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Calcio Francesco Lisanti 4 giugno 2019 4'

Voler bene ad Antonio Conte, nonostante tutto

Il punto di vista di un tifoso, sul nuovo allenatore interista.

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Ho trascorso l’adolescenza a 70 chilometri da Bari, mentre la squadra della mia città, Matera, navigava nel mare del dilettantismo, per questo posso dire di aver seguito con partecipazione le vicende della Bari. Ero al San Nicola, ad esempio, dodici anni fa, quando il Lecce di Papadopulo, Abbruscato e Tiribocchi ci travolse con quattro gol, costringendo alle dimissioni Beppe Materazzi, uno che del Bari era stato tifoso, calciatore negli anni Settanta e poi allenatore negli anni di Protti e Tovalieri, in cui aveva lanciato i giovani baresi Amoruso e Bigica: una vera bandiera.

 

«Dissi a Vincenzo Matarrese che avevo due soluzioni: un allenatore classico o qualcosa di sconvolgente… All’inizio non sembrava attratto dalla seconda soluzione, poi si convinse», ricordava qualche anno fa l’allora direttore sportivo Perinetti, tornando con la mente a quel dicembre 2007. Sei giorni più tardi, Antonio Conte si presentò ai giornalisti sfoggiando un senso della realtà che allora suonò provocatorio: «Da quando ho iniziato a fare il calciatore ho smesso di fare il tifoso. Resto un appassionato solo della squadra che mi ingaggia».

 

Va ricordato che Conte non aveva neanche credenziali a suo sostegno. Era reduce dalla sfortunata retrocessione con l’Arezzo, alla prima esperienza da allenatore. Era osteggiato, anzi, da quel velo di diffidenza che avrebbe accompagnato per anni ogni coetaneo di Guardiola lanciato prematuramente tra i professionisti. Ed era leccese, soprattutto, di nascita e di militanza calcistica.

 

Di quei giorni ricordo la sensazione di tradimento diffusa nell’ambiente, il fantasma della retrocessione, il risentimento verso una proprietà ormai lontana dai valori e dalle ambizioni dei tifosi. E ricordo la prima volta che ho voluto bene ad Antonio Conte, che ne ho ammirato la sfacciata presunzione e la profonda concretezza. Fu quando disse: «Le persone perbene possono stare in qualsiasi città. Io penso di non aver mai fatto del male a nessuno, quindi sia a Lecce che a Bari camminerò sempre a testa alta».

 

Tra dicembre e maggio trascorse un intero girone e nel frattempo il Bari si salvò giocando un calcio brillante e, per chiudere la stagione in bellezza, ebbe anche l’opportunità di rovinare la festa promozione del Lecce, programmata per il derby di ritorno al Via del Mare.

 

C’è un passaggio delizioso dell’autobiografia di Conte dedicato alla vigilia di quella partita: «Matarrese in settimana mi chiama per dirmi: “Antonio, lo so che tu sei di Lecce ma a me non interessa. Voglio vincere questa partita”. Gli rispondo meravigliato e indispettito: Presidente, queste parole sono un insulto alla mia intelligenza. Io faccio l’allenatore e gioco tutte le partite per vincerle».

 

Con la stessa sicurezza nei propri mezzi che serve per citare Michael Corleone davanti al proprio datore di lavoro, Conte va a vincere 2-1 e manda il Lecce ai play-off.

 

 

Quindi, ci sono già passato. Oggi, da tifoso dell’Inter, posso dire di non essere sorpreso della scelta di Antonio Conte. Ci ho pensato in questi giorni di abbonamenti stracciati e di petizioni su Change.org, di scaramucce con Materazzi figlio che riaffioravano dal maggio 2002, di comunicati della Curva che sancivano l’incompatibilità «per stili e valori», e mettevano al centro «l’aspetto morale» con la stessa credibilità del partito comunista sovietico. Niente di veramente nuovo.

 

Si tratta per lo più di piccoli pregiudizi che servono soprattutto a chi li alimenta, forte di una posizione di potere che queste battaglie in difesa dell’identità contribuiscono a giustificare. Ma che forse servono anche allo stesso Conte, che dei pregiudizi e delle illogiche convenzioni si è sempre nutrito per trovare nuove motivazioni.

 

Come quando, da allenatore della Juventus, si spinse a tuonare contro «i giustizialisti» e «i metodi della Procura Federale» nella conferenza passata alla storia per le difficoltà nel pronunciare le dentali e le successive parodie. Oppure quando rispose «sì padrone» alle critiche espresse da Fabio Capello, passando con un rullo compressore sopra la più grande battaglia politica condotta dalla società per cui lavorava: «Della Juve di Capello ricordo i due scudetti revocati, non tanto il gioco».

 

Il fatto è che neanche quando è arrivato ad allenare i rivali storici e a dominare il campionato con la squadra più forte, ho smesso di volere bene ad Antonio Conte. Qualche anno fa ho persino risposto all’appello di indossare l’azzurro, recuperando una maglietta comprata a 13 anni per Euro 2008 che non riusciva più a nascondere le mie forme, né il dolore per il rigore alle stelle di Zaza.

 

E con questi sentimenti ho accolto l’annuncio del triennale firmato con l’Inter, e il monologo del «Perché proprio io?» di Conte. Quel ghigno di soddisfazione di Steven Zhang che era anche il mio, il rumore sordo della stretta di mano tra i due, quel «No crazy no more» che è suonato da subito come segno di un progetto ambizioso e uno slogan impeccabile. Alle orecchie di qualcuno, magari, anche un attacco all’identità della squadra.

 

Eppure l’Inter per vincere ha sempre avuto bisogno di uomini di rottura, di voci ammalianti, di comunicatori sagaci e comandanti intrepidi. E più di tutto, di una società vicina alla guida tecnica. Sabato sera, Conte era a Madrid in compagnia di Zhang e Marotta per assistere alla finale di Champions. All’uscita dall’hotel, raccontano i giornali, si è imbattuto in un gruppo di tifosi della Juventus che gli ha urlato «mercenario!».

 

Anche loro si sentono traditi, e questo è il grande paradosso della sua carriera: sottrarsi al compromesso sempre per rendere infelici un po’ tutti.

 

Nell’agosto del 2008 Antonio Conte si trovava su una spiaggia salentina, secondo la sua autobiografia, oppure in un centro sportivo locale per un torneo di calcetto, secondo le cronache dell’epoca. In ogni caso nella marina di Lecce, quando a un certo punto è stato aggredito con insulti, pugni e spranghe di fronte alla moglie e alla figlia da quattro persone, che non riuscivano a perdonargli il passaggio al Bari, il derby vinto e l’esultanza esagerata. Per Conte il calcio vissuto in questo modo è un insulto alla sua intelligenza.

 

Tags : antonio contebariinter

Francesco Lisanti è nato a Matera nel 1994, a Torino si è laureato ingegnere, a Milano ha iniziato a lavorare. Deve tutto al blog di Wannabe Radio. Al momento si divide tra la passione per il calcio e la pianificazione della produzione.

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