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Marco Gaetani
Storia di un tradimento finito male
10 lug 2019
10 lug 2019
Ricordo della deludente esperienza di Marcello Lippi sulla panchina nerazzurra.
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Marco Gaetani
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«Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai»


Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore


 

Sono giorni caldi, giorni in cui si urla al tradimento, un po’ da tutte le parti. I tifosi del Napoli, innanzitutto, che non tollerano l’approdo di Maurizio Sarri alla

, con l’anima

tradita dalla scelta di sedersi sulla panchina degli arcinemici. Una frangia bianconera, nel frattempo, chiede la rimozione della stella di Antonio Conte dall’Allianz Stadium perché andare all’Inter ha il sapore dell’oltraggio, di uno schiaffo alla juventinità sbandierata per anni con orgoglio dall’ex capitano e allenatore. Allo stesso tempo, c’è anche una fetta di tifo interista che non ha gradito la scelta di puntare su Antonio Conte,

, fino a qualche anno fa, era ritenuto un nemico. Si è sfiorata una terza piazza in subbuglio, quella romana: Sinisa Mihajlovic, con la scarsa diplomazia che lo contraddistingue, ha deciso di rivelare apertamente i motivi che lo hanno spinto a non accettare l’offerta della Roma. «Io non tradisco nessuno (

),

. Sono stato vicinissimo ad allenare i giallorossi, poi ho capito che dal punto di vista ambientale loro non erano pronti per certe cose: io lo ero, loro invece no, quindi ho deciso di rifiutare: posso anche andare a fare la guerra da solo contro tutti e perdere, ma stavolta no», ha dichiarato dopo aver rinnovato il contratto con il Bologna.

 

Verrebbe da chiedersi se sia giusto discutere di tradimento quando si parla di professionisti, ma allo stesso tempo è perfettamente comprensibile la reazione di chi si sente tradito, perché quando ci avviciniamo al tifo di una squadra lo facciamo con quella fetta di irrazionalità che è tipica delle cotte adolescenziali, e ognuno si interfaccia con la propria fede calcistica portando con sé il proprio modo di vedere il mondo. Si può diventare tifosi per contaminazione o per contrapposizione, per una simpatia nei confronti di un calciatore o verso i colori di una bandiera, o anche per il senso più alto del termine

: patire o provare emozioni positive insieme a qualcun altro. Questa necessità di condividere dei valori, di vivere come vive l’ambiente che ci circonda, può rivelarsi decisiva nei successi o nei fallimenti di un calciatore o di un allenatore.

 

Ovviamente non sono situazioni nuove per la storia del calcio, tanto più per quella del calcio italiano che a campanilismo non è secondo a nessuno. Vent’anni fa, in una situazione di partenza decisamente più complessa rispetto a quella che erediterà Antonio Conte da Luciano Spalletti, l’Inter optò per una scelta di rottura simile all’idea che ha portato Steven Zhang a puntare sull’ex tecnico della Juventus. Era l’estate del 1999, l’Inter era una polveriera capace di fagocitare allenatori con un’indifferenza sconvolgente, e Massimo Moratti decise di affidarsi a un uomo forte, ancorché dall’indiscutibile matrice juventina. Marcello Lippi portò all’Inter i suoi valori, le sue idee, la sua juventinità, non riuscendo mai a capire l’ambiente interista, né tantomeno a farsi capire dai suoi nuovi tifosi. Forse fu anche il suo fallimento in nerazzurro a fortificarne in seguito la figura del mito juventino, ulteriormente alimentata dal ritorno vincente in bianconero ai danni proprio di quell’Inter con cui aveva fallito in maniera tonante.

 

E quindi riavvolgiamo il nastro fino al 17 maggio 1999, giorno in cui, dopo mesi di indiscrezioni, Marcello Lippi convocò i giornalisti in uno degli stabilimenti più noti di Viareggio per vuotare il sacco sul suo addio alla Juventus, già consumato mesi prima dopo un KO interno con il Parma, e chiedendo alla stampa di non fare domande sul suo imminente approdo interista. Il primo atto di una storia di incomprensioni durata 504 giorni.

 


L’immancabile sigaro e un passaggio anche su Antonio Conte nella lunga confessione di Marcello Lippi, senza poter neanche immaginare uno scenario simile per il leccese da lì a vent’anni.


 



Marcello Lippi saluta la Juventus dopo quattro anni e mezzo. Lo fa sbattendo la porta dopo Juventus-Parma, con un gesto d’impeto, tipico del suo carattere forte. Prende da parte i giocatori e li avvisa: «Se il problema sono io, allora è giusto che me ne vada». Massimo Moratti ne approfitta, sta cercando da anni l’allenatore giusto per la sua Inter. Credeva di averlo trovato in Gigi Simoni, in un 1997-1998 caratterizzato dalla lotta scudetto con la Juventus e dalla vittoria della Coppa UEFA. Nell’estate del 1997, aveva regalato all’ex tecnico, tra le altre, di Cremonese e Napoli, un gioiello del calibro di Ronaldo. La prima stagione italiana del “Fenomeno” era stata commovente, un alieno che pareva in grado di camminare sulle acque come aveva dimostrato nel pantano di Mosca contro lo Spartak.

 


Ronaldo smonta così la teoria dell’impenetrabilità dei corpi.


 

Nell’autunno del 1998, però, la svolta improvvisa. Moratti licenzia Simoni dopo due vittorie consecutive, contro Real Madrid e Salernitana, sebbene all’ultimo respiro in entrambe le occasioni, con la squadra a 5 punti dalla Fiorentina capolista. Il tecnico riceve la notizia mentre è a Coverciano, impegnato a ritirare la Panchina d’Oro. Un colpo alla Cecchi Gori, alla Zamparini, alla Gaucci. «Ho preso il premio e rilasciato interviste quando tutto era già deciso, me l’hanno detto dopo.

». A seguire, Lucescu, Castellini e la parentesi finale con Roy Hodgson in sella. L’inglese all’esordio vince 4-5 all’Olimpico contro la Roma zemaniana e da lì a poche ore Moratti si dimette da presidente pur mantenendo le quote della società, l’ennesimo colpo di scena di una stagione assurda,

.

 

È in questo scenario, con le macerie sparpagliate ovunque, che Marcello Lippi deve ricostruire l’Inter. Sembra l’uomo giusto al posto giusto: tre scudetti in quattro anni e mezzo in bianconero, una Champions League, altre due finali del massimo torneo continentale, una Coppa Italia, due Supercoppe Italiane, una Supercoppa Europea, una Coppa Intercontinentale. Il mercato nerazzurro è faraonico: dentro Peruzzi, Panucci, Blanc, Domoraud, Georgatos, Jugovic e Di Biagio, dal prestito al Venezia torna un Alvaro Recoba carico a mille. Soprattutto, arriva Christian Vieri: 69 miliardi di lire e il cartellino di Diego Pablo Simeone convincono Sergio Cragnotti a disfarsene dopo una sola stagione, e il tempo gliene renderà merito con il secondo scudetto della storia biancoceleste.

 

Lippi si dimostra sereno e spavaldo durante la campagna estiva: «Mi sta bene essere qui come il più bravo, significa che il mio lavoro è stato apprezzato. Non faccio promesse, non sono né stupido, né coraggioso. Ma nella mia testa c’è lo scudetto, da uomo di mare so che dopo la tempesta arriva il sereno. Possiamo ripetere l’impresa del Milan, che ha viaggiato a fari spenti e sappiamo com’è andata».

 

Il parco attaccanti fa girare la testa: Ronaldo deve dimenticare un’annata difficile, Vieri è reduce da un girone di ritorno fenomenale con la maglia della Lazio, Roberto Baggio non ha bisogno di descrizioni, Zamorano è un guerriero pronto all’uso, Recoba ha salvato il Venezia praticamente da solo. Sin dall’inizio, però, si capisce che c’è un Baggio di troppo. Lippi non perde occasione per punzecchiarlo, anche parlando d’altri: «Alla Juventus dissi che non volevo una squadra Baggio-dipendente, lo ripeto oggi per Ronaldo, perché se si busca un raffreddore non dobbiamo metterci le mani nei capelli. Baggio avrà spazio in relazione alla tattica che adotteremo».

 

Il “Divin Codino”parte nelle retrovie, l’idea di Lippi è quella che avrebbe chiunque: Vieri-Ronaldo coppia d’attacco. «Dovrebbero togliermi il patentino se pensassi che non può giocare con Ronaldo. È vero, abbiamo litigato, ma la sera stessa eravamo a cena insieme e un anno dopo voleva tornare già alla Juve. Anche con Deschamps ho litigato, l’ho fatto pure con altri. I giocatori non devono vedere nell’allenatore un amico, ma uno che può portarti a certi obiettivi». Baggio è l’elefante nella stanza che tutti fingono di non vedere, tra i due si scatena da subito una guerra sotterranea.

 

A raccontarlo è direttamente Roby nella sua biografia,

. «Nel ritiro estivo avevo a malapena il diritto di respirare. Dovevo mangiare quello che diceva lui, si infuriava per un dribbling di troppo, se un compagno mi applaudiva lo faceva nero. Giorno dopo giorno una guerra, a partire dal primo incontro, quando mi chiese di fare i nomi di chi la stagione passata aveva remato contro. Io i nomi non li feci, non li ho fatti mai in vita mia. Ogni sua provocazione aveva l’unico risultato di fortificarmi maggiormente. Più si inalberava, più colpiva basso, più stringevo i denti e volavo alto». Quando Baggio racconta la sua prima annata interista, quella dei quattro allenatori, lo fa con una brutalità inattesa: «Ho sempre avuto una convinzione: se non avessimo vinto 5-4 all’Olimpico contro la Roma, saremmo andati in B. Non c’era più una squadra, men che meno uno spogliatoio. La B era più vicina di quanto la gente pensasse».

 

Proprio per questo motivo, Lippi sembra perfetto per costruire una nuova mentalità vincente. La squadra parte bene, Vieri segna una tripletta all’esordio con il Verona, quindi uno 0-0 in casa della Roma e una prova di forza contro il Parma: finisce 5-1, Vieri realizza un gol allucinante, ingannando Thuram con un controllo orientato di tacco spalle alla porta prima di calciare a rientrare con il sinistro con il corpo ancora di tre/quarti rispetto ai pali difesi da Buffon.

 


Non c’è un attimo di esitazione nella giocata di Vieri che, in quel 1999, considerando anche il periodo laziale, è un centravanti in missione per conto di Dio.


 

Il primo momento buio della stagione arriva all’improvviso. Sconfitta a Venezia il 17 ottobre (sesta giornata), ko nel derby sei giorni più tardi, nella stracittadina passata alla storia per l’espulsione di Ronaldo, che aveva portato in vantaggio i suoi dal dischetto, e

firmata forse dal gol più brutto della carriera di Shevchenko e dalla capocciata imperiosa di George Weah all’ultimo respiro. Il pari con la Lazio è un brodino, il 7 novembre Signori e Kennet Andersson fanno a fette la difesa nerazzurra. Due settimane più tardi, dopo la sosta, l’Inter batte 6-0 il Lecce ma inizia il calvario di Ronaldo.

 

Lì per lì non si coglie pienamente l’entità dell’infortunio, rivelata solo dagli esami di rito: lesione parcellare del tendine rotuleo destro, la stagione è pressoché finita. Di Baggio, ovviamente, non c’è ancora traccia. Un gol di Recoba vale i tre punti al 90’ contro la Reggina, ancora l’uruguaiano a segno nel 3-0 con l’Udinese: il tris lo firma il giovane Nello Russo. Il 1999 va in archivio con

che irride la difesa interista: nerazzurri sesti, a -8 dalla Lazio capolista. «Dobbiamo abituarci a ripetere in partita quanto facciamo in allenamento, anche quando non siamo a San Siro: mi riferisco in particolare alla difesa, che a Bari ha sbagliato tutto”, tuona Lippi.

 



Il bilancio migliora solo leggermente al giro di boa, con l’Inter sempre sesta ma a -7 dalla nuova battistrada, la Juventus. Il clima nello spogliatoio è pessimo, Lippi fa volare gli stracci anche nelle amichevoli del giovedì. Cauet (doppietta) e Russo ne decidono una a novembre contro il Saronno (3-2), a fine partita il tecnico chiama i giornalisti per attaccare le riserve: «Questi collaudi vengono programmati per controllare la condizione di quelli che abitualmente non giocano, che così hanno l’opportunità di mettersi in mostra. Mi aspetto che tutti si impegnino per moltiplicarmi i problemi di scelta ma qui succede il contrario: nessuno si dà da fare oltre un certo limite, è un vezzo insopportabile». In prima fila, a rispondere, c’è Baggio: «Sono tranquillo, mi sono impegnato dal primo all’ultimo minuto e detesto le accuse generiche. Lippi faccia i nomi dei lavativi».

 

A Verona, con praticamente tutto l’attacco KO, Lippi non può rinunciare a Baggio, almeno in panchina, pur preferendogli il neo arrivato Mutu dall’inizio. Siamo a fine gennaio, e da settimane il tecnico sta cercando di indurre il numero 10 all’addio. «Anche prima della partita, Lippi mi chiama per dirmi che avrei fatto meglio ad andare via dall’Inter, che non servivo, non c’era proprio spazio. Me lo diceva con tono sicuro, arrogante, sperava di farmi perdere la calma. Io, se voglio, la calma non la perdo mai. Non ho aperto bocca per tutto l’incontro: stavo davanti a lui, con le braccia incrociate, e lo fissavo negli occhi. Lui, non vedendomi reagire, ripartiva con la sua litania. Ha detto la stessa cosa tre volte e io niente, così, per otto minuti». Laursen porta in vantaggio l’Hellas, all’intervallo Lippi butta dentro Baggio. Recoba realizza la rete dell’1-1, l’Inter cambia ritmo. Ancora l’uruguaiano protagonista: cross da sinistra, Baggio trova il primo gol stagionale con una di quelle zampate che portarono Platini a definirlo più un nove e mezzo che un dieci. Taglio sul primo palo da vero centravanti e allungo vincente. Il “Divin Codino” viene portato in trionfo dai compagni a fine partita e davanti ai giornalisti si presenta con un cappellino che è una dichiarazione di guerra: c’è scritto, in spagnolo, «Uccidimi se non ti servo».

 


Lippi festeggia il gol di Baggio grattandosi la fronte, quasi preoccupato. Il numero 10 risponde col cappellino polemico ai microfoni della RAI.


 

Sull’onda di Verona, nemmeno il più masochista del mondo potrebbe tenere fuori Baggio, che parte titolare contro la Roma e

, anche se in sospetta posizione di fuorigioco: una conclusione al volo, spalle alla porta, con la sfera che sembra colpita più con la parte bassa della caviglia che con il piede. Il pallonetto supera Cafu e vale tre punti che proiettano i nerazzurri in piena corsa scudetto, al terzo posto in coabitazione proprio con i giallorossi e con il Milan, a -4 dalla Lazio e -5 dalla Juventus. Seguono due pareggi con Parma e Torino e le vittorie contro Piacenza e Venezia.

 

È decisamente il miglior momento della stagione nerazzurra, con Lippi che da qualche partita sta provando la difesa a tre, sguinzagliando Seedorf in libertà sulla trequarti alle spalle di due punte. L’olandese è l’acquisto di grido di un mercato di gennaio che ha consegnato a Lippi anche Ivan Ramiro Cordoba, i nerazzurri arrivano al derby con il vento in poppa, a sole due lunghezze dal Milan.

 

Non c’è Vieri, infortunatosi contro il Venezia: nella stracittadina è Gigi Di Biagio a prendere per mano i suoi, con un assist geniale per Recoba, che innesca Zamorano a porta vuota per il vantaggio, e

. Finisce 2-1, il Milan è alle spalle anche se la Juventus, nel frattempo, è scappata a +7. Proprio come aveva iniziato a volare, per magia e senza troppi segnali a riguardo, l’Inter si pianta. Pareggia a Roma con la Lazio e in casa con il Bologna, perde a Lecce e Udine, in mezzo infila un 1-1 interno con la Reggina. La sconfitta con la Juventus, il 16 aprile del 2000, fa scendere i nerazzurri al sesto posto, anche se soltanto a -2 dal Milan quarto e a -4 dal Parma terzo. Quattro giorni prima, all’Olimpico, era andata in scena la finale di andata di Coppa Italia, vinta 2-1 dalla Lazio. Un risultato rimediabile in vista del ritorno, funestato però dall’infortunio di Ronaldo nel giorno del suo rientro in campo. Il pallone condotto centralmente,

, come se qualcuno avesse preso la puntina di un giradischi per strapparla via dal solco sul più bello. Il difensore portoghese alza subito le mani a richiamare l’attenzione dei medici dell’Inter, l’urlo del brasiliano gela il sangue del pubblico laziale e interista. Da quel momento in poi, avremmo visto un altro Ronaldo, un giocatore diverso: un killer degli ultimi 20 metri di campo, non più la scheggia impazzita capace di inventare gol dal nulla con quel mix di prepotenza fisica e tecnica visto di rado prima e dopo il suo approdo mistico nel calcio mondiale.

 

Nel marasma generale, Lippi non ha più il polso della squadra. Il gruppo viene descritto come troncato in due: da una parte gli ex juventini, protetti dal tecnico, e dall’altra chi non apprezza i metodi di lavoro dell’allenatore. Il mercato non aiuta, perché Lippi piace al Real Madrid e alla Lazio. «Resto in piedi come Stallone nei film di Rocky – dichiara in conferenza stampa – e ho sempre resistito ai complimenti: faccio la stessa cosa con le critiche. Io rimango concentrato su due obiettivi: la Coppa Italia e la qualificazione in Champions League. Alla squadra chiedo la determinazione che nasce dalla passione e dalla voglia di aiutarsi in campo. Bisogna giocare con il cuore, la testa non basta».

 

L’Inter raccoglie sei punti tra Bari e Perugia, a 180’ dalla fine del campionato può ancora entrare in Champions. A San Siro arriva una Fiorentina in disarmo, ma

, durata mezz’ora e frenata dalle parate di Toldo. Finisce 0-4, Baggio viene sostituito sullo 0-2 e se ne va senza salutare compagni e staff tecnico. Lele Oriali, direttore tecnico del club, lo fulmina: «Ha sbagliato, non è stato un bel gesto e ne riparleremo a tempo debito». Mai, nella sua lunga storia, l’Inter aveva perso in casa con quattro reti di scarto nel campionato a girone unico. Oltre a Baggio c’è anche un altro reietto: è Christian Panucci, fuori dalla lista dei convocati già dalla trasferta di Perugia. «Non conosco il motivo, ho letto l’elenco e ho preso atto che il mio nome non c’era. Rivolgetevi a Lippi, è lui che ha deciso». Gli risponde Oriali: «Esiste un motivo valido se non è stato convocato ma preferiamo tenerlo per noi».

 

A Cagliari non c’è, Baggio invece sì. Segna su rigore, poi Zamorano chiude la pratica. L’Inter è quarta e il campionato è finito, ma ha gli stessi punti del Parma. Prima c’è da giocare la finale di ritorno di Coppa Italia contro una Lazio ancora in piena sbornia tricolore, quindi lo spareggio per accedere ai preliminari di Champions.

 

I biancocelesti si presentano a San Siro in infradito e con delle tinte di dubbio gusto (

, incredibile Ballotta con i pochi capelli dipinti di blu) ma riescono comunque a portare a casa uno 0-0 che significa vittoria del trofeo. L’unica speranza per salvare la stagione è lo spareggio del Bentegodi, e il Parma ci arriva meglio dell’Inter. Ma il calcio è materia di difficile analisi, in 90 minuti può succedere tutto. Lippi forza il rientro di Vieri dal primo minuto, Bobo alza bandiera bianca poco dopo la mezz’ora. Non resta che Baggio, partito dall’inizio in coppia con il centravanti. È sua la punizione dal lato corto dell’area che porta avanti l’Inter, un prodigio che coglie di sorpresa un non incolpevole Buffon. Il Parma pareggia a metà ripresa con un bel colpo di testa di Stanic, che poco dopo grazia Peruzzi sbagliando un rigore in movimento. La lettera d’addio che Roberto Baggio lascia in dono ai tifosi dell’Inter è il sinistro mortifero scoccato a 7’ dalla fine. Non c’è nulla di forzato nella conclusione del numero 10 nerazzurro, che aspetta la sponda aerea di Zamorano con l’indifferenza di un impiegato del catasto in attesa del tram. Potrebbe segnare lo stesso gol oggi, a distanza di 19 anni, in una partita tra vecchie glorie, con un gesto tecnico che soltanto la sua classe sa rendere semplice. Corre sotto il settore interista insieme a Zamorano, sa già di avere la valigia pronta, anche se ancora non ha la minima idea di dove andare a chiudere la carriera. Si gode un momento di gioia pura che vale tutto il letame masticato amaramente durante l’anno. È Zamorano a fissare il 3-1, l’Inter è ai preliminari di Champions, la panchina di Marcello Lippi è salva.

 


«Questa partita è stata una favola, sognavo da sempre, per tutti, per i tifosi e per i compagni, una chiusura così. Cercavo il modo di lasciare il segno e ci sono riuscito con due gol che mi hanno dato una felicità grandissima. E poi ho dimostrato che posso stare 90 minuti in campo», afferma Baggio il giorno successivo al trionfo. Del resto, in tutta la stagione, i 90 minuti non li aveva mai giocati, partendo titolare soltanto in cinque occasioni: «Lippi non mi ha detto niente, ci siamo solo salutati. Non so se questa partita gli abbia salvato la panchina, non era questo il mio proposito, quello che fa Lippi non mi riguarda. Io avevo chiesto una cosa sola: la chiarezza. Si vede che poi lui ha cambiato i suoi programmi». Dall’altra parte, ancora con il coltello dalla parte del manico nonostante una stagione discutibile, Lippi alza la voce: «A Verona ha distribuito fiori a tutti e ha pugnalato solo me. In un certo periodo della stagione gli avevo fatto delle promesse, le cose sono andate in un altro modo ma lui ha fatto finta di non aver capito. Crede di essere stato una vittima soltanto mia ma erano d’accordo anche Moratti e Oriali».

 



La seconda Inter di Lippi nasce in questa conferenza stampa di fine maggio, in cui parla da re pur non avendo neanche lontanamente sfiorato la corona, pur con l’alibi dei tanti infortuni. «Adesso prevedo l’innesto di cinque o sei giovani, possibilmente italiani, gente forte e che non veda l’ora di giocare, anche solo 10 minuti. Avevamo una squadra nuova, con tanti arrivi scaglionati nel tempo e posso dirmi soddisfatto del risultato finale, la base per costruire una grande squadra c’è. Se non abbiamo raggiunto certi risultati è anche per colpa dei gravi infortuni di Ronaldo e Vieri. Recoba si lamenta? Da un mese ha assunto un brutto atteggiamento nei miei confronti e non lo capisco. Non ha mai giocato tanto come quest’anno in una grande squadra, che cosa pretende?». Recoba ribatte aspramente e il suo futuro sembra lontano dall’Inter: «Lippi è stato l’allenatore che mi ha fatto giocare di più nell’Inter, è vero, ma non credo lo abbia fatto perché si fidava ciecamente di me: è successo perché mancavano altri giocatori. Se non fosse così, avrei giocato da titolare le ultime partite. A Verona sono entrato solo dopo il pareggio del Parma, e con un altro attaccante a disposizione forse non sarei neanche entrato io. Lippi ha fatto le sue scelte e non credo che le sue idee possano cambiare fra pochi mesi: per quello che ha detto, non mi sembra ci siano molte possibilità che io possa restare».

 

L’estate del calcio italiano è lunghissima, il campionato inizia a ottobre causa Olimpiadi. I giovani italiani tanto auspicati da Lippi arrivano per vie traverse: 14 miliardi di lire per strappare Cirillo alla Reggina, da cui rientra anche Pirlo per fine prestito, insieme a Brocchi dal Verona e al ritorno di Matteo Ferrari dopo la parentesi al Bari. Arrivano anche Michele Serena, riscattato per 12 miliardi dal Parma, Vratislav Gresko (14 miliardi al Bayer Leverkusen), i due nuovi fari del centrocampo Vampeta e Farinos e la coppia d’attacco Robbie Keane-Hakan Sukur. A posteriori, un disastro su tutta la linea.

 

L’Inter deve scendere in campo il 9 agosto per l’andata di un preliminare di Champions League che sembrerebbe una passeggiata, ma gli svedesi dell’Helsingborg sorprendono i nerazzurri:

. Lippi accampa alibi, sembra non vedere il pericolo in vista del ritorno: «Siamo in crescita, con il miglioramento della condizione fisica e dell’intesa possiamo ribaltare la situazione tra due settimane, ci basterà giocare come nel primo tempo, quando ho visto una buona Inter. Gli svedesi erano più rodati di noi, con 15 partite di campionato e 4 di preliminari di Champions nelle gambe». Il tecnico non ha dubbi, a San Siro sarà un’altra musica. E con un Recoba in più, perché alla fine l’uruguaiano è rimasto: «Prima dello stiramento era in ottime condizioni, con il suo rientro rivedrò qualcosa in attacco». L’unico preoccupato è Moratti: «Non avevamo né le gambe, né la testa per una partita del genere». Lippi vara il doppio centravanti per il ritorno, Sukur e Zamorano in tandem, Pirlo dislocato a sinistra con Cauet a faticare sull’out opposto. La coppia d’attacco si pesta i piedi, non funziona. Dentro Recoba per Pirlo e Keane per Zamorano, l’irlandese ex Coventry colpisce un palo, i minuti scorrono. All’ultimo respiro, un goffo mani in area di Nilsson nobilita un brutto stop di Keane.

. Niente supplementari, l’Inter getta nel cestino lo sforzo dello spareggio del Bentegodi ed esce tra i fischi di San Siro.

 

Lippi non fa una piega, dimenticando la sicurezza della vigilia, quando aveva dichiarato di non aver nemmeno pensato agli eventuali cinque rigoristi da scegliere in caso di prolungata parità: «Questo disastro provoca grande amarezza, confidavamo tutti i ribaltare il risultato dell’andata. Bisogna incassare e ripartire, i ragazzi hanno dato il massimo». L’Inter perde anche la Supercoppa Italiana contro la Lazio, quando si gioca la prima giornata di campionato ha dalla sua soltanto i passaggi del turno in Coppa Italia (con il Lecce) e in Coppa UEFA (sette gol in due gare al Ruch Chorzow). Si gioca contro una Reggina smembrata rispetto alla stagione precedente: via le stelline Pirlo e Baronio, il già citato Cirillo, finanche Kallon. Recoba apre le marcature, Possanzini e Marazzina prendono l’Inter e la ribaltano come un tavolino. Lippi perde la testa e vive le ultime ore da tecnico nerazzurro.

 


«Se fossi il presidente, manderei subito via l’allenatore. Prenderei i giocatori, li attaccherei tutti al muro e li prenderei a calci nel culo, perché non esiste giocare in questa maniera»


 

La fiera delle incomprensioni tra Marcello Lippi e l’Inter finisce così, con uno sfogo sconnesso alla prima giornata di campionato. Sarebbe tornato grande alla Juventus, vincendo anche il celebre Scudetto del 5 maggio 2002, e avrebbe rivendicato tutta la sua appartenenza bianconera a distanza di tempo da quella vittoria: «All’Inter non ero ben visto perché difendevo la mia juventinità, questo per loro non andava bene. Ad Appiano non feci molto bene, nessuno accettava il mio modo di giocare.

».

 

Nello spogliatoio juventino in festa, sempre quel 5 maggio 2002, uno dei leader bianconeri prendeva la parola ai microfoni della Rai: «C’è poco da parlare, stiamo godendo. Questa è l’amarezza di due anni fa, a Perugia, e c’è qualcuno che ci guarda che c’era a Perugia»,

, in un chiaro riferimento a Marco Materazzi, prima di essere inghiottito dallo spogliatoio e dalle mani di Lilian Thuram ed Enzo Maresca.

 

Ora sono giorni caldi, giorni in cui si urla al tradimento, in cui forse hanno ragione tutti. I professionisti, molti dei quali fanno solo i professionisti, e vanno dove ritengono sia più opportuno, perché non è sempre il cuore, purtroppo o per fortuna, a governare le loro decisioni. E hanno ragione anche i tifosi, che continuano a metterci il cuore e a sanguinare nonostante tutto, permettendosi il lusso di ignorare quelle ragioni perché se si ama una squadra non lo si fa quasi mai razionalmente.

 

Chissà, magari Conte avrà parlato in segreto con Lippi, cercando di farsi dire cosa non funzionò vent’anni fa per non commettere gli stessi errori, magari anche per capire come parlare ai tifosi interisti, provando a condividere i loro valori e senza voler imporre i suoi sopra ogni cosa.

 

 

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