Siamo stati costretti a cambiare idea su diverse cose negli ultimi tempi, ma sui centrali di difesa per fortuna ancora nessuna discussione. Abbiamo accettato mezzali enormi come prime punte, terzini con il tocco di palla di un trequartista, persino portieri minuti più bravi con i piedi che con le mani, ma il cuore della difesa non si tocca. Così come non si può mettere l’ananas sulla pizza o il ghiaccio nel vino, allo stesso modo i centrali di difesa non possono essere bassi, piccoli, addirittura lenti sui primi passi, attendisti negli uno contro uno, battibili nei duelli aerei. Certo, il calcio li ha portati ad essere sempre più tecnici, quasi creativi quando c’è da bucare con un passaggio la prima linea di pressione, ma insomma lo sappiamo, i centrali innanzitutto devono saper difendere. E per difendere ci vuole il fisico. Non è solo la venerazione italiana per la distruzione del gioco a urlarcelo in faccia, anche i più moderni allenatori contemporanei non fanno che confermare questa nostra impressione. Guardiola ha Ruben Dias (186 centimetri per quasi 80 chili), Klopp ha van Dijk (che potrebbe tranquillamente fare il corazziere), il Chelsea ha appena comprato Koulibaly, il Bayern Monaco de Ligt.
Adesso prendete questo gruppo di Avengers, se volete aggiungeteci Fikayo Tomori e Milan Skriniar, e provate a immaginarvi al loro fianco Lisandro Martinez. Se non vi viene in mente vi aiuto io. Alto circa 178 centimetri, senza nessun muscolo rilevante attaccato alle ossa, gli occhi piccoli e il doppio taglio anonimo, da lontano potrebbe assomigliare a Gary Medel, anche per la corsa trotterellante da cane di piccola taglia che gli ha donato le sue gambe corte. È difficile farsi questa immagine in testa e non sollevare un sopracciglio con un po’ di scetticismo. Immaginarselo con la maglietta del Manchester United addosso, nei ritmi infernali della Premier League, e non decretare, anche con un sottile sorriso sadico, che non ha alcuna speranza. È inevitabile: Lisandro Martinez sembra fatto apposta per scandalizzarci. L’arrivo di ten Hag a Old Trafford ha convinto lo United a spendere per lui una cifra che può arrivare vicino ai 68 milioni di euro, rendendo la sua cessione da parte dell’Ajax la terza più remunerativa nella storia del campionato olandese. Ma Lisandro Martinez non ha né l’aura da prescelto del calcio di posizione che ha Frenkie de Jong (85 milioni di euro) né lo spessore fisico, la mole da colosso di Matthijs de Ligt (75 milioni di euro). Possiamo solo pensare che lo United stia buttando l’ennesima valigia piena di soldi giù dalla finestra, d’altra parte non sarebbe né la prima né certo l’ultima.
La stazza non è l’unica caratteristica a renderci alieno questo piccolo difensore argentino. Nonostante sia nato in una famiglia molto povera di Gualeguay, 232 chilometri a nord di Buenos Aires, dove si era «soliti mangiare solo a mezzogiorno e prendere un tè con un po’ di pane o biscotti prima di andare a dormire», a Lisandro Martinez sembra mancare completamente l’aggressività e la voglia di riscatto che associamo naturalmente ai difensori argentini o uruguaiani. Quella che per esempio sembrava animare Gabriel Heinze, il suo idolo. Quando qualcuno all’Ajax lo ha soprannominato “il macellaio di Amsterdam” lui non ha capito esattamente perché. «Non sono uno che mena, mi piace più il gioco». In Argentina spesso glielo chiedono ridendo: ma davvero ti hanno chiamato così? «È che noi argentini facciamo tutto con grande passione. Quando giochiamo a calcio, lo facciamo per il cibo della nostra famiglia. È un motivazione che non puoi spiegare».
Anche se si è detto pronto a «passare sul cadavere dell’avversario pur di non far passare una palla», Lisandro Martinez non sembra proprio uno di quei difensori che escono coperti di sangue, che sarebbero disposti a mangiare le zolle pur di spaventare l’avversario. Fuori dal campo dice di fare molta meditazione, di lavorare sulla respirazione per «rimanere in equilibrio e non reagire troppo alle emozioni», con alcune convinzioni che suonano fricchettone per un calciatore. Lisandro Martinez parla di energia, di empatia, di sentirsi «sempre in contatto con l’universo». Usa i social anche per prendere posizioni politiche, per esempio quando ha commentato stizzito il video di una donna scandalizzata dalla fila lunghissima che si era formata davanti a una mensa per poveri. «Io sto a fianco a delle persone che hanno realmente bisogno. Quando qualcosa mi fa arrabbiare non mi piace lasciarlo passare».
Da piccolo non era credibile nemmeno come calciatore. Il provino con i Newell’s Old Boys dovette ripeterlo tre volte, tra i 12 e i 14 anni, perché ogni volta se ne tornava indietro per la nostalgia di casa. Quando chiese a un preparatore fisico della storica squadra argentina se pensava che potesse arrivare fino alla Serie A quello gli sbottò a ridere in faccia. Gli stessi Newell’s Old Boys, d’altra parte, lo gireranno quasi subito al Defensa y Justicia, e con la maglia rossonera non ci giocherà se non per una presenza. Qui incontrerà Sebastian Beccacece, che sarà il primo a trasformarlo in quel giocatore polivalente e indecifrabile che è oggi.
Persino per l’Ajax, la culla del gioco di posizione olandese, sembrava una scommessa troppo rischiosa, tanto più che arrivava in Olanda proprio per prendere il posto di un guerriero vichingo come Matthijs de Ligt. Erik ten Hag, che consideriamo uno dei più avanguardisti tra gli allenatori europei d’élite, lo guardava giocare e non capiva nemmeno dove avrebbe dovuto metterlo in campo. Al Newell’s Old Boys aveva fatto i suoi primi provini giovanili da enganche, ma al Defensa y Justicia effettivamente era maturato da difensore centrale. Ma con quel fisico poteva farlo anche in Europa? Ten Hag ha iniziato facendolo giocare principalmente da centrocampista davanti alla difesa, poi addirittura da terzino sinistro. Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 finisce per lasciarlo in panchina: Lisandro Martinez sembra uno di quei giocatori capaci di fare tutto ma realmente eccezionali in niente. Il 28 gennaio del 2021 il sito della TV olandese NOS lo definisce un giocatore fondamentale senza un posto da titolare, con un gioco di parole che è difficile da rendere in italiano tra il termine basisspeler (con cui ci si riferisce a un giocatore inserito nella Top XI di una squadra) e basisplaats (cioè il posto da titolare) che conferma la sua dimensione di giocatore splendido solo in teoria. L’allenatore olandese cerca di discolparsi dichiarando che a centrocampo c’è molto concorrenza (Blind, Tagliafico, Gravenberch), che per quella posizione di campo preferisce giocatori più dinamici. Il dato interessante che esce da queste dichiarazioni è che persino un allenatore come lui all'inizio non ci pensa nemmeno a metterlo al centro della difesa.
Difficile capire da fuori cosa sia cambiato dopo quel periodo. In un’intervista di inizio anno, Lisandro Martinez ha dichiarato che in principio adattarsi al gioco dell’Ajax è stato un incubo. «Un altro livello di intensità, di controllo. I passaggi, la lettura del gioco è diversa. All’inizio mi veniva voglia di andarmene a casa a piangere, mi sentivo male. Io sono un giocatore a cui piace tenere il pallone, ma quando giocavamo a uno, due tocchi non riuscivo a stargli dietro. Era incredibile quanto arrivassi tardi». Martinez, quindi, non è dovuto diventare più veloce di gambe, ma di testa. «L’intelligenza in campo si allena», aveva dichiarato in una precedente intervista in cui sottolineava l’importanza dell’esperienza e dello studio degli avversari con i video. «Devi avere fiducia in te stesso, chiaramente. Ma il calcio è un gioco di decisioni e le decisioni si prendono con la testa». Magari può sembrare un pochino retorico, ma sembra davvero che a un certo punto, dopo una lunga conoscenza, Lisandro Martinez e l’Ajax abbiano capito quanto fossero fatti l’uno per l’altro.
Da una parte una squadra che, come ha scritto Dario Pergolizzi a inizio novembre qui sull’Ultimo Uomo, «insiste sulla costruzione bassa praticamente sempre, anche in situazioni di parità numerica, o forse sarebbe più corretto dire effimera parità numerica, dato che la fluidità costante e il grande livello di interpretazione degli spazi consente in una frazione di secondo di trovare, attraverso scambi di posizione e corse senza palla, l’uomo libero per progredire, anche a costo di giocare qualche secondo in potenziale inferiorità numerica». Dall’altra un difensore che, per le cose che fa, non sembra davvero un difensore. Non si tratta solo della sensibilità tecnica nei passaggi e nei lanci lunghi, anche se ovviamente è sopraffina e meriterebbe un pezzo a parte. Lisandro Martinez ha un sinistro al velcro che utilizza sia per bucare la prima linea di pressione avversaria, sia per arrivare direttamente all’ultimo quarto di campo, quando l’Ajax può gestire il possesso direttamente sulla trequarti avversaria e il difensore argentino di fatto non è più veramente un difensore, perché fa ciò che faceva Pirlo una quindicina di anni fa. Ovvero lanciare palloni soffici come una nuvola sugli esterni, per trovare le ali larghe e pronte a puntare l’avversario, oppure direttamente in area. Fra i centrali è nel 99esimo percentile per assist ogni 90 minuti e nel 95esimo per Expected Assist. Quanti difensori vi vengono in mente che sanno trovare il proprio centravanti in mezzo all’area direttamente da centrocampo, quando la difesa avversaria è schierata?
Saper usare i piedi è l’espressione che di solito si utilizza in questi casi, quando vogliamo indicare un centrale che sa far uscire il pallone dalla difesa con un passaggio. Ma è un’espressione riduttiva per un centrale che è chiamato a creare superiorità numerica già dai primissimi palloni toccati, perché una squadra davvero fluida non si divide per comparti stagni (la difesa che fa uscire il pallone, il centrocampo che riceve alle spalle della pressione), e perché, come dice Lisandro Martinez, le scelte non si prendono con i piedi ma con la testa. In Italia abbiamo avuto un assaggio di cosa significa questo vedendo giocare Alessandro Bastoni, teoricamente un centrale di sinistra che però con il possesso o con la progressione, oppure ruotando la sua posizione con Perisic e Calhanoglu, a volte si ritrovava a fare l’esterno, altre volte il regista al centro del campo. Dipendeva, per l’appunto, dalle scelte prese da Bastoni caso per caso, e dalla sua capacità di leggere il momento, adattandosi a sua volta ai movimenti e alle decisioni dei suoi due compagni di squadra. In ogni caso era difficile non considerarlo un giocatore offensivo a tutti gli effetti. Ecco se vi siete esaltati guardandolo giocare dovete sapere che Lisandro Martinez è Alessandro Bastoni dopo esservi calati dell’LSD.
Innanzitutto c’è da dire che l’Ajax non mette mai in discussione la sacra difesa a quattro e che Lisandro Martinez, bisogna ricordarlo, è nominalmente uno dei due centrali. Se perde palla non è sull’esterno del campo e non ha un compagno pronto a coprirlo alle spalle. In questo senso, l’aspetto più visibile ed eccitante della sua intelligenza in campo è la sua insistenza nel cercare il dribbling da ultimo uomo. C’è un pizzico di incoscienza nel farlo, e chiunque abbia giocato da difensore anche in una partitella di amici sa quante endorfine da onnipotenza dà l’aggirare un avversario in conduzione quando non hai nessuna rete di salvataggio alle spalle, ma non va sottovalutato anche il valore tattico del saltare l’uomo in quella zona di campo. Attirare l’avversario, farselo venire addosso, significa infatti muovere il sistema di pressing avversario, disordinarlo, costringere i suoi compagni a pensare a come adattarsi a quel cambio di configurazione. E in un calcio in cui i sistemi di pressing sono sempre più organizzati ed efficienti, avere un giocatore in grado di disorganizzarli con una conduzione sin dal primo pallone toccato è un valore inestimabile, anche al costo di un rischio potenzialmente altissimo. Lisandro Martinez, tra i centrali dei cinque principali campionati europei, per i dati fbref è nel 96esimo percentile per corse progressive.
In questo senso, Lisandro Martinez è un “calciatore controculturale”, come lo ha definito il quotidiano argentino La Nacion, non solo perché è basso e senza muscoli, ma anche perché rovescia la nostra convinzione che un centrale di difesa saggio è quello che non si prende rischi. Veder giocare Lisandro Martinez significa rimanere col fiato sospeso di fronte a un centrale che aspetta fino all’ultimo momento utile per spostare il pallone dal piede dell’avversario che sta arrivando a tutta velocità per rubarglielo, oppure fare finta di perdere tempo prezioso per effettuare un banale retropassaggio al portiere solo per girarsi su se stesso e lasciare due avversari in pressione con un pugno di mosche in mano (adesso avrete capito a cosa serve tutta quella meditazione). Il dribbling non è solo ricerca dell’estetica o della battaglia psicologica su cui si basa il duello tra difensore e attaccante, ma ha un valore che è tanto più alto quanto più alto è il rischio ad esso connesso (quindi, in sostanza, è inversamente proporzionale all’altezza di campo a cui viene effettuato).
All’incoscienza lucida di assumersi rischi che quasi nessun altro al mondo avrebbe il coraggio di prendersi Lisandro Martinez affianca un’intelligenza nel leggere il gioco e lo spazio che all’Ajax è diventata talmente allenata da sembrare quasi naturale. In questo senso, la definizione di centrale di difesa per lui è sfuggente non solo per le caratteristiche che ha, ma anche per il modo in cui la squadra olandese lo utilizzava in campo. L’Ajax, infatti, considera la prima linea di pressione in realtà quella che divide il portiere dalla difesa, e per manipolarla utilizza le rotazioni già a partire dalla difesa. Non è raro vedere quello che nominalmente sarebbe il regista, Edson Alvarez (un altro per cui è difficile definire un ruolo convenzionale), prendere palla al centro della difesa mentre Lisandro Martinez sale alle sue spalle per creare una linea di passaggio per il portiere. Ma la fluidità della squadra olandese non si fermava a una singola fase di gioco e coinvolgeva tutti i giocatori. E non era detto a quel punto che Lisandro Martinez si allargasse sull’esterno a ruotare la propria posizione con il terzino, oppure salisse ulteriormente a fare lo stesso con la mezzala. Come se in ogni partita si riproducesse in piccolo tutto il suo percorso con l’Ajax, che in tre stagioni lo ha schierato in quasi ogni zona di campo.
Non stupisce che un giocatore con questa ambizione nelle scelte c’abbia messo così tanto tempo a convincere anche un allenatore moderno come ten Hag, che prima di metterlo al centro della difesa con continuità lo ha fatto passare per un apprendistato durato una stagione e mezza. Eppure è anche vero che negli ultimi anni mai si era visto l’Ajax così vicino alla sua utopia come quando ha definitivamente promosso Lisandro Martinez da centrale di difesa, con l’apice raggiunto nel doppio confronto contro il Borussia Dortmund nei gironi di Champions League (7 gol segnati, uno subito, con Lisandro Martinez costretto a marcare Erling Haaland). Quella stessa Champions League che per certi versi ha confermato i pregiudizi che da sempre accompagnano sia l’Ajax che Lisandro Martinez, e quanto sia facile bruciarsi quando si punta al sole. Dopo una fase a gironi scintillante (6 vittorie su 6, 20 gol fatti), la squadra di ten Hag è uscita incomprensibilmente con il Benfica dopo aver dominato l’avversario per la quasi totalità dei 180 minuti. Ma rimane il fatto che nella stagione in cui l’Ajax ha raggiunto picchi di calcio inarrivabili forse anche alla squadra che arrivò a un passo dalla finale di Champions nella stagione 2018/19 Lisandro Martinez ha fatto la sua migliore annata da quando è in Europa vincendo il premio di giocatore dell’anno della squadra di Amsterdam. Ed è inutile chiedersi se sia stata più la squadra a far crescere il giocatore o viceversa, il quesito dell’uovo e della gallina del dibattito calcistico, se non per perdersi una fetta della complessità di questo gioco.
Se Erik ten Hag lo ha reso il suo acquisto di punta vuol dire che una risposta a questa domanda ce l’ha già chiarissima. L’allenatore olandese sa quanto Lisandro Martinez abbia contribuito a rendere speciale il suo gioco, e se oltre a lui sono arrivati l’ex terzino del Feyenoord, Tyrell Malacia, Christian Eriksen e forse Frenkie de Jong vuol dire che è convinto di poter ricreare la sua magia anche fuori dalla culla dorata dell’Ajax. In Premier League, però, troverà i centrocampisti con la stazza di credenze di legno massello, i ritmi di gioco Mad Max, lo scetticismo di tutti quelli che non vedono l’ora di dire “te l’avevo detto”. Soprattutto la storia del Manchester United, una squadra che ha raggiunto i suoi picchi (in mezzo a un mare di mediocrità) con due allenatori che non si occupavano del lavoro sul campo e non si sognavano nemmeno di dare indicazioni tattiche ai propri giocatori. E questo nonostante tutto conterà.
Insomma, tutto sembra remare contro l’affermazione di Lisandro Martinez, che si è ficcato con tutte le scarpe in un campionato che sembra fatto apposta per mettere in mostra i limiti di un difensore attendista, lento sui primi passi e tutt’altro che dominante nei duelli aerei come lui. Con la scelta di portarlo in Premier League, ten Hag ha dimostrato di voler affrontare l’impatto con il calcio inglese senza alcun compromesso. Perché è questo che Lisandro Martinez significa: rivoluzione o morte.