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Dario Saltari

L’impensabile ascesa di Emerson Palmieri

Sconosciuto, inutile e miracolato fino allo scorso anno, il brasiliano è diventato uno dei migliori…

Nella propria breve bio su Twitter Emerson Pamieri ha scritto: “Dio è fedele”. È una citazione tratta dal decimo capitolo della lettera ai Corinzi in cui si parla della forza che Dio ci dà per resistere alle tentazioni: «Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla».

 

Due anni fa, di questi tempi, Emerson era la riserva di Lazaar al Palermo, che alla fine dell’estate del 2015 era stato addirittura definito incedibile dal club di Zamparini insieme a Vazquez. Oggi il terzino marocchino è ai margini del Newcastle di Benitez, in Serie B inglese. In questa stagione, in Championship, ha giocato in totale 36 minuti, pur senza subire infortuni rilevanti. Emerson nel frattempo è diventato, nei numeri, il miglior terzino sinistro della Serie A insieme ad Alex Sandro.

 

Questione di dettagli

La carriera dei calciatori è costellata da una serie infinita di strettoie che possono decretare da un momento all’altro l’ascesa o la rovina del proprio percorso. Tendiamo a pensare che il talento sia auto-evidente, che si affermi da solo («Se non riesce nemmeno a giocare lì un motivo ci sarà, no?»), ma in realtà ci sono un’infinità di variabili fondamentali su cui il calciatore non ha modo di intervenire. Come ha recentemente dichiarato Maurizio Sarri a Sky: «La differenza tra un giocatore di Serie A e uno di Serie C è sottile».

 

Emerson è cresciuto calcisticamente nel Santos, la squadra del quartiere di San Paolo dov’è nato. Del suo passato, però, non si conosce praticamente nulla. Il terzino della Roma sembra essere un tipo molto riservato: nelle interviste raramente si allontana da quella retorica stantia e sempre uguale a se stessa con cui i giocatori creano una distanza di sicurezza con la stampa. Forse è per questo che un mangia calciatori come Zamparini lo descrive allo stesso tempo come “un ragazzo d’oro” e un giocatore senza personalità: «Emerson a me non è mai piaciuto».

 

Quando arriva in prima squadra al Santos, Neymar, già una stella, lo bullizza tagliandogli i capelli a caso con un rasoio. In testa gli lascia un paio di ciuffi da Krusty il Clown, sulla nuca una croce spelata da rito d’iniziazione. Lui, con il fatalismo che sembra permeare tutta la sua carriera: «Sapevo che sarebbe successo, ricresceranno».

 

L’unica persona che emerge dal suo passato è suo fratello, Giovanni, con cui sembra avere un rapporto speciale, persino nell’ambito dei rapporti fraterni. Al momento di scegliere il numero di maglia al Santos, Emerson prende il 23, che è il giorno in cui è nato Giovanni: «Mi specchio molto in lui e in mio padre. Ma con mio fratello è diverso, è da quando sono piccolo che è con me. Ho pensato che sarebbe stato un buon modo per omaggiarlo». Quando ci sono degli intoppi nelle trattative con il club brasiliano per il rinnovo del contratto, ammette di aver pianto con lui.

 

Quando arriva alla Roma, all’apice (finora) della sua carriera, non si scorda di lui su una domanda sulle persone più influenti: «Il mio papà: ha giocato a calcio ma non da professionista. Insieme a mio fratello, anche lui calciatore, mi ha sempre seguito, sin dai miei primi passi su un campo da calcio. Sono stati entrambi fondamentali per me».

 

Anche Giovanni, di cinque anni più vecchio, fa il terzino sinistro come Emerson. Ma al contrario del fratello rimane impantanato nelle paludi del calcio brasiliano. Forse è meno talentuoso, sicuramente è meno fortunato. Attualmente è al Flamengo come un ospite indesiderato: quest’anno non è sceso in campo nemmeno per un minuto.

 

Boa sorte

Emerson, comunque, non è il doppelgänger del fratello. La sua, al Santos, non è di certo un’esplosione perché lo stesso club brasiliano non sembra credere in lui più di tanto. L’unica stagione in cui riesce davvero a rientrare nelle rotazioni della prima squadra è la 2012-13, in quell’intermezzo cioè tra il declino di Léo, terzino sinistro storico del Santos che si ritirerà nell’aprile del 2014, e l’acquisto di Eugenio Mena, dall’Universidad de Chile nell’estate del 2013. Stiamo parlando di poco più di 800 minuti in tutto: un riempitivo necessario tra due porti sicuri.

 

 

Il Palermo lo scova per puro caso. Franco Ceravolo, capo scout del Guangzhou Evergrande e consigliere di Zamparini, lo scopre ai margini dell’affare che porta Renè Junior in Cina, e probabilmente riesce a portarlo in Italia solo perché sorprendentemente il Santos, che di solito monetizzerebbe anche sui raccattapalle, decide di cederlo in prestito gratuito. D’altra parte, nemmeno lui sembra particolarmente impressionato. Nella conferenza stampa di presentazione, il complimento più grande è: «Emerson è un calciatore di prospettiva, può fare bene le due fasi».

 

Il terzino brasiliano si salva da una carriera anonima in Brasile per il semplice fatto che sia il suo agente che il Santos sono disposti di fatto a regalarlo. Walter Sabatini, che da direttore sportivo della Roma l’aveva difeso enfaticamente dagli attacchi della tifoseria giallorossa («È un grande giocatore e la storia lo dirà»), recentemente ha ammesso di averlo acquistato praticamente alla cieca: «L’avevo visto giocare mezza volta nel Palermo, mi è piaciuto nel modo di muoversi e, avendolo offerto il suo agente a condizioni molto buone, ho deciso di prenderlo». Arriverà alla Roma di nuovo in prestito gratuito, con un riscatto obbligatorio quasi simbolico di due milioni di euro al raggiungimento delle dodici partite giocate in stagione.

 

C’è un determinismo quasi provvidenziale nel percorso del terzino brasiliano. Dopo una stagione di riserva al Palermo e una da comparsa alla Roma, Emerson si ritrova le porte della titolarità spalancate senza che nessuno ci abbia mai puntato davvero, a seguito della rottura del legamento crociato di Mario Rui. Ma anche del cattivo inizio di stagione di Juan Jesus e dei continui infortuni di Vermaelen, che hanno privato la Roma di ulteriori soluzioni. Prima della stagione in corso, in tutta la sua carriera aveva giocato da titolare una decina scarsa di partite, per di più tutte in Brasile.

 

La carriera di Emerson è una beffa alla retorica calvinista egemone nel calcio contemporaneo, dove il successo professionale è il frutto del sacrificio giornaliero e il segno dell’elezione divina. Per dirla con Sabatini: «Emerson è l’esempio perfetto per spiegare come a volte la fortuna cambi radicalmente le sorti di un calciatore».

 

Ridefinire la brasilianità

Quello che arriva nella Roma è quindi davvero un oggetto misterioso, come si dice. Roma, una città basata sullo scherno, ovviamente non lo prende sul serio, tanto più che Emerson accoppia al nome di uno dei più grandi centrocampisti ad indossare la maglia giallorossa a quello che potrebbe essere il nome di famiglia del macellaio sotto casa. Un’eredità italiana molto comune in Brasile, a cui però lui non sembra dare troppa importanza.

 

Anche Spalletti ci punta con riluttanza, soprattutto dopo il disastro nel doppio incontro con il Porto nei preliminari di Champions League, che lo vede procurare un rigore chiaro non visto dall’arbitro nella partita d’andata e farsi espellere per un intervento molto pericoloso nella partita di ritorno. All’inizio il tecnico toscano gli preferisce addirittura Bruno Peres a piede invertito, mettendo in ballo una strana teoria per cui i destrorsi a sinistra giochino meglio che i mancini a destra. Più che puntarci sarebbe meglio dire che Spalletti è costretto a scoprirlo, in mancanza di alternative teoricamente più affidabili.

 

Posso solo immaginare la sorpresa del tecnico toscano nel ritrovarsi di fronte non solo un giocatore tecnicamente e fisicamente più che pronto per la Serie A, ma soprattutto ad un’idea di calcio distante anni luce da quella creatività senza controllo e da quell’incoscienza tattica che di solito associamo allo stereotipo del terzino brasiliano. Emerson ha un gioco minimale, ai limiti della trasparenza, attento fino a risultare pedante.

 

Nel terzino brasiliano c’è uno spirito giapponese nel perfezionamento del gesto tecnico o del movimento attraverso la sua ripetizione sempre uguale che sembra migliorarlo ogni partita che passa senza che il suo gioco cambi di una virgola. Oggi Emerson sa correre palla al piede dritto per dritto sulla sua fascia come un hovercraft mentre taglia brutalmente le onde che si mettono diagonalmente sulla sua traiettoria. Controllare cambi di gioco complessi facendo scendere il pallone accanto dal corpo in maniera perfettamente perpendicolare al terreno. E mettere dal fondo traiettorie arcuate e tese dentro l’area con la costanza di un lancia-palle da tennis (gliene riescono 1.4 ogni novanta minuti).

 

In questo senso, Emerson si innesta in una linea di discendenza calcistica totalmente diversa rispetto a quella del suo modello di riferimento, cioè Marcelo, che in questo momento è l’archetipo del terzino brasiliano “tradizionale”: geniale, imprevedibile e sbadato. Emerson ha un’interpretazione del ruolo fisicamente più selvaggia, se vogliamo, ma anche tatticamente più meccanica e quindi meno creativa ed indipendente rispetto a quella del terzino del Real Madrid. Forse nel passaggio tra i due ci possiamo anche intravedere una certa evoluzione darwinista del calcio brasiliano verso canoni tecnici più idonei all’evoluzione contemporanea del gioco.

 

Se è vero che raramente si vede Emerson sbagliare una scelta, è vero allo stesso modo che altrettanto raramente prende decisioni autonome. È raro vederlo venire dentro al campo per provare a creare gioco sulla trequarti, che è una caratteristica che tipicamente associamo ai terzini brasiliani. Lo stesso gol al Villarreal, che l’ha visto tirare dalla distanza da posizione accentrata al limite dell’area, nasce in realtà dall’applicazione diligente di un’indicazione tattica, e cioè dalla riaggressione immediata di un pallone appena perso.

 

Pur avendo una tecnica individuale raffinatissima, Emerson è un giocatore con una spiccata tensione verticale, che non gioca da regista occulto, come l’idea “tradizionale” di terzino brasiliano prevede (pensiamo proprio a Marcelo, ma anche a Maicon e Dani Alves, tra gli altri). L’altissimo numero di passaggi chiave realizzati (1.61 ogni novanta minuti; è quarto tra i difensori della Serie A con almeno dieci partite giocate, dietro ad Alex Sandro, Edenilson e, non casualmente, Dani Alves) deriva più dalla sua tecnica quasi impeccabile nel fondamentale del cross che da una reale capacità creativa.

 

Non è chiaro ancora se questa mancanza di istinto creativo sia un margine di miglioramento o un limite, insito in un gioco così attento e quindi inevitabilmente prevedibile. Per paradosso, Emerson ha dimostrato di saper creare gioco nelle rare volte in cui è stato schierato a destra, quando è stato cioè costretto ad essere imprevedibile, uscendo dai suoi binari abituali per calciare col suo piede naturale.

 

Non c’è una particolare interpretazione originale nemmeno nel dribbling, un altro fondamentale in cui statisticamente eccelle (ne realizza 1.91 ogni novanta minuti, meno solo di Ansaldi e Bruno Peres). Emerson tende semplicemente a sopraffare fisicamente gli avversari con l’accelerazione e la corsa. Le finte, i doppi passi e altri bluff barocchi sono quasi del tutto assenti, o esibiti come una tradizione ormai inattuale quando l’avversario è già stato superato.

 

Lo stesso tiro dalla distanza, l’ennesimo fondamentale che all’improvviso sembra poter maneggiare con l’esperienza dello specialista, è una risorsa che forse considera eccentrica e inefficiente, e a cui fa affidamento solo come ultima spiaggia, se non c’è altra possibilità.

 

Affermarsi come idea

In questo senso, non c’è nulla di sorprendente nell’affermazione di Emerson in una squadra di Spalletti. Il suo è un gioco estremamente diligente e quasi privo di rischi, che accetta senza patemi la totale privazione della libertà creativa in cambio di indicazioni chiare e prestabilite (per lo stesso motivo, forse, si possono spiegare di converso le speculari difficoltà di Bruno Peres, un giocatore dalle potenzialità tecniche e atletiche altrettanto eccezionali, ma indipendente e creativo fino al narcisismo).

 

Ciò che è veramente sorprendente, più che altro, è com’è possibile che un giocatore dalle potenzialità fisiche e tecniche così alte sia stato ignorato dal calcio professionistico per così tanto tempo. Forse dipende proprio dalla sua riservatezza, che può diventare un ostacolo insormontabile nel calcio mediatizzato di oggi (Sabatini ha dichiarato che «Emerson, uno serio e volitivo, veniva tacciato di non avere personalità»); o forse proprio perché il suo gioco asciutto e lineare tende in qualche modo ad abbassarne le quotazioni, a farlo apparire un giocatore più normale di quanto in realtà non sia.

 

Un enigma che rovescia del tutto la prospettiva del talento che si afferma da solo e che per questo viene di solito rifiutato con interpretazioni scaramantiche o esoteriche. Dopo Roma-Fiorentina, in cui Emerson viene votato migliore in campo per la prima volta, un cronista gli chiede se sapeva di essere così forte, come se a Trigoria fosse stato toccato da un tocco magico che gli avesse donato il talento.

 

Lo stesso Spalletti, che potrebbe appuntare Emerson tra i suoi principali successi di questa stagione, in realtà ne parla molto malvolentieri, un po’ per farla pesare al giornalismo romano, che aveva condannato il giocatore ancora prima di vederlo in campo, ma soprattutto per un’idea molto cristiana dell’umiltà come assenza di ostentazione. Dopo il derby d’andata dichiara, in maniera piuttosto cupa: «Mi raccomando: non scrivete di Emerson, lasciatelo fare. Perché ora se no, siccome è giovane, gli crei l’esaltazione che poi sbaglia la partita dopo. Non consideratelo: ci parlo io con lui».

 

 

C’è una concezione piuttosto oscurantista e scaramantica della fortuna alla base di tutto questo, come se il caso punisse volontariamente la vanagloria. Una concezione a sua volta cristiana, che vede la vanità come una tentazione terrena punita da Dio, a cui lo stesso Emerson aderisce alla perfezione. D’altra parte, visto il modo in cui è arrivato alla ribalta è anche comprensibile.

 

Nel decimo capitolo della lettera ai Corinzi, poco prima della citazione che il terzino brasiliano ha utilizzato per definire se stesso sui propri profili social, si legge: «Non mettiamo alla prova il Signore, come fecero alcuni di essi, e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi».

 

«Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere».

 

 

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Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.