che sta per passare.

Alun Wyn Jones (WAL)

Il mio amore per Jones va avanti da quando ho capito come si pronuncia il suo nome, ma quest'anno, con quel Galles sprovveduto e un po' tirato assieme, capace di vincere nei test ma confuso nelle partite importanti, la seconda linea Jones è come un faro che svetta sulla nebbia bassa di Swansea. È uno che sa fare il suo mestiere e lo fa sempre e malgrado tutto, sempre nello stesso modo — e quindi non sempre in maniera proficua. È un giocatore onesto e ha coraggio da vendere, non è detto che questo risolva una partita in avaria, ma spesso è un toccasana per il morale dei tifosi.

Brian O'Driscoll (IRL)

L'uomo che chiamavano “dio” non è di certo una scoperta del 2014, ma per tutti gli anni in cui la sua carriera e il mio interesse hanno permesso ai nostri destini di incrociarci, l'ho odiato profondamente. L'ho odiato per quel suo perfezionismo al piede, per la sua visione di gioco che gli permetteva di infilarsi nei pertugi tra le montagne che avrebbero dovuto sbarrargli la strada, per quel suo invecchiare dignitosamente che lo ha strappato al campo solo quest'anno. E quando l'ho visto uscire dal suo ultimo Sei Nazioni, a trentacinque anni, dopo che aveva aiutato un'Irlanda altrimenti sfortunata a vincere il torneo, con sulle spalle il peso di essere il miglior marcatore in assoluto e nella testa quello di non poter più indossare la maglia della sua nazionale, mi si è stretto il cuore. Con lui se ne andava il suo senso per la linea di meta, la sua cocciutaggine e quel modo tutto particolare che aveva di fare innervosire giocatori e tifosi avversari.

Lucas Gonzáles Amorosino (ARG)

L'Argentina si è scoperta — o si è forzata a scoprirsi — una squadra che può anche correre. Il 2014 è stato un anno di mutazioni, di adattamenti. I Pumas hanno cambiato il modo di giocare in favore di quella frenesia da Sud del mondo che li costringeva a sgroppate mitiche, ma hanno anche cambiato leggermente un torneo che prometteva di cambiare lo sport. Amorosino è frutto di questo cambiamento radicale, è l'ala esplosiva che serve da sostegno al gioco al centro, quello che prende la palla e, senza guardarsi indietro, mangia via tutto il campo avversario dopo qualche fase statica che ha scombussolato la difesa degli energumeni boreali. Amorosino è un nuovo corso, che, devo dire, mi piace molto.

François Trinh Duc (FRA)

Il vecchio Trinh Duc non gioca più per la Francia e infatti la Francia non è più la stessa. Meglio, mi tocca dire da italiano. Trinh Duc non è mai stato un giocatore eccezionale, ma ha una buona predisposizione al piede e un ottimo senso del piazzamento. È un moderato, per questo mi piace, e mi ricorda un giovane James Hook. Fa quello che deve fare quando lo deve fare, non si arrischia a metterci molto di più e per un francese è più di quanto si possa mai dire.

Stuart Hogg (SCO)

Se non ci fosse l'Italia la Scozia avrebbe di che lamentarsi. Lo dicono i numeri e le statistiche che ogni anno corredano il Sei Nazioni di un po' di sano pessimismo realista. E se non ci fosse Hogg la Scozia non saprebbe con chi lamentarsi. Laggiù, all'estremo, c'è un giocatore che sa dove stanno i pali e come raggiungerli con una pedata senza metterci troppo impegno. Non è raro che Hogg salvi le partite che avrebbero potuto andare molto peggio e nel 2014 è stato determinante per non andare a pascolare il fondo del barile (noialtri ne sappiamo qualcosa, mannaggia). Non può non piacermi, Hogg, perché mi piace la fierezza degli scozzesi e lui, per lo meno per quest'anno, è stato il motivo di questa fierezza.

10 memorabili articoli per raccontare l'NBA nel 2014

di Dario Vismara

1. Databall (Kirk Goldsberry, grantland.com)

La rivoluzione dei numeri è in atto già da qualche tempo, ma nell’ultimo anno abbiamo assistito ad un’esplosione di advanced stats, analisi e big data applicati alla pallacanestro NBA. ll merito è anche di Kirk Goldsberry, che nella “vita vera” fa il professore universitario ad Harvard, ma è anche un contributor su Grantland, dove di solito scrive di statistiche avanzate utilizzando delle grafiche fighissime per illustrare le mappe di tiro dei giocatori NBA. In questo pezzo, Goldsberry va oltre: insieme al suo team di schiavetti ha inventato una nuova statistica, l’EPV (Expected Point Value), che — semplificando molto — ha come obiettivo quello di dare un valore ad ogni movimento o scelta fatta dai giocatori in campo. Da quel giorno, il mondo delle statistiche applicato alla NBA non è più lo stesso.

2. The Zen Master of Puppets: What Phil Jackson Can Do and the Knicks Must Do to Succeed (Zach Lowe, grantland.com)

Il 2014 è anche l’anno in cui Coach Zen Phil Jackson è tornato in campo. Non più in panchina, dove ha vinto più di chiunque altro nella storia della NBA, ma dietro una scrivania, e che scrivania. Del suo arrivo ai New York Knicks, della sua diversità e del difficile compito che lo attendeva ha scritto l’imprescindibile Zach Lowe — senza alcun dubbio la miglior penna NBA attualmente in circolazione, e metto in classifica solo questo suo pezzo altrimenti avrei dovuto utilizzarli tutti.

3. The sad last chapter of Sterling's life (Ramona Shelburne, ESPN)

È indiscutibile che l’anno che sta per concludersi finisca per essere ricordato come l’anno di Donald Sterling, perché il caso di razzismo che ha sconvolto la Lega a primavera è finito sui notiziari di tutto il mondo. Anche con una concorrenza così spietata, Ramona Shelburne di ESPN è stata in assoluto la miglior reporter della vicenda, che qui riassume in un “ultimo capitolo” della saga Sterling.

4. Mon Frère Boris (Jonathan Abrams, Grantland.com)

I San Antonio Spurs hanno vinto il titolo NBA di quest’anno giocando un basket meraviglioso, ma sono tra le franchigie più difficili in assoluto quando si tratta di accesso alla stampa. Quando nello scorso ottobre Chris Mannix di Sports Illustrated si è mosso per fare il classico “profilone” su Kawhi Leonard, si è visto rispondere “ok, hai due minuti di intervista”. Di tutt’altro spazio e tempo ha potuto beneficiare Jonathan Abrams di Grantland: questo suo pezzo su Boris Diaw e la sua amicizia con Tony Parker è strepitoso per aneddoti e profondità, oltre al fatto che il francese è uno dei protagonisti “nascosti” del successo degli Spurs.

5. The Can-Do Kid (Howard Beck, Bleacher Report)

A proposito di Spurs: nel corso dell’estate ha fatto notizia l’assunzione di Becky Hammon come assistente allenatrice della squadra, la prima donna di sempre a ricoprire un ruolo del genere in una franchigia NBA. Leggendo il pezzo di Howard Beck su di lei, sulle sue origini nel South Dakota e la sua natura “avventurosa”, non si fa fatica a capire perché lo sia diventata. (E in quale altra squadra sarebbe potuto succedere se non agli Spurs, che hanno mandato un europeo — anzi, un italiano — in panchina da capo allenatore?)

6. I’m Coming Home (LeBron James e Lee Jenkins, Sports Illustrated)

Lo spartiacque dell’anno 2014: questa lettera pubblicata sul sito di Sports Illustrated lo scorso 10 luglio ha cambiato i destini di LeBron James, dei Cleveland Cavaliers e della NBA stessa. Il fatto stesso che LeBron abbia scelto la forma scritta per un annuncio così importante, al contrario di quanto successo quattro anni fa con la disastrosa “The Decision”, è sintomo di un uomo — per sua stessa ammissione — cambiato, migliorato e cresciuto da quando se ne andò da Cleveland nel 2010. O forse è solo una bella “narrative” da poter sfruttare, decidete voi in base a come vi sentite sotto Natale.

7. Kobe Bryant’s Twilight Saga (Chris Ballard, Sports Illustrated)

Ecco, a proposito di “avere accesso ai giocatori”: Kobe Bryant ha permesso a Chris Ballard di Sports Illustrated di seguirlo durante il suo tour in Asia, raccontandone l’enorme popolarità in Cina, ma anche le grandi difficoltà che ha Kobe di fronte alla propria mortalità cestistica. Ne abbiamo già parlato diffusamente, quindi non c’è bisogno di andare oltre: Kobe Bryant è sempre una lettura affascinante (soprattutto quando poi è “impaginata” così).

8. Their Dinner With Andray (Rafe Bartholomew, grantland.com)

Se avete seguito i Mondiali dello scorso settembre e siete malati di pallacanestro, non può esservi sfuggito il fatto che Andray Blatche — uno dei giocatori più incomprensibili, particolari e fondamentalmente stupidi della NBA — sia stato per cinque partite il centro titolare della nazionale filippina, in mezzo a nani bombardieri di 1.70 e lunghi sottodimensionati ma con un cuore grande così. In questi due pezzi di Rafe Bartholomew (che per anni ha vissuto nelle Filippine ed è il “cantore” del basket Pinoy a livello globale) si racconta del suo arrivo in squadra e del rapporto che si è creato tra le due parti. Culto assoluto.

9. Carmelo Anthony means Business (Eli Saslow, Espn The Mag)

Nello scorso luglio, Carmelo Anthony si è trovato davanti a un bivio: andare ai Chicago Bulls (per tanti soldi e la prospettiva di lottare per il titolo, ma nella squadra “di” Derrick Rose) oppure continuare la propria carriera ai New York Knicks (con 50 milioni di dollari in più, ma una squadra lontanissima dal titolo NBA). Ha scelto la seconda, ed era chiaro che la sua valutazione non potesse essere esclusivamente di carattere cestistica. Infatti, in questo pezzo su ESPN The Mag parla della sua attività imprenditoriale e della sua necessità di non essere etichettato come “solo un giocatore di basket”.

10. Basketball’s Biggest Reporter Is Waging War on ESPN (Kevin Draper, New Republic)

L’ultimo pezzo che vi segnalo è recentissimo e non si parla direttamente di basket NBA, quanto del suo reporter più famoso e — in molti circoli — odiato. Adrian Wojnarowski è talmente famoso e influente che molti personaggi della Lega (e pure il sottoscritto, se vi interessa) tengono attivate le notifiche per ogni tweet fatto da lui, perché si ha la certezza che sia una notizia importante, vale a dire una #WOJBOMB, come è stata velocemente ribattezzata su Twitter. Solo che i metodi per arrivare a quelle notizie non sono esattamente limpidissimi, sopratutto quando all’attività di reporting si mischiano le sue opinioni personali, in particolare le sue battaglie contro ESPN, LeBron James e — anche se non viene trattato nel pezzo — l’ex commissioner David Stern.

Due cose belle successe dentro l’internet nel 2014

di Pietro Minto

1. L'anno del Doge

Nell’annus horribilis che ci ha regalato l’operazione “Tanko 2” (un trattore armato di fucili installati da veneti eversivi ed avvinazzati) e l’indispensabile “dichiarazione d’indipendenza” letta da altri avvinazzati eversi in quel di Treviso, un meme di internet ha salvato la reputazione e il morale di noi gente veneta che non vogliamo ridurre la nostra identità a un mezzo agricolo addobbato a guerra. “Doge” è nato verso la fine del 2013, anno ormai O L D per tutti noi, e proprio a novembre 2013 è stato scoperto dal grandissimo Adrian Chen, che ne ha denunciato l’esistenza su Gawker. Da quel momento, Doge ha conquistato internet e buona parte del 2014, anno che ricordo essere stato, almeno all’inizio, un continuo riferimento ai “wow”, “such X”, “many Y” tipici del shiba avvolto da comic sans. Il meme ha insomma ridato nuova linfa vitale alla gloriosa tradizione dei Dogi e del Dogato che un tempo dominava il Mediterraneo con i loro copricapo discutibili e le imbarcazioni inscalfibili, creando un legame bizzarro tra le due realtà – il meme e la Serenissima – e generando questa stramberia. Ma “Doge” è stato importantissimo per le nostre vite digitali anche perché ci ha ricordato che dietro agli animaletti di internet si celano veri animali. Come il piccolo Kabosu (il vero nome del nostro meme) e il suo padrone, il giapponese Atsuko Sato, dei quali Matter ha raccontato l’incredibile storia, la loro vita prima e dopo la “fama” online.

“Doge” ha avuto anche un impatto culturale notevole, diventando in pochi mesi uno dei meme più completi della storia recente: molti gli studi scientifici sull’argomento, dalle analisi linguistiche agli essay universitari che contengono grafici come il seguente:

Secondo quest’altro studio, invece, ci sarebbero delle somiglianze tra le parole di “Doge” e Confucio, una teoria bizzarra a cui non so se credere. Quel che è certo è che il meme, con le sue reazioni incredule ed entusiaste, ben riassume i nostri comportamenti odierni, online e offline: brevi orgasmi via schermo procurati da video “mind-blowing” e ovviamente virali. Il 2014 è stato un anno intenso e orribile in cui la cultura digitale ci ha regalato il GamerGate, alcuni importanti sviluppi della vicenda Snowden-NSA e lo spettacolo di un enorme numero di persone sotterrato da secchi di acqua gelida in occasione della follia collettiva dell’#IceBucketChallenge. Scandali, sorprese, cose buffe e tragedie: tutte cose da commentare e vivere online con reazioni da shiba emotivo. WOW SUCH TRAGEDY VERY SAD. Anche per questo è stato il meme più importante del 2014 – e forse anche del 2015.

2. La probabile fine del Bitcoin

Come ogni utopia internettiana, il Bitcoin, la valuta tutta-digitale che doveva sostituire e uccidere per sempre le zecche di stato e le banche mondiali, è presto diventata un passatempo per maschi bianchi nerdoni e fanatici, una chiamata alle armi per un futuro meraviglioso e libero, pieno di queste monetini digitali che, sole, avrebbero migliorato il mondo (a questo proposito @shit_rbtc_says funge da archivio costante di castronerie e follie circolanti nella bitcoin community). Il 2014 è stato però un anno cruciale nella vita della valuta, cominciato a Febbraio con lo scandalo Mt. Gox, il centro di scambio virtuale più grande del mondo, colpito da una serie di attacchi hacker che hanno portato alla “scomparsa” di 744.408 Bitcoin, il 6% del totale. Di seguito sono caduti altri hub di scambio vitali per la moneta – Silk Road, BitInstan – mentre Newsweek tornava in forma cartacea nelle edicole con un controverso scoop sulla vera identità di Satoshi Nakamoto, il misterioso creatore dei Bitcoin: secondo la testata dietro al nickname si celava l’informatico Dorian Nakamoto che però molto, molto, molto probabilmente non è la persona che cercavano.

La caduta è così proseguita, spingendo Quartz a definire la valuta “il peggior investimento del 2014”, un titolo meritato per una cosa che ha perso il 52% del suo valore in pochi mesi, dopo aver superato quota 1200 dollari in seguito alla classica furia speculativa. Ora il valore di un Bitcoin si attesta a poco più di 300 dollari e il Bitcoin non esiste più: o meglio, non esiste come lo avevamo conosciuto, ovvero come valuta digitale per ribelli che volevano trovare la loro strada all’interno del labirinto del capitalismo. I poveracci che vi avevano investito hanno perso soldi mentre – come spiega Adrianne Jeffries su Motherboard – a guadagnare sono i ricchissimi fondi d’investimento che avevano scommesso enormi somme, ricavando un buon profitto. È così che i Bitcoin sono diventati così “The Man”, un giocattolo rischioso per potenti; e così che i Bitcoin moriranno? Io mi auguro di sì. Buon 2015!

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