Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Andrea Agostinelli
Let's go Penguins!
14 giu 2016
14 giu 2016
Come i Pittsburgh Penguins hanno vinto la quarta Stanley Cup della loro storia.
(di)
Andrea Agostinelli
(foto)
Dark mode
(ON)

Esattamente sette anni dopo l’ultimo titolo, i Pittsburgh Penguins hanno conquistato la quarta Stanley Cup della loro storia con la vittoria per 3-1 in Gara 6 che ha chiuso la serie con i San Jose Sharks sul 4-2. Al contrario di quanto ci si aspettasse, la Final non è stata caratterizzata dall’equilibrio ma dalla costante supremazia di Crosby e compagni, che hanno dominato la serie imponendo un ritmo di gioco insostenibile per San Jose.

 

 



 

Le basi del successo nascono da una difesa rimasta fedele al suo piano originale: attaccare le linee di passaggio per correre in contropiede, adattandosi alla potenza di fuoco degli Sharks e ostruendo tutte le traiettorie di tiro possibile. I Penguins hanno alla fine chiuso la serie con 136 conclusioni bloccate. Tutti si sono messi al servizio della squadra: Bonino è stato il leader (22) ma nessuno si è tirato indietro. Nemmeno Sidney Crosby (8).

 


Come nell’azione che ha portato al definitivo 3-1 in Gara 6.



 

Alla vigilia, le note cerchiate in rosso sullo scout dei Penguins erano due:


 

Joe Thornton ha chiuso con soli 3 assist e -4 di plus minus mentre Pavelski ha realizzato solo un empty net in Gara 5 e per tutta la serie è sparito dai radar. Senza la certezza di una linea di tiro pulita, persino Brent Burns non è riuscito a incidere sul corso delle serie con i suoi tiri dalla linea blu. L’unico attaccante che non ha fatto mancare il proprio apporto è stato Logan Couture, ironicamente leader della serie con 6 punti. La macchina da gol che ha spazzato via tutti gli avversari lungo il percorso queste finali si è inceppata sul più bello, complice anche la capacità di Pittsburgh di limitare al minimo le situazioni di power play (10).

 

La solidità difensiva che ha fatto passare in secondo piano le prestazioni di Matt Murray, miglior attore non protagonista di questa serie. Murray ha retto psicologicamente alla pressione di una serie così importante e non ha fatto mancare il suo contributo (.920 di save percentage). Ad esclusione di un paio di passaggi a vuoto in Gara 5, Murray ha confermato in maniera definitiva il suo talento e l’off season si preannuncia caldissima. Il titolare designato, Marc-Andre Fleury, ha accettato di buon grado di occupare il ruolo di back-up in questi playoff solo per mantenere intatto l’equilibrio dello spogliatoio e raggiungere l’obiettivo. All’inizio della prossima stagione però Mike Sullivan dovrà fare una scelta chiara su quale dei due sarà il titolare. Non solo. La stagione 2017/2018 dovrebbe coincidere con l’espansione della lega e il regolamento dell’Expansion Draft, il meccanismo con cui una nuova franchigia costruisce il suo roster pescando in quelle delle altre squadre, prevede che possa essere tutelato un solo portiere.

 


I giorni di Fleury a Pittsburgh potrebbero essere finiti.



 

 



 

Se le cose in difesa hanno funzionato alla perfezione, in attacco è andata ancora meglio. L’idea di gioco era molto semplice: tirare da ogni posizione (206 in totale) per mettere in difficoltà Martin Jones e creare confusione davanti alla sua gabbia. Questa tattica ha permesso ai Penguins di alzare il proprio baricentro con continui forechecking alla balaustra che hanno impedito a San Jose di costruire comode transizioni dal terzo difensivo a quello offensivo.

 

Il più inspirato è stato Phil Kessel, da molti indicato come il reale MVP di questi playoff.

 e l’incredibile

, ha chiuso la Final con un solo gol all’attivo e così, sorprendentemente, il suo contributo maggiore è arrivato dagli assist, 3

 in

 per i gol realizzati da Malkin in power play. Insieme a Hagelin e Bonino, Kessel ha fatto parte della linea offensiva più produttiva di tutti i playoff, la HBK, la vera ragione per cui all’inizio della prossima stagione ci sarà un nuovo stendardo al Consol Energy Center.

 

A Toronto era

, qui a Pittsburgh è

. In questa semplice definizione c’è il senso dell’evoluzione di

, che ha confermato le statistiche della regular season raggiunte in maglia Maple Leafs ma si è tolto l’etichetta di perdente con 22 punti in 24 partite di playoff. Liberato dalla pressione che aveva sia in campo che con i media a Toronto, Kessel ha potuto esprimersi al meglio anche nel momento più importante della stagione conquistando il suo posto nella storia.

 


Satisfaction.



 

 



 

, avevamo parlato di come Crosby avrebbe giocato per la sua legacy. Vincere la sua seconda Stanley Cup gli ha permesso di raggiungere la leggenda della franchigia Mario Lemieux ma a dispetto del 2009, dove non poté giocare la sfida decisiva con i Detroit Red Wings a causa di un infortunio ad inizio partita, questo titolo ha un sapore speciale perché gli ha consegnato il Conn Smythe Trophy della sua carriera, forse l’unico grande titolo che ancora mancava alla sua bacheca.

 

C’erano pochi dubbi sul fatto che in caso di vittoria di Pittsburgh sarebbe stato lui l’MVP ma per interpretare questa nomina non bisogna contare i suoi numeri ma pesarli. Nelle due serie mediaticamente più importanti, questa e quella con i Capitals in semifinale di Conference, non ha segnato ma dei sei gol totali di questi playoff, tre hanno regalato altrettante vittorie con i Tampa Bay Lightning nel turno precedente.

 

Anche gli assist in queste finali hanno avuto un loro peso specifico. Su quattro, due sono arrivati in Gara 6, tra cui quello per il game winning gol di

. Ma come in difesa non si è sottratto al lavoro sporco, cercando di frapporsi a qualsiasi tiro, anche in attacco Crosby si è messo a disposizione dei suoi compagni. Un compito che si è tradotto in calamita per le

, senza risparmiarsi qualche

, e in faceoffs: 76 vinti su 138 (56,7%).

 


Big when it matters.



 

 



 

Disappointed è la parola più utilizzata dai giocatori di San Jose nelle interviste post-partita. Difficile credere il contrario dato che gli Sharks non sono riusciti a replicare la produzione offensiva delle tre serie precedenti. Un dato su tutti: zero, i minuti passati in vantaggio prima del

 in apertura in Gara 5. Proprio quella fase del match è stato l’unico momento dell’intera serie in cui si è rivisto il gioco dei californiani, fatto di cariche, transizioni veloci e conclusioni verso lo specchio per cercare una deflection, che arriverà per il

.

 

A mancargli è stata una compattezza mentale che permettesse agli uomini di De Boer di non commettere banalità anche nei momenti in cui non girava tutto alla perfezione. Non si spiegherebbero in altro modo le continue penalità: 30 minuti in totale che hanno portato a 13 situazioni di penalty kill con 3 gol subiti. Anche gli episodi non sono girati completamente a favore di San Jose, vedi la

 sul gol di Bonino in Gara 1 e i

colpiti da Hertl in Gara 2 ma allo stesso modo va sottolineato come le

di Martin Jones, record assoluto per una gara di finale terminata nei tempi regolamentari, abbiano di fatto permesso a San Jose di avere ancora una possibilità sul ghiaccio di casa.

 


Avranno perso sul campo, ma la gara degli inni è stata vinta a mani basse.



 

 



 

Il merito più grande di questa vittoria va accreditato al general manager Jim Rutherford, che nel corso degli ultimi 12 mesi è andato all-in per il titolo, correndo grossi rischi. Durante l’offseason ha realizzato le trade che hanno portato in Pennsylvania Kessel e Bonino. Poi, a dicembre, con la squadra che faticava a trovare una propria identità e stagnava nei bassifondi della classifica con un record di 15-10-3, ha cacciato l’head coach Mike Johnston per sostituirlo con Milke Sullivan, in quel momento sulla panchina degli Wilkes-Barre/Scranton Penguins, la squadra affiliata in AHL. Infine ha rifinito il suo capolavoro con le trade con cui ha ottenuto Daley dai Blackhawks e Hagelin dai Ducks prima della deadline.

 

Il secondo grande artefice di questa vittoria è ovviamente Mike Sullivan che ha preso una squadra sul fondo della lega e l’ha portata sulla vetta più alta. Ha fatto valere la sua autorità in spogliatoio e con il suo stile di gioco improntato alla massima velocità ha sbloccato l’enorme potenziale offensivo a disposizione. Per comprendere meglio gli effetti del suo lavoro, Crosby prima del suo arrivo aveva all’attivo 6 gol e 13 in 28 partite, nelle seguenti 52 partite di regular season ha messo a referto 30 gol e 36 assist.

Inoltre ha cementato la sua idea di gioco accelerando l’inserimento nel roster di alcuni rookie che aveva allenato in AHL. Oltre al già citato Matt Murray, Bryan Rust, Conor Sheary e Tom Kuhnhackl sono stati elementi fondamentali nella lunga corsa ai playoff confermando che ad oggi la profondità del roster, in ogni ruolo, è un tratto fondamentale per conquistare un titolo.

 



Daley, che non ha potuto giocare la Final a causa di una frattura alla caviglia, è stato il primo a cui Crosby ha passato la Stanley Cup. Dopo di lui è toccato a Pascal Dupuis, ritiratosi nel corso della stagione a causa di un problema di coagulazione del sangue.



 

La stagione 2015/2016 va in archivio ma la NHL non ha ancora finito i suoi appuntamenti ufficiali dato che il 24 e 25 giugno si terrà il Draft mentre due giorni prima, il 22, ci saranno gli NHL Awards ma soprattutto il Board of Governors che dovrebbe decretare l’espansione della lega con l’approdo della prima franchigia professionistica a Las Vegas.

 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura