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Foto di Peter Fox/Getty Images
Formula 1 Federico Principi 4 dicembre 2020 9'

Il posto di Lewis Hamilton nella storia

Il pilota inglese ha raggiunto il record dei sette titoli mondiali di Schumacher.

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Durante il lockdown dello scorzo marzo gli account ufficiali della Formula 1 ci hanno cullati con le riproposizioni integrali delle gare più belle e simboliche degli ultimi 35 anni: è stata l’occasione per riscoprire alcune gemme come il folle GP di Monaco 1996, gli spettacolari video on-board di Adelaide 1986, e per approfondire più accuratamente le dinamiche oscure di alcune gare particolarmente tirate e strategiche, come quella famosa per la ruota sparita di Irvine al Nürburgring 1999, oppure il duello a distanza Schumacher-Hill a Suzuka 1994. Una delle clip più gettonate è stata quella del Gran Premio di Silverstone del 2008: non fu il primo weekend in cui Lewis Hamilton ottenne un convincente successo sul bagnato in Formula 1 (ci era già riuscito al Fuji l’anno prima), ma forse fu quello della sua consacrazione definitiva. Mentre tutti gli altri piloti erano vittime di testacoda o errori strategici, Hamilton era già il padrone assoluto della pioggia, cosa che poi è rimasto negli ultimi 12 anni.

 

Hamilton non avrebbe potuto raggiungere il record dei sette titoli mondiali di Michael Schumacher, in un modo migliore di questo. Al recente Gran Premio di Turchia è riuscito a fuggire in gara dopo aver faticato tutto il weekend sull’asfalto scivolosissimo, e dopo aver affrontato le prove libere in modo palesemente svogliato; senza un assetto vincente ha ritrovato man mano il feeling naturale sul bagnato nel corso della gara. Hamilton aveva bisogno di una prestazione così convincente per certificare ulteriormente il proprio talento: una vittoria in solitaria nell’unico Gran Premio in cui la sua vettura non si è dimostrata la più veloce durante tutto il 2020.

 

Da sempre estremamente autocelebrativo, Lewis Hamilton non ha tardato un secondo a sottolineare il valore di questa vittoria e le circostanze da cui è scaturita: «Voglio più Gran Premi così, in condizioni difficili. Più ho opportunità come questa, più sono in grado di mostrare ciò che posso fare. Penso che si sia visto, penso di avere il rispetto dei miei colleghi perché sanno quanto la gara sia stata difficile, soprattutto per via di elementi non direttamente legati alla macchina».

 

Sulla pioggia quest’anno aveva già dominato nelle qualifiche del GP di Stiria. Hamilton (a sinistra) dà più di un secondo di distacco anche a uno specialista come Max Verstappen.

 

Il migliore di sempre?

E questo è solo l’ultimo episodio nel quale Hamilton prova il più possibile a manifestare esplicitamente la propria grandezza, vivendo da anni una sorta di complesso nei confronti della propria celebrazione mediatica. Spesso, anzi, diventa una motivazione per raggiungere ulteriori obiettivi, per migliorare sé stesso completandosi, o per esporsi in prima linea nelle battaglie civili, tipo quelle sulle violenza della polizia americana nei confronti dei neri lo scorso anno. In altre occasioni, invece, lo ha fatto scadere nel trash talking, o nella ricerca di alibi per le sconfitte – su tutte quella interna contro Nico Rosberg nel Mondiale 2016.

 

Hamilton vive questa mancata riconoscenza del suo talento (che forse è una sua presunzione più che altro) come un’ingiustizia, forte anche dell’orgoglio di essere l’unico pilota nero di successo, uno dei pochi e degli ultimi casi di riscatto sociale nel motorsport, mondo non inclusivo verso i meno abbienti. Per certi versi vive le sue dinamiche in Formula 1 in modo ambivalente, in relazione a come viene percepita la sua figura dal mondo esterno: da un lato, oltre al talento, gli è riconosciuto il grande pregio di aver odorato con tempismo l’occasione giusta della Mercedes, abbandonando con coraggio l’universo McLaren; dall’altro si porta addosso il peso di aver guidato per diverse annate una vettura fin troppo superiore alle altre, che forse ha finito per svalutarne le imprese in pista.

 

Così, la volontà di affermare sé stesso è diventata totale e trasversale per Hamilton. Forse nessun altro pilota nella storia della Formula 1 ha voluto unire il successo sportivo alla sua icona, simbolo del riscatto economico e razziale. Per essere credibile però ha avuto bisogno che questi due aspetti si alimentassero reciprocamente: non ha cercato sfide impossibili, cioè, piuttosto si è sempre messo nella condizione migliore per il successo immediato, proprio per elevare il più in alto possibile la forza della sua immagine. Alla fine, nonostante abbia superato tutti i record di Michael Schumacher, buona parte dell’opinione pubblica si chiede ancora se sia davvero lui il pilota più forte tra quelli in attività, prima ancora che il migliore di sempre.

 

L’automobilismo, forse più che gli altri sport, genera disorientamento sulla percezione del talento dei piloti, perché sono diverse le condizioni di partenza e gli strumenti a disposizione di ognuno per arrivare al successo. Bernie Ecclestone ha detto che in questo periodo Hamilton «è come se giocasse a poker sempre con quattro assi in mano». Il campione di biliardo Ronnie O’Sullivan ha rilanciato con un altro paragone: «Non mi sentirei fiero se giocassi su un tavolo con buche più grandi di quelle dei miei avversari».

 

La posizione di questa parte dell’opinione pubblica, caratterizzata dalla serpeggiante sensazione che Hamilton non sia inequivocabilmente il miglior pilota della sua epoca (né fermandosi a questi anni, considerando la crescita di Verstappen, né tornando indietro alla sua prima metà di carriera, dove invece il dubbio è con il rendimento di Alonso in Ferrari) si è radicalizzata ancora di più a seguito della conquista di tutti questi record storici. In parte è vero, va detto, che anche in seguito ai quattro titoli mondiali consecutivi vinti da Sebastian Vettel dovremmo ripensare più in generale l’attendibilità storica di questo ultimo decennio della Formula 1, e la possibilità di fare paragoni con il passato. Non solo, banalmente, l’aumento progressivo delle gare in calendario falsa la comparazione statistica assoluta tra diverse epoche, ma nella F1 di oggi le vetture sono meno difficili da portare al limite e riducono al minimo le possibilità di successo di chi non guida una delle migliori. Oltretutto, l’abolizione dei test tende a cristallizzare, molto di più che in passato, le gerarchie di performance delle vetture nel corso dell’anno e di più stagioni consecutive.

 

È da questi presupposti che nasce la parziale inconciliabilità del duello storico tra Lewis Hamilton e Michael Schumacher: il tedesco fu figlio di un’epoca che gli consentì di vincere due Mondiali con la Benetton e di lottare fino all’ultima gara per due volte (nel 1997 e nel 1998) con una Ferrari inferiore alla concorrenza. Hamilton ha vinto i suoi Mondiali con la migliore vettura o comunque con un mezzo meccanico alla pari del migliore (la McLaren del 2008) e non ha mai combattuto davvero per il titolo nell’epoca d’oro della Red Bull, come invece riuscì a fare Alonso su una Ferrari a tratti malconcia.

 

Il passaggio di consegne tra Hamilton (su McLaren) e Schumacher (su Mercedes): l’infinito e durissimo duello a Monza nel 2011.

 

Anche se entrambi hanno cavalcato l’onda di un lunghissimo ciclo vincente, la percezione generale è che in qualche modo l’opportunità di guidare una vettura imbattibile sia piovuta un po’ dal cielo su Hamilton, non concedendogli quella lunghissima fase di rinascita e di ricostruzione intrapresa da Schumacher in Ferrari. Un percorso iniziato nel 1996, abbandonando la Benetton detentrice del titolo da due anni e rifiutando la vettura che probabilmente gli avrebbe regalato almeno altri due titoli consecutivi, la Williams, come rivelato recentemente da Jochen Mass.

 

Una scelta, quella di Schumacher, le cui dinamiche finiranno per assomigliare in parte al leggendario passaggio di Valentino Rossi da Honda a Yamaha, e che ha dato credibilità ai suoi trionfi in Ferrari. Una transizione verso nuovi successi che invece è stata molto più brusca nel caso della Mercedes e di Hamilton, frutto di una di quelle rivoluzioni regolamentari che ormai caratterizzano il mondo della F1 ogni tre o cinque anni: non si è trattato di un ciclo costruito lentamente e, quindi, in qualche modo più meritato, come quello di Schumacher, attraverso un lunghissimo lavoro in fabbrica perfettamente coordinato con il team, ma una serie di vittorie dovute più che altro al fiuto politico.

 

Chi è davvero Hamilton in pista

In Mercedes, Hamilton ha trovato la zona di comfort giusta per sprigionare a pieno il suo talento, sviluppandone potenzialità apparentemente nascoste. In particolare, nelle fasi centrali della stagione 2018 Hamilton sembrava aver alzato il proprio livello, non tanto nella guida pura in qualifica e sul bagnato (visto che continua ancora a soffrire talvolta sul giro secco nel confronto con Bottas) quanto soprattutto nella gestione e nella visione di gara, nel cosiddetto racecraft. Un aspetto in cui, fino a quel momento, era Alonso il padrone e in cui, forse più di ogni altro, ha reso immortale Schumacher – mentre ha reso talvolta più umana la guida semi-divina di Ayrton Senna sul giro singolo (perché anche in gara andava fortissimo, ma con meno continuità rispetto alla qualifica).

 

Nelle sue stagioni in McLaren insieme a Jenson Button, perfino nella prima stagione in Mercedes nel 2013 (quella antecedente alla rivoluzione ibrida), con una macchina tremendamente aggressiva sulle gomme, Hamilton non ha mai trovato continuità di risultati in condizioni difficili: troppo spesso vittima di una confusione strategica e di guida, che non giustificava appieno il suo scintillante e precoce talento. Oggi, nel bilancio tracciato dall’opinione pubblica, paga anche gli errori di quegli anni.

 

Di questo aspetto ha parlato approfonditamente il capo della Pirelli in Formula 1, Mario Isola, qualche giorno fa: «Quando arrivammo come fornitori nel 2011, Hamilton era il pilota con la guida più aggressiva ed era uno di quelli che mangiava più le gomme. Nei nostri meeting con i piloti era uno dei più disinteressati. Ha cambiato radicalmente approccio dopo il Mondiale perso contro Rosberg», ha sottolineato Isola, «È diventato molto più attento a tutti i dettagli. E difatti ora è uno di quelli che gestisce meglio le gomme».

 

Con una punta di invidia, ma forse con altrettanto realismo, Alonso ha recentemente evidenziato i duelli interni persi in McLaren nel 2011 (contro Button) e soprattutto in Mercedes nel 2016 (il titolo perso contro Rosberg) come elementi che rendono impossibile l’equiparazione del livello di Hamilton a quello di Schumacher. Forse Alonso voleva implicitamente introdurre anche sé stesso nel discorso, sottolineando come negli anni del dominio Red Bull avesse raggiunto un livello di credibilità più alto di quello di Hamilton.

 

Alonso è capitato forse nel periodo per lui peggiore della storia della Formula 1, un’epoca dove le gerarchie bloccate impongono un fiuto e una capacità politica di muoversi che raramente hanno contraddistinto la sua carriera: a conti fatti, invece, questo è proprio uno dei principali punti di forza di Hamilton, inscindibili nel suo percorso in pista. Gestirsi bene politicamente per ottenere la migliore vettura è il primo passo per poi spingere al massimo in pista, e per avere più sicurezza nella ricerca del migliore assetto nel corso del weekend, in modo da rendere più facile la gestione del passo gara e delle strategie.

 

Un circolo virtuoso che ha aiutato Hamilton a rendersi sempre più invincibile in queste ultime stagioni, anche quando la vettura non sembrava perfettamente bilanciata. Le imprese più iconiche di questa ultima parte della sua carriera sono entrambe nella stagione 2018: la clamorosa vittoria in rimonta al Gran Premio di Germania a Hockenheim (il punto più alto che simboleggia il suo successo nella rivalità con Vettel) e la supersonica pole position a Singapore, che fu descritta dal suo capo Toto Wolff come «un giro migliore di quello delle simulazioni ideali che avevamo».

 

Singapore 2018: uno dei migliori giri singoli della storia della Formula 1.

 

L’icona

Hamilton verrà ricordato come il pilota dalle capacità di guida più multiformi e polivalenti degli ultimi anni. Una sensibilità naturale davvero paragonabile a quelle di Senna e Schumacher: l’unica via possibile per il successo per un ragazzo proveniente da una famiglia nera non particolarmente benestante. Per vincere gara-2 del GP di Turchia del 2006 in GP2, una corsa che poi sarebbe passata alla storia, Hamilton decise di togliere tutto il carico aerodinamico all’alettone posteriore, con un assetto estremo che solo lui sarebbe stato in grado di indossare su quella pista. Nel 2018 la Mercedes mise a punto un telaio più rigido e difficile da guidare per vincere il campionato nella seconda metà di stagione, ma poté farlo confidando sulle incredibili abilità di guida del suo pilota di punta. È soprattutto grazie a questi piccoli dettagli che si può comprendere perché Hamilton siede al tavolo dei più grandi, più che utilizzando numeri che raccontano una realtà statistica ormai distorta dalle dinamiche della Formula 1, sempre più lontana dalla sua epoca classica.

 

Hamilton resterà, oltretutto, l’icona di un’epoca di transizione verso un mondo più inclusivo, con gerarchie sociali e barriere culturali via via meno rigide. Un obiettivo che lui stesso pone allo stesso livello di quelli sportivi: come nessun altro negli ultimi 25 anni in Formula 1 ha saputo usare i risultati per accrescere il proprio carisma, da sfruttare poi nelle battaglie politiche. Neanche Ayrton Senna, proveniente da una famiglia comunque benestante, era riuscito a rompere del tutto quella bolla di elitarismo che da sempre caratterizza il mondo della F1.

 

Hamilton è stato il primo pilota che ha intercettato l’importanza dello strumento dei social network come veicolo per sfoderare la propria influenza nelle cause sociali e forse col tempo l’attivismo di Hamilton accrescerà la propria importanza. Col tempo diventerà chiara la portata del suo personaggio, facendo emergere l’indissolubilità tra la sua celebrazione sportiva e quella sociale. In questi anni molti atleti (soprattutto dal mondo americano) hanno saputo sfruttare i nuovi mezzi di comunicazione per sensibilizzare il pubblico su temi non strettamente sportivi. Magari non avrà convinto tutti di essere il miglior pilota di sempre, ma probabilmente Hamilton dovrebbe essere ricordato tra i più carismatici della storia della Formula 1, uno dei pochi che sono riusciti a proiettare il proprio valore al di là delle abilità di guida.

 

 

Tags : lewis hamiltonmercedes

Federico Principi nasce nel 1992 e si ammala di sport. È telecronista della Serie C su Eleven Sports Italia. Ha scritto "Formula 1 2016: The review", un libro completo sulla stagione 2016 di Formula 1.

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